14.11.05 |
Uno sguardo antropologico su pratiche e cognizione - Practice and Cognition, an anthropological view |
«L'idea di intervistare Cristina Grasseni e Francesco Ronzon a proposito del libro Pratiche e Cognizione (Meltemi, Roma, 2004) che li ha visti coautori, nasce nell'ambito di una ricerca realizzata dal Formez sulle comunità di pratica come fenomeno organizzativo e come luogo di produzione e rielaborazione delle conoscenze. Il volume infatti offre al pubblico italiano una introduzione sistematica alle indagini ecologiche sul nesso tra pratiche e cognizione, sviluppata all'interno dell'antropologia culturale. Seguendo un'analisi tematica, la mente, le abilità, il linguaggio e i processi di apprendimento e organizzazione sono indagati come esito di una serie di relazioni con il proprio ambiente naturale e sociale, continuamente aperte e in evoluzione. Ne emerge un originale e innovativo dialogo interdisciplinare radicato nell'analisi di casi etnografici tratti dal mondo dell'arte, della scienza e della vita quotidiana. I riferimenti teorici del libro coprono un'area di dibattito ancora poco presente all'interno dell'antropologia italiana. Come e perché avete iniziato a interessarvi a queste tematiche? Francesco: Per quanto mi riguarda la questione si è posta in questi termini: ho iniziato con un interesse verso i temi del mentale e del cognitivo, abbinato però ad una marcata insoddisfazione verso la rigidità e astrattezza dei modelli offerti dal cognitivismo e dall'antropologia cognitiva "classica" (ad es. etnoscienza). In seguito a questi "cul de sac" teorici mi sono spostato dunque verso l'antropologia interpretativa (Geertz) e fenomenologica (Csordas) attratto dalla sua più ampia densità e profondità ermeneutica. Anche qui sono però rimasto deluso. La bassa analiticità e il permanere di una sensibilità fortemente idealistico-rappresentativa mi costringevano infatti a lasciar cadere ancora una volta ogni questione relativa a come gli individui operano nel mondo reale nel corso delle loro attività concrete. Alla fine, dopo varie ricerche e pellegrinaggi intellettuali, sono arrivato alla conclusione che le teorie esposte e presentate nel libro siano le più adatte a offrire una mediazione tra rigore analitico e densità interpretativa. In quanto antropologi, quali potenzialità vedete nell'investigare attraverso metodologie di tipo etnografico contesti di "pratica esperta", come li definite nel libro, non solo quelli scientifici? Francesco: In quanto apprese e praticate a livello sociale tutte le attività umane sono passibili di indagine ecologica: una bottega d'arte, una setta religiosa, un laboratorio scientifico, un ufficio di impiegati comunali... In modo analogo, anche l'uso di un approccio etnografico risulta un passaggio direttamente conseguente alle premesse teoriche. Se la relazione individuo-ambiente non solo è necessaria ma anche inevitabile è ovvio che la sua analisi non possa prescindere dall'analizzare le modalità con cui questa interazione ha luogo in concreto: in un certo luogo ed in un certo tempo. Ciò a sua volta comporta essere sul posto mentre tutto questo avviene. Non trattandosi di un processo rigido e meccanico solo essendo presenti al suo svolgimento si possono cogliere e rilevare i fattori pertinenti alla comprensione del processo e dei suoi risultati finali. Cristina: Questo significa, per gli antropologi, affinare la sensibilità al modo in cui si organizza l'azione nell'ambiente, cioè quali qualità relazionali, ma anche ideologiche ed egemoniche, emergono e si sviluppano proprio grazie a determinate gestioni locali delle pratiche - che siano pratiche professionali o ludiche, informali o formalizzate, conoscitive o quotidiane. Tra l'altro ciò getta una luce molto diversa sul concetto di sapere esperto, di cultura materiale e di tecnologia. Queste non costituiscono saperi di nicchia, patrimonio di folkloristi col pallino per il tecnico, ma costituiscono l'ordito su cui si intessono i discorsi identitari, di senso, dominanti o sub-culturali, di cui si occupano gli antropologi nelle loro analisi della complessità e della contemporaneità. Il concetto di "comunità di pratica" ha avuto negli ultimi anni un periodo di intensa fioritura; anche voi dedicate ad esso uno spazio di riflessione nel libro. Come le comunità di pratica contribuiscono alla costruzione di identità individuali e collettive? E in che modo incidono sui processi di apprendimento? Cristina: Il concetto, anche se evocativo di per sé, consente in realtà un ventaglio di approcci analitici proprio alla costruzione di identità individuali e collettive e ai processi di apprendimento. Un sotto-concetto chiave è quello di partecipazione periferica legittimata, che l'antropologa Jean Lave ha messo a punto con Etienne Wenger per analizzare i processi di apprendimento in termini di socializzazione progressiva. Si impara, cioè, per progressiva ammissione in ruoli determinati all'interno di comunità di pratica, assumendo successivamente posizioni da periferiche a sempre più organicamente integrate. L'apprendimento si configura quindi come un apprendistato che prevede l'apprendimento continuo e il coinvolgimento di tutta la persona, con le sue qualità relazionali, la sua storia precedente, le proprie abilità pratiche, e il posizionamento all'interno di reti di relazioni e di gerarchie di potere interne ed esterne. Francesco: La nozione di comunità di pratiche è un termine oggi molto usato ma anche molto abusato. Molto spesso si limita ad essere uno slogan astratto per meeting aziendali o per dibattiti teoretico-filosofici. I livelli di analisi toccati dagli autori presentati nel corso del libro (da micro a macro), invece, vogliono proprio offrire una "cassetta di strumenti" intellettuali per sviluppare delle reali ricerche empiriche. In questo senso, per quanto concerne sia i temi dell'identità e sia quelli dell'apprendimento, il libro non offre dunque un unico modello interpretativo buono per tutte le stagioni, ma un repertorio di risorse teoriche per anatomizzare in modo dettagliato i vari contesti e le varie situazioni socio-culturali dell'agire nella loro specificità locale. Analizzare l'educazione di un bimbo in Italia o in Siberia vuol dire prestare attenzione non solo ai valori e ai significati in generale, ma anche e soprattutto ai tipi specifici di training al quale viene sottoposto: insegnamento scolastico formale, tutoraggio informale di villaggio, e così via. In egual modo l'identità collettiva di una tribù indiana, degli operai della Fiat e degli integralisti cattolici U.S.A. differiscono tra loro non solo per i contenuti ma anche per le modalità pratiche che le generano: i riti e le cerimonie a sfondo cosmologico, il gossip sulla figura di Gianni Agnelli o le letture sulla storia delle lotte operaie nel '900, il rigido controllo delle piccole comunità rurali e le prediche catodiche dei tele-evangelisti.» Leggi l'intera intervista nel web-magazine Formazione & Cambiamento. |
