Quale responsabilità? -parte 2- (...continua dal post precedente) | |
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Ringraziando tutti coloro che hanno finora partecipato al call, approfitto della necessità di fare l'annuncio della sua prossima chiusura, prevista per il 1 aprile, per rilanciare alcuni aspetti della problematica sollevata. Si è lanciata la sfida di pensare un nuovo concetto di responsabilità e si è considerata l'opportunità, ma anche tutti i rischi relativi, di sostituire al valore la procedura, valutata per efficienza rispetto a certi parametri. La domanda si sposta quindi da: a quali valori debbo rispondere per essere un individuo responsabile a: quali parametri debbo misurare per valutare la responsabilità di un progetto o un processo? Varrebbe la pena considerare congiuntamente sia gli aspetti espitemologici che quelli politici di questa proposta. L'innovazione per definizione esclude la possibilità di essere un puro frutto di calcolo razionale. Per essere tale l'innovazione contiene un elemento di rischio, di creatività e, a volte, di passione - questo è emerso con chiarezza in occasione del corso recentemente tenuto dalla Fondazione Bassetti all'Università Carlo Cattaneo - LIUC di Castellanza (di cui sono di prossima uscita i Quaderni). Fa da sempre parte della filosofia della Fondazione la convinzione che l'innovazione non coincida con la creatività o con il pensiero creativo, che si possa cioè parlare di innovazione solo laddove si verifichi la realizzazione dell'improbabile: un oggetto, un corso di azione o un sistema di pratica che si stabilisce nella realtà e la influenza durevolmente. Siamo quindi nel campo dell'azione piuttosto che del pensiero. Ora, potrebbe essere interessante considerare la responsabilità dell'innovazione in termini di responsabilità nella produzione della conoscenza: la recente intervista a Ignacio Chapela condotta da Jeff Ubois per conto della Fondazione segue proprio questa falsariga. Chapela sostiene che la responsabilità dell'innovazione consisterebbe nel garantire la diversità del pensiero contro l'iper-specializzazione, allo stesso modo in cui occorre garantire la biodiversità. Ecco perché la sua critica dei circoli viziosi nel sistema di peer-review per la pubblicazione degli articoli scientifici merita attenzione, al di là della sua vicenda personale e intellettuale. A questo punto sarebbe conveniente per gli stessi scienziati affrontare direttamente la questione della loro responsabilità, per potersi meglio accreditare presso il pubblico. Ma di quali strumenti avrebbe bisogno un osservatore esterno per misurare la presenza o meno della responsabilità? Per rispondere, occorrerebbe riuscire a definire di volta in volta il contesto adatto per immaginare l'effettiva sfera di influenza, e l'ordine di grandezza degli effetti, di ogni singola innovazione. Latour pone esattamente questo problema quando invoca un parlamento delle cose (nella sua Lecture Nessuna innovazione senza rappresentanza! organizzata dalla Fondazione Bassetti e di prossima pubblicazione nelle Lectures della Fondazione Giannino Bassetti, 2002-2005. Il Parlamento delle cose dovrebbe provocatoriamente tenere in considerazione i contesti sociali, umani, demografici, naturali etc. dell'azione innovativa. L'innovazione, tuttavia, non è solo nelle mani degli scienziati. Anzi, la Fondazione da tempo sottolinea il ruolo storico e politico degli innovatori che cambiano lo stile di vita e la visione del mondo della gente introducendo oggetti e corsi d'azione nuovi o efficaci nelle loro routine quotidiane (pensiamo al personal computer, agli interfaccia e ai software, ma anche alla minigonna, ai piatti e bicchieri di plastica... Ci si potrebbe chiedere (e si dovrebbe chiedere loro) se questi innovatori influenti sono consci del loro ruolo nella storia, e se si pongono la questione della politicità del loro agire. In altri termini, si pongono il problema degli scopi e della direzione in cui si muovono le loro innovazioni? Parrebbe di no, se, come nota Daniele Navarra riportando il suo colloquio con Nicholas Rose (Science, politics and responsibility: an agenda for the governance of innovation and technology), "ciò che la biotecnologia, la genetica e le tecnologie dell'informazione e della comunicazione hanno in comune è che sono state tutte introdotte senza poter prevedere quali ne sarebbero stati gli effetti sul lungo e medio periodo. Nessuno pernsò che queste innovazioni avrebbero fatto progredire l'umanità e reso disponibili nuove risorse nel modo in cui fece per esempio Internet. Del resto, nessuno pensò che questa avrebbe ugualmente incentivato la pornografia come la pubblicizzazione della sequenza del genoma umano". Rimangono perciò aperte tutte quante le domande poste inizialmente, che riassumiamo e rilanciamo così: |
English version First of all thanks to all those who have so far contributed to this call for comments, which I plan to close on April 1st. I briefly recapitulate the line of reasoning followed so far. An interesting reflection on this aspect can be found in Michael Power's article, From Risk Society to Audit Society, which links up explicitly Beck's notion of risk society with Strathern's definition of an audit culture. In a risk society, "new information structures are required in order to challenge and shift the boundaries between insiders and outsiders and to reconnect decision makers with their remote publics". As a result, "audit represents a distinctive style of risk management". The notion of risk, in fact, is always relative to a theory of knowledge: "ways of knowing are ways of being ignorant". Beck's notion of a risk society can thus be read as the political translation of an epistemological notion, that of a complex system. Amongst the political aspects of an epistemology of risk, then, the most disturbing is that "other disciplines, such as accounting, have begun to replace the cultural authority of science" - and I would add, of a political science. This happens because "accounting as a technology for managing uncertainty translates the spontaneous disturbances of daily transactions into manageable data for decision making purposes". The Foundation has always maintained that innovation does not coincide with creativity or creative thinking alone. One can speak of innovation only when something improbable is made real: an object, a course of action or a system of practice that exerts durable influence on society. To schematise it grossly, we are therefore in the field of action rather than thought. It would be interesting to depart slightly from this position and consider responsibility in innovation in terms of responsibility in the production of knowledge. The recent interview to Ignacio Chapela by Jeff Ubois follows exactly this course. Chapela maintains that responsibility in innovation consists in guaranteeing diversity of thought against hyper specialisation, analogously to biodiversity. This is why his critique of the vicious circles in the peer-review system deserves attention beyond his personal plight. Indeed, it would be convenient for the scientific establishment to show that they are facing the issue of their responsibility in order to gain more credit amongst the public. Which only re-launches the question: which tools would be needed in order to ascertain the presence of responsibility? in order to answer, one should be able to define each time the context, the influence and the scale of the effects of each innovation. Latour poses this problem when he advocates a Parliament of things (in his Lecture No Innovation without Representation!, shortly in press in the Lectures della Fondazione Giannino Bassetti, 2002-2005. A Parliament of Things is a provocation to think about the social, demographic and natural contexts of innovative action. Innovation, though, is not only in the hands of scientists. The Foundation has been underlining the historical and political role of innovators who change lifestyles and worldviews by introducing relevant objects and efficacious courses of action in everyday routine (take for instance the personal computer, interfaces and softwares, but also the miniskirt, plastic plates and cups, etc....) One should ask whether such innovators are aware of their relevance in history, and whether they consider the political outcomes of their actions. Do they pose themselves the question of the aims and scopes of their innovations? The initial questions are all open, and I sum them up thus: |
Using Michel Foucault's notion of governmentality, I am interested in how genetic knowledge and genetic technologies are used in the government of individuals and populations, how medical practices and diagnostic tools function as political technologies on the one hand and as moral technologies on the other hand.
In my work, I recently concentrated on a strategic element in this "genetic government": the discourse of genetic responsibility. My thesis is that the discourse of "genetic responsibility" relies on the scientific and technological progress in genetics since the 1970s, but it also linked to the political success of neo-liberal programs and transformations that increasingly individualize and private the responsibility for social risks. I try to show the rise of new obligations and the displacement of rights that are brought about by referring to a "genetic responsibility".
In risposta al vostro call, vi invio questi appunti per la relazione al IV Convegno Nazionale della Società GruppoAnalitica Italiana (SGAI) (Milano, 11-12 marzo 2006) sul tema della risonanza partecipe, ovvero su come sostenere la responsabilità come responsiveness.