English version About the topic, already touched upon in the previous posts, of the role played by communities of practice in the processes of emergence and management of innovation, I wish to draw the readers' attention to the interview by Mara Benadusi, to myself and Francesco Ronzon, about our recent book Practice and Cognition. Notes of ecology of culture, on line at "Formazione e Cambiamento", the webmagazine of FORMEZ, (V/ 37, October 2005). «The idea of interviewing Cristina Grasseni and Francesco Ronzon about the book Pratiche e Cognizione (Meltemi, Roma, 2004) of which they are co-authors, stems from a research project of Formez about communities of practice as a phenomenon typical of organisations and as a locus of production and reproduction of knowledge. This volume offers to the Italian readership a systematic introduction to the ecological investigations on the link between practice and cognition, as seen from the discipline of cultural anthropology. Mind, skills, language and processes of apprenticeship and organization are investigated as the result of a number of open-ended and evolving relations with one's natural and social environment. The outcome is an original and innovative interdisciplinary scenario that is rooted in the analyses of ethnographic cases drawn from the worlds of art, science and everyday life. The theoretical references of your book are still little debated in Italian anthropology. How and why did you come to deal with these topics? Francesco: I began with an interest for mind and cognition, being dissatisfied with the rigidity and abstraction of the models offered by cognitivism and by "classic" cognitive anthropology (such as ethnoscience). To get out from these theoretical dead ends I moved towards interpretive anthropology (Geertz) and phenomenology (Csordas). But here I was dissatisfied by the lack of analiticity and also by the residue of idealist sensibilities in the hermeneutic tradition. I wanted to answer questions about how individuals operate concretely in the actual world. So after all these theoretical wanderings I came to the conclusion that the theories we deal with in our book are the best sofar at offering a mediation between analytical rigour and interpretative thickness. As anthropologists, which potentials do you see in the investigation of expert practice, and not only scientific practice, through ethnographic methods? Francesco: Every human activity can be investigated ecologically, since they are all learnt and practiced socially: an art workshop, a religious sect, a scientific laboratory, a civil servant's office. The same goes for an ethnographic approach. If the relationship between individuals and environment is not only necessary but unavoidable, its analysis cannot avoid the modalities in which such interaction takes place concretely in a definite time and place. Since these are not mechanical and rigidly determined processes, only by being present during their unfolding you can observe and underline the factors that allow to understand the process and its final outcome. Cristina: For an anthropologist this means to be sensitive to the ways in which action is organised in an environment, that is to the relational, ideological and hegemonic qualities develop from specific and local ways of managing practice - whether these are professional or playful practices, informal or formal, knowledge-oriented or action-oriented. This also sheds new light on the concepts of expertise, skill, material culture and technology. These need not stand for niche-knowledges that only interest technologists and foloklorists. These represent instead the very texture of identity discourse, sense-construction, dominant or marginal cultures - all topics that anthropologists wish to unravel in their analyses of the complex contemporary world. The concept of "community of practice" has met a keen interest in the latest years; you too devote a specific space to it in your book. How do communities of practice contrubute to individual and collective identity construction? How do they impinge on learning processes? Cristina: The concept, however evocative in itself, contains in fact a wide range of analytic approaches to identity construction and learning. A particularly relevant notion is that of legitimate peripheral participation, which the anthropologist Jean Lave has developed together with Etienne Wenger in order to study learning processes as socialisation processes. One learns through a progressive admission to more and more central roles within a community of practice, moving from the periphery to more integrated roles and responsibilities. Learning is then viewed as a process of continuous apprenticeship which involves the whole person, with her relational capacities, her life history, her practical skills, and her positioning within a network of relationships and hierarchies both internal and external to one community of practice. Francesco: The notion of community of practice is often used but also abused, to the point of becoming a slogan for company meetings or theoretical debates. By offering several levels of analyses in our book, quoting different authors and examples from the micro- to the macro sphere, we wish to offer a tool box to develop empirical researches. We do not offer one model of identity or learning, but a repertoire of theoretical resources that can be tapped and adapted to various socio-cultural context. So for instance to study children's learning in Italy or Siberia does not only mean studying values and meanings, but specific types of training: from formal school learning to informal village tutoring. Similarly, the collective identity of a native tribe, rather than of factory workers, or of a Christian integralist sect differ not only for the contents of their beliefs but for the practices they generate: rites and cosmological ceremonies, gossip about the boss or reading circles about class struggle, the social control within rural communities or the televisual preachings of charismatic religious leaders.» Read the entire interview (in Italian) on the web-magazine Formazione & Cambiamento. |