By eaesthetic I mean responsive to the pattern which connects (Gregory Bateson)
1. Crisi del principio di responsabilità. Come possiamo "assumerci le nostre responsabilità"? Questa espressione ha (aveva?) un significato efficace soltanto nel contesto simbolico "modernità solida" (Z. Bauman, Modernità liquida, 2002). Solo in esso, infatti, sono presenti i 3 requisiti indispensabili:
- l'individuo autocontenuto, "kantiano", come unità elementare della società, al quale l'azione può essere imputata dagli altri e da sé (invece che al fato, alla natura, agli dèi o ai potenti divinizzati);
- la rappresentazione lineare e deterministica del rapporto azioni-consequenze ("consequenzialismo"), sulla traccia del rapporto causa-effetto della meccanica classica;
- l'aspettativa socialmente condivisa di una morale universalistica come traguardo ormai imminente, una morale nella quale tutti gli individui possono presumere che anche gli altri si comportino secondo gli stessi criteri con sé e con gli altri.
Oggi, in tempi di liquefazione della modernità:
- la morale universalistica lascia il campo alla pluralità delle etiche (già Weber: "politeismo dei valori");
- la rappresentazione collettiva lineare del rapporto causa-effetto ha da tempo lasciato il campo, nel senso comune, a rappresentazioni complesse, non lineari, aperte all'imprevedibilità (anche se "mal sopportate", per il permanere inerziale dei modelli lineari) (F. Pardi, L'indifferenza dell'etica, 1996); ciò comporta che anche la proposta weberiana, l'etica della responsabilità come etica fondata sul calcolo delle conseguenze prevedibili delle azioni (M. Weber, La scienza come professione. La politica come professione, 2004), appaia insufficiente.
Il destino del principio di responsabilità è segnato?
Ciascun individuo potrebbe efficacemente ricorrere ad esso, parrebbe, soltanto in contesti limitati, quelli della singola comunità "locale" (territoriale, tribale, professionale, organizzativa o altro). Per il resto, nel mondo più grande, rimarrebbe un'etica puramente procedurale, negoziale, giuridicizzata. Un'etica "razionale", priva di ethos, come sono le etiche "applicate" (bioetica, etica degli affari, ecc.).
2. L'etica della compassione per le vittime. Ma è davvero alla fine il principio di responsabilità? Forse no. Forse un'etica universale dotata di ethos ha già cominciato a radicarsi, a livello locale e globale. Con una forte accelerazione negli anni 90. È l'etica fondata sulla compassione per le vittime (R. Girard, Origine della cultura e fine della storia, 2003). Sull'idea evangelica del perdono e sulla estensione del riconoscimento di diritti alle più diverse minoranze, che quell'idea ha reso pensabile e praticabile. La retorica del perdono e del diritto non si vanno forse rapidamente estendendo, in particolare dopo il crollo del Muro di Berlino (W. Doise, Droits de l'homme et force des idées, 2001)? Al punto che persino un despota come Putin non può esimersi dal "pagar dazio", e chiede oggi quasi scusa per l'invasione della Cecoslovacchia?
È un'etica, come mostra proprio il caso di Putin, spesso pervertita dal tatticismo dei persecutori (astuzia del pentimento: J. Baudrillard, Il patto di lucidità o l'intelligenza del Male, 2006), come pure, dal lato opposto, dal vittimismo opportunista delle vittime. Ma constatare queste perversioni non confuta la rapida affermazione di quell'ethos. Anzi. Del resto, un'etica che non sia accompagnata dalle sue perversioni non è oggi più pensabile. Se cercassero di propinarcela, la troveremmo sospetta. E un'etica radicale, appena nata, come quella della vittima, aggiungo, rischia ovviamente di venir sopraffatta, per il fatto che germoglia su millenni di profonda assuefazione alla morale rassicurante dei vincenti, dei rampanti, degli eroi, dei persecutori. L'etica che ci fa ancora oggi ammirare Napoleone. Che ci fa ancora studiare Romolo, a scuola, senza alcuna curiosità per Remo, la vittima (M. Serres, Roma, il libro delle fondazioni, 1986).
L'etica della vittima è quella di Caino e Abele, che incolla ormai il nostro sguardo, volenti o nolenti, al Remo dei due, Abele, e insieme, addirittura, a quell'altro potenziale Abele (ovvero della nostra sete di capri espiatori) che è Caino stesso: "Nessuno tocchi Caino". Romolo, non dimentichiamo, finì squartato dai senatori. (altro "dettaglio" che a scuola viene ignorato: neppure la vita personale di Romolo incuriosisce lo sguardo rapito dalla grandezza dei "vincenti") (S. Manghi, "Credere senza credere", in Segno, n. 270, 2005).
È un'etica condivisa, quanto meno in rapida espansione (sempre più sono coloro che parlano in nome della vittime, oltre alle vittime stesse), dunque non è mera certificazione procedurale, notarile, di differenze. Ma diversamente dalla Morale unificata della modernità, e dall'etica delle buone intenzioni, non è un'etica precettistica e dottrinaria "in positivo". È un'etica per così dire "in negativo": mai più vittime innocenti. Come poi mantenere questo patto, concretamente, in positivo, è una questione che non ammette ricette predefinite. Ma questo comandamento negativo, concretamente attuato, coincide a ben vedere con un comandamento positivo a noi tutti ben noto: ama il prossimo tuo come te stesso. Il meno dottrinario, autoritario e moralistico dei comandamenti.
Coltivare questo tipo di etica è scommettere sull'improbabile, per dirla con E. Morin (L'etica, 2006), che anche nel suo recente volume sull'etica ribadisce nitidamente la necessità del perdono. Quelle che ho chiamato le sue perversioni sono tutt'altro che fragili. Ma ciò non toglie che guardandoci intorno possiamo scorgere nitidamente i segni del suo diffondersi, a livello locale e globale: telefoni azzurri e di mille altri colori, minoranze che non ambiscono a rovesciare il mondo a ma a veder riconosciuti i loro diritti in questo; rappresentanti istituzionali (cioè maggioranze) che chiedono scusa, riconoscono diritti e risarcimenti (lo stato francese ha istituito qualche anno fa un "Segretariato per le vittime"); Papa Vojtila ha chiesto perdono in pochi anni, oltre che agli ebrei, a un altro numero imprecisato di vittime della Chiesa cattolica; persino la natura, ormai, ce la rappresentiamo come vittima, e le chiediamo perdono, riconoscendole dei diritti.
Il nostro "senso di colpa", quando non è avvitamento narcisistico e impotente su se stesso, si può fare generatore di riparazioni creative, di allargamento degli orizzonti, di invenzioni relazionali e politiche impensabili. Nella vita quotidiana come nelle dinamiche planetarie.
3. Responsabilità come responsiveness. Nella misura in cui appare ragionevole scommettere, anche molto rischiosamente, su questa etica, su questo ethos condiviso, il principio di responsabilità torna a mostrarsi efficace. Il punto d'imputazione dell'azione, per questa forma della responsabilità, non è più però l'individuo autocontenuto, con la sua capacità "kantiana" di autoriflessione e/o quella "weberiana" di calcolo. L'unità elementare dell'interazione sociale diventa l'individuo-in-relazione. Dove, con G. Bateson (Mente e natura, 1984), la relazione viene prima (cfr. S. Manghi, La conoscenza ecologica. Attualità di Gregory Bateson, 2004).
Esser parte di danze relazionali - trama connettiva: pattern which connects - non è oggetto di scelta e non può essere pilotato attraverso il calcolo razionale delle conseguenze prevedibili. Che lo vogliamo o no, siamo "per sempre coinvolti", per parafrasare un celebre cantautore, Fabrizio De André, come pochi altri attento alla condizione della vittima. Siamo coinvolti negli effetti prevedibili come in quelli (crescenti) imprevedibili delle nostre azioni. Nel bene come nel male. Il termine batesoniano responsive, indica appunto questo nostro essere esposti attivamente all'altro, un essere esposti reciproco, ineludibilmente attivo, che fa sì che a nessun individuo, nel corso delle danze relazionali alle quali prende parte, sia possibile non-reagire-a, non-rispondere-a, non-essere responsivo-verso - al di là della coscienze delle intenzioni. Responsiveness è un termine che incorpora il nostro essere mammiferi, dunque "estetici", nel senso implicato dalla citazione batesoniana, ovvero emozionalmente sensibili alle forme danzanti delle relazioni, delle trame connettive (pattern which connects) di cui siamo parte ininterrottamente.
In italiano il termine responsive è stato tradotto dall'ottimo Pino Longo, opportunamente, con sensibile ("Per estetico intendo sensibile alla struttura che connette"). La parola italiana sensibilità è connotata da un certo fisiologismo, magari venato di romanticismo: il corpo contro la mente (dualismo che Bateson, come si sa, considerava aberrante, anche nella sua versione "capovolta", quella qui chiamata per brevità romantica). Non mi permetterei di suggerire, beninteso, una traduzione diversa. Ma in questa nostra discussione sull'idea di responsabilità, e solo limitatemente a questa, vorrei provare a suggerire una diversa traduzione di responsiveness (un po' macchinosa perché ricorre a due parole): risonanza partecipe.
Di questa risonanza partecipe stiamo forse solo ora divenendo consapevoli, e proprio attraverso l'identificazione nello sguardo della vittima, cioè attraverso le rivelazioni che possono venire solo dall'esercizio radicale, letteralmente impossibile, eppure ineludibile, del riconoscerci in quello sguardo, lo sguardo dei sommersi (P. Levi, I sommersi e i salvati, 1986). Attraverso quelle rivelazioni possiamo trovare il coraggio di scorgere in noi, in noi salvati, non soltanto la vittima potenziale, che sarebbe solo la metà della rivelazione, per così dire, ma anche, e insieme, l'altra metà: il persecutore, magari mascherato con le migliori intenzioni, con la più specchiata di quelle che Weber chiamava le etiche della convinzione, più attente a procurarsi il paradiso nell'aldilà che a occuparsi di quel che ci accade concretamente nell'aldiqua.
La piena consapevolezza della nostra risonanza partecipe alla danza interattiva delle nostre co-esistenze e dell'intero mondo creaturale di cui siamo parte (Bateson), diventa fattualmente possibile soltanto se accogliamo il nostro potenziale essere, insieme, ineludibilmente, Abele e Caino, per noi stessi e per gli altri. A questa condizione, la parola responsabilità, intrisa di responsiveness, può tornare ad avere tra noi - forse sta già tornando ad avere - un significato efficace. Un significato di co-responsabilità ineludibile.
Sergio Manghi
Docente di Sociologia della Conoscenza
Università degli Studi di Parma
I am interested in innovative ways of combining (often contradictory) conceptions of sustainable development with market liberalism. One solution may well rest on the removal of informational barriers between the socio-economic spheres of production and consumption, i.e. the development of Consumarchy.
Consumarchy (from consummare (Lat.), to consume, and arkhê (Gr.), command) is defined in contrast to consumerism; the pursuit of self-interest, dear to consumerism, generally gives way to the effects of a sense of openness and solidarity within the consumarchic system.
Thanks to consumarchy, consumers have the choice of combining, in their purchasing decisions, the proximate attributes of goods (e.g., their price or manufacturing quality) with their peripheral attributes (e.g., the conditions under which they are produced). It may then be viewed as a system by which consumers can exert moral or other authority on enterprises through a more enlightened selection of consumer products.
To date, environmental protection (also understood as the promotion of future generations' well-being), decent working conditions, as well as the humane treatment of animals are among the spheres toward which the ethical preferences of consumers appear to be heading. Among the most advanced forms of consumarchic devices are the dolphin-safe, fair-trade, child labour free, and forestry (eco-) labelling initiatives.
Potential inroads in the horizontal development of consumarchy exhale a more radical flavour. Gender labelling and (anti-)extreme inequality labelling offer plausible market-based schemes amenable to reducing inequalities in the work arena, in spite of an old dogma to the effect that non-state egalitarianism is the "most utopian project that can be conceived"!
Consumarchy therefore calls for a more cautious appreciation of the seeming paralysis of liberal democracies' reforming power, in response to Habermas' alleged "exhaustion of utopian energies" in the post-socialist tide or the announcement by Fukuyama that 1987 would mark "the end of History"...
Martin Dumas
London School of Economics
Io credo che un punto di partenza fecondo possa essere l'osservazione che oggi abbiamo una idea pubblica, "politica" di innovazione che riguarda solo i "sistemi tecnologici" e i "sistemi biologici".
Non si parla di investimenti sistematici, pubblici, politici per la comprensione dei sistemi umani: come "funzionano", come si sviluppano. Ed è completamente dimenticata l'innovazione nei modelli e nelle metafore con le quali si guarda il mondo
Per buttarla in esempi: non si investe sistematicamente nel comprendere quale è il processo attraverso il quale nasce e si sviluppa una impresa. Viene nascosto dietro etichette banali come " creatività", "propensione al rischio" e via . "sciocchezzando".
Più in generale non si investe sistematicamente nel comprendere come nascono fenomeni come il miracolo economico italiano. Più in generale ancora, non si investe, al di là di sforzi individuali, specialistici, nel comprendere come si sviluppano i rinascimenti.
Per quanto riguarda i modelli e le metafore con le quali descrivere il mondo, si è ancora a livello di iniziativa e di buona volontà personali o "piccolo sociali". Lo dimostra la "epistemologia" (preferirei chiamarla metafora) della complessità.
Provando a sintetizzare: sviluppiamo (o ci proviamo) a sviluppare politiche per l'innovazione tecnologica. Ma non pensiamo alla innovazione nella comprensione dei sistemi umani o nello sviluppo della metafora della complessità. Questo dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, che il problema sociale fondamentale è che non si riesce a superare la cultura industriale. Non siamo entrati nella società della conoscenza perché usiamo le ICT!
Allora nei confronti della sfida dell'innovazione il primo livello di responsabilità è quello di evitare i peccati di omissione. Occorre allargare il concetto di innovazione: dai sistemi tecnologici e biologici, ai sistemi umani ed ai modelli ed alle metafore per comprendere i sistemi umani.
Se si provasse ad utilizzare la metafora della complessità per comprender come si sviluppano i sistemi umani (come si crea una impresa, come si crea un miracolo economico, come si crea un rinascimento) si scoprirebbe che tutti questi sono processi di creazione sociale di conoscenza. Essi evolvono come evolve un sistema autopoietico: attraverso una crescita creativa che poi si arresta. Trasforma il sistema in un sistema autoreferenziale che progressivamente riduce la sua capacità di scambio con l'ambiente esterno. E, a causa di questo, perde di significato, generando alla fine una "catastrofe" (nel senso della teoria delle catastrofi). Nel caso del corpo umano: la morte. Nel caso di una impresa: il fallimento. Nel caso del nostro sistema industriale .. non si è ancora convinti che stia arrivando piano piano a perdere di senso economico. Nel caso del Rinascimento a generare . "è del poeta il fin la maraviglia".
A questo punto nasce una domanda: ma i processi di evoluzione umani sono proprio destinati "fatalmente" a finire in una catastrofe? La storia ci insegna che l'evoluzione umana è proceduta sono attraverso rivoluzioni: dalla invasione di Gilania da parte dei Kurgan, all'invasione (feconda) dei concetti di "libertè, fraternità, egalitè" attraverso la rivoluzione francese.
Credo che la risposta sia decisamente no! Credo che sia possibile immaginare un "metodo" per far sì che questi processi di chiusura autoreferenziale non avvengano. E non sia costretti a evolvere attraverso catastrofi. Per rimanere nel concreto: non si riesca a cambiare un sistema industriale solo quando è fallito, con tutte le catastrofi che un fallimento comporta. Oppure non si cambi una società se non attraverso una rivoluzione.
Ragionando in questi termini il peccato di omissione diventa un peccato mortale. Perché è a causa del fatto che non comprendiamo come funzionano i sistemi umani che non comprendiamo bene e gestiamo ancora peggio l'evoluzione tecnologica e biologica. Non ci accorgiamo che dopo tutto anche l'innovazione "tecnologica e biologica" è un processo di creazione sociale di conoscenza. Il nascere dell'innovazione è stimolato dal sistema complessivo di idee che si vanno socialmente formando. Il suo crescere è stimolato dal coagularsi di sistemi di interesse. Il suo sviluppo è guidato dalle convinzioni sociali prevalenti.
Ed allora l'innovazione tecnologica procede attraverso salti, esagerazioni anche drammi.
E, riflettendo alla fine dello scrivere di questa righe, mi sembra di poter dire che il peccato di omissione diventa un peccato che grida vendetta al cospetto di Dio perché non affronta il problema fondamentale del genere umano che è quello di evitare di essere costretto ad evolvere attraverso rivoluzioni catastrofiche, ma di riuscire ad evolvere felicemente.
Ho seguito con molto interesse la discussione sull'analisi antropologica delle innovazioni. Sono emersi dalla discussione elementi importanti che spero trovino uno sviluppo. Porto un contributo alla discussione sviluppando degli appunti.
1. I processi di innovazione sono strettamente legati alle pratiche di una comunità. Si innovano sempre delle pratiche, nella produzione come nella politica, nella ricerca come nell'arte. Perché le proposte di innovazione abbiano senso devono coinvolgere l'identità della comunità, perché proporre un'innovazione non significa introdurre un semplice cambiamento, significa cambiare qualcosa di rilevante che venga vissuto a livello emotivo e razionale come significativo. L'innovazione è una proposta di considerare tradizionale, cioè superata, una pratica che caratterizza aspetti dell'identità di una comunità e quindi di modificarla.
2. Le innovazioni si realizzano attraverso un paradigma culturale che le definisce e ne stabilisce la desiderabilità, l'accettabilità e l'utilità. Voglio dire che essendo le innovazioni legate alle pratiche, esiste un problema di percezione delle pratiche, che a volte è slegato dal raggiungimento di obiettivi reali. L'innovazione può voler essere introdotta perché viene percepita come desiderabile a prescindere dai effettivi risultati attesi. Questo ci porta ad inserire il discorso all'interno dell'immaginario, o se si preferisce della cultura, che determina e legittima il paradigma che sta dietro la proposta di innovazione. Per es. nella politica italiana dal secondo dopoguerra ad oggi tutto quello che assimilava il nostro paese all'Europa è stato visto come innovativo. L'innovazione politica avveniva all'interno del paradigma "adeguarsi all'Europa".
3. È sbagliato pensare che le innovazioni si sviluppino in modo lineare, nello stesso modo in cui il Positivismo ha immaginato il progresso. L'innovazione si definisce attraverso un gioco dialettico con il suo opposto, la tradizione, e si realizza secondo percorsi tutt'altro che lineari. Ciò che è innovazione e tradizione non può essere definito una volta per sempre, ma viene percepito e definito in modo diverso in epoche diverse. Il tentativo di far coincidere le innovazioni con dei processi di razionalizzazione, con l'applicazione a vari campi di procedimenti scientifici risulta alla fine ideologico.
4. Nella produzione fino a pochi anni fa tutto quello che si riusciva a sottoporre a pratiche tecnologizzate e meccanizzate, tali da ottimizzare i tempi di produzione e ottenere la standardizzare dei prodotti veniva visto come innovativo e le pratiche artigianali tradizionali. Attualmente il recupero di forme di produzione artigianali e tradizionali viene visto come innovativo.
5. I processi di innovazione sono sottoposti a tutte le retoriche che agiscono sull'immaginario (uso il termine "retorico" in senso ampio, allargandolo a tutti gli strumenti persuasivi usati dai media). Essi sono un prodotto della cultura nella quale si realizzano.
6. Attualmente il nostro immaginario dominato dalle tecnologie ci fa considerare innovativo qualsiasi trasformazione di pratiche che coinvolga gli strumenti digitali. Anzi possiamo affermare che l'uso della tecnologia si autolegittima, fino al punto che si è capovolto il rapporto strumenti/fini. Non si usano gli strumenti tecnologici per introdurre innovazioni finalizzate al raggiungimento di obiettivi, ma è l'impiego stesso di strumenti digitali che risulta innovativo, a prescindere dai risultati che ci si prefigge.
7. Per esempio, nella scuola l'introduzione dell'informatica è vista come un fenomeno innovativo. Nessuno si preoccupa di come l'informatica può aiutare l'innovazione didattica, già il suo uso generico e pervasivo viene percepito come innovativo, trascurando il fatto che attraverso un uso poco accorto delle tecnologie si possono perpetuare pratiche tradizionali e poco funzionali ad una crescita reale della società. È il caso di ricordare a questo proposito come Internet abbia indotto, in alcuni casi, pratiche degenerative del lavoro intellettuale.
8. Se quanto ho detto finora è vero, vuol dire che il discorso della responsabilità delle innovazioni non deve limitarsi solo agli ambiti di ragionamenti formalizzati (dibattiti teorici, discussioni negli ambiti politici istituzionali) e i soggetti che in questi ambiti operano, ma deve includere e recuperare l'ambito persuasivo nascosto o non formalizzato; quello non razionale ma estetico, cioè delle sensazioni e delle emozioni che definiscono le attese, le speranze, i desideri e le angosce di una comunità.
Luigi Cepparrone CE.R.CO. Università di Bergamo
We often think of responsibility in terms of individual responsibility, but when faced with environmental problems or issues linked to the impact of modern technological changes in medicine or agriculture - like genetically modified food or organisms - this can leads to a sense of frustration and alienation. For, individually, we can abstain from using certain product, boycott various companies, refuse some medical treatment or be good "environmental citizens" who sort their garbage into recyclable or not and then in glass, plastic, paper and metal and finally compost their vegetable waste... However, what effect can individual actions have in regard to large multinational corporations and the powerful economic interests that are behind the technological changes, which we feel threaten our health or environment? Of course some will argue that if everybody acted in a responsible way, if the majority of citizens thought but a little before turning on an appliance or buying a product, the world would be a different place. It certainly would be, but this is just not going to happen. No matter how much effort and energy are spent trying to educate the public or to change people's attitude: simply appealing to individual responsibility will not work. It is naïve and utopian and we know it, or if we do not at first, we rapidly learn it. This discovery can lead to anger and despair and often does lead to a radicalization of the critical position towards technology, either in general, or towards this or that technology in particular.
However, responsibility can also be understood as social responsibility - like when a city, a government or a region adds seismic norms to its building code. Such norms embody a social responsibility. That is to say, a responsibility that we believe is common to all citizens, even if its burdens are not shared equally by all. Nonetheless, we as citizens feel that there is here an issue that is important enough to impose constraints and limitations on each other's freedom of action, as well as to put in place a mechanism that enforces and verifies that the norms are respected. Social responsibility and individual responsibility are not mutually exclusive; rather they interact in complex ways. For example, corruption typically is a phenomenon where individual and social responsibilities interact, where individuals feel that they do not share in the social responsibility. Both types of responsibilities also interact in a more positive way in the public space of discussion where norms are elaborated, criticized and modified. There, on the one hand our sense of individual responsibility (together with converging and diverging interests and political compromises) help to determine the norms that embody social responsibility, and on the other hand such norms give shape and sense to our individual responsibility.
Excessive emphasis on individual responsibility, can lead, I believe, to an unholy, or perhaps it would be best to say an "objective" alliance between forces that - at first sight - seem completely opposed on such issues as genetically modified organisms. The problem is that individual responsibility is very often irresponsible. Naïve and utopian dreams can be all the more radical because they have so little effect in the real world. Indirectly, they have quite a different impact. For instance, by adopting more and more radical positions in relation to such issues, by transforming genetic technology and manipulation into absolute evil, one creates a climate in which it becomes impossible to rationally discuss of the dangers and advantages involved. This leads to a polarization where, on the one side, we find an outraged population that is entirely opposed to, for example, genetically modified organisms - in any form and for whatever reason - and, on the other, large corporate interests that are intent on pursuing their research - and the profits involved - regardless. This situation only encourages these powerful social agents into more secrecy and in consequence into the denial of their own social responsibility. For it is naïve to believe that they will desist. By transforming such technological innovations into monstrous evils that cannot even be contemplated we close our eyes on the world and the changes that are happening in it, and refuse to face hard decisions under the pretense of being individually responsible. It is a bit like what has been called the "not in my back yard syndrome". Nobody wants to have nuclear waste in his back yard, and quite rightly so. However when a boat full of nuclear waste crosses three times the Atlantic ocean, because no country wants to receive it - now that it has been scandalously revealed that we ship our garbage to the Third World - the end result is that the danger of an ecological catastrophe is much higher than if this material was in "someone's backyard."
Paul Dumouchel
Professor, Graduate School of Core Ethics and Frontier Sciences, Ritsumeikan University (Kyoto)
This call addresses a very timely topic, the issue of responsibility of innovation in the age of globalization. The concept of innovation and the social, political, and economical context that it is embedded in raises interesting questions in regard to how governance of innovation should be defined and evaluated.