'Audit Cultures', a cura di Marilyn Strathern - recensione | |
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Nella sua raccolta Audit Cultures, pubblicata da Routledge nel 2000, una delle figure più eminenti della comunità antropologica britannica, Marilyn Strathern, si propone di mappare "una nuova cultura emergente", in altre parole una forma di innovazione socialmente, moralmente e politicamente pervasiva, che chiama la cultura delle "new accountabilities" - cioè l'introduzione di protocolli standard per rendere "accountable" (valutabili e perciò responsabili) determinati tipi di performance. L'interesse, nel contesto di questa rubrica, di una rivisitazione di questo innovativo testo antropologico nasce dal fatto che esso esprime esplicitamente interesse e preoccupazione, da un lato per l'etica e la credibilità delle imprese, e quindi per il tipo di moraità che può essere introdotta da una "cultura della valutazione"; dall'altro, per il fatto che vi si affronta l'emergenza di una nuova categoria globale di pratiche "che non sono confinate in nessuna istituzione specifica", anche se si radicano nella contabilità finanziaria e prescrivono l'efficienza economica in termini di "buone pratiche" - in primis la pratica della valutazione. |
English version
"Audit Cultures" (front cover)
- From rock engravings in Val Camonica, Northern Italy, c. 800-200 BC. Cover Design: Sutchinda Rangsi Thompson - In Amazon.com: Table of Contents; Excerpt; Index and Back Cover In her edited collection Audit Cultures published in 2000 by Routledge, one of the leading figures of British anthropology, Marilyn Strathern, sets out to chart a new "kind of culture on the make", in one word a socially, morally and politically pervasive form of innovation, that of "new accountabilities". It is of interest for us to revisit this ground breaking text in anthropology because of its explicit concern, on the one side, with moral reasoning, ethics and the credibility of enterprises; on the other, with the emergence of a global set of practices "confined to no single institutions", which are rooted in financial accounting and prescribe economic efficiency in terms of "good practice" - the practices of auditing. |
Il tema trattato da Marilyn Strathern nel suo libro "Audit Cultures" e ilcommento di Cristina Grasseni sono di grande attualità.
Recentemente ho scritto un commento al Bilancio sociale presentato dal Comune di Monza alla cittadinanza , commento che è comparso sulla rivista on line http://arengario.net . Il bilancio sociale, che si va diffondendo sia tra le aziende che tra le amministrazioni pubbliche, non è altro che un rendiconto a tutti gli stakeholder dell'azienda o dell'istituzione non solo dei risultati economico finanziari, ma anche di quelli relativi ad altri "valori" perseguiti (dal grado di soddisfazione del cliente al livello di qualità della vita per i cittadini, rispetto agli impegni assunti).
In sintesi, le mie modeste convinzioni in proposito sono le seguenti:
1. La rendicontazione comporta un continuo sforzo, mai esauribile, di traduzione di elementi qualitativi in dati quantitativi che consentano di misurare i risultati rispetto agli impegni assunti. Ma i dati quantitativi dovranno sempre essere "enbedded" in quelli qualitativi. Non è quindi del tutto vero che "what you measure, is what you get", secondo l'idea originaria di Robert S. Kaplan e David P. Norton. inventori di uno dei metodi di misurazione delle prestazioni globali di una impresa più in voga, quello della Balanced Scorecard (BSC);
2. Ogni organizzazione offre qualcosa di unico a una platea altrettanto unica di stakeholder. Quindi, deve prima di tutto preoccuparsi di rendere conto su quelli che sono i propri specifici impegni programmatici verso i propri stakeholder, adottando i parametri che meglio rispondono a questa rendicontazione, che sarà quindi ovviamente diversa da ogni altra.
Una volta postosi questo obiettivo basilare, potrà e dovrà ricorrere a quei principi, codici, protocolli, format eccetera che vengono elaborati e proposti da enti "sussidiari" come supporto per la rendicontazione, e che sono essenziali per consentire confronti omogenei con altre organizzazioni analoghe. Ma senza mai rinunciare a rendicontare su quegli aspetti che non sono considerati da queste norme perchè non generalizzabili, ma che interessano specificamente il "sistema di fedeltà" di una data organizzazione...
Temo che questo mio contributo sia piuttosto banale e ovvio, anche se l'esperienza mi dice che molti si preoccupano di misurare e di riempire delle caselle secondo regole provenienti dall'alto o dall'esterno, senza chiedersi abbastanza che cosa debbano veramente rendicontare e a chi, e quali siano i parametri più appropriati allo scopo.
Mi sembra chiaro che tutto ciò dipenda da fattori sociologici e antropologici che caratterizzano le diverse organizzazioni e i relativi ambienti. Ma sul terreno della sociologia e dell'antropologia mi muovo sempre un po' a tentoni...
Può forse interessare un dato: nel 2004 la percentuale delle società quotate in Borsa in Italia che redigono un bilancio sociale è del 12%, contro il 72% in Giappone, il 49% in Gran Bretagna e il 36% in USA.
E' inoltre certo che in Italia solo una piccola frazione delle piccole e medie imprese elaborano un bilancio sociale.
Esistono dati che mostrano che la pratica di questo tipo di audit si va diffondendo anche nelle amministrazioni pubbliche, ma che è ancora in fase sperimentale ed evolutivo (vedi www.bilanciosociale.it).
Tutto ciò è sicuramente legato a una evoluzione in atto di tipo sociologico e antropologico (personalmente, faccio ancora una gran fatica a mettere a punto un audit par la mia attività professionale, anche perchè spesso non mi viene richiesto, e sono io a sentirne il bisogno più del committente!).
Mi sembra che l'argomento trattato da Marilyn Strathern e da Cristina Grasseni ponga un problema significativo per i processi di innovazione. Le audit cultures si sono sviluppate durante i processi di produzione "tayloristica": prodotti standard da immettere sul mercato attraverso un processo di "buona gestione"; questo riguardava anche prodotti immateriali (ad es. i corsi universitari) e non solo la mass production.
In questo contesto la cultura dell'audit assicurava il rispetto di standard di buona condotta e garantiva il cliente/consumatore da truffe e/o negligenze. Alla lunga c'è stato un proliferare di queste procedure che sono andate ben al di là di quello che erano preposte a fare spesso diventando fini a sé stesse: la forma, in alcuni casi, ha finito con il prevalere sui contenuti ed è diventata autoreferenziale: non era più un servizio, ma diventava il prodotto e qiesto certamente è un fatto negativo.
Nel contesto attuale, definito dall'ormai inflazionato, ma sempre attuale, termine di "società della conoscenza" queste procedure rischiano di diventare un ostacolo alla creazione di conoscenza ed all'innovazione discontinua: sono, infatti, state fatte per eliminare le punte e le anomalie e per allineare, sia pure verso l'alto, i comportamenti ed i processi.
L'innovazione, per sua stessa natura, tende a sfuggire a questi paradigmi ed a crerne continuamente di nuovi. In altre parole vive di "punte e anomalie": vedo con difficoltà queste procedure di audit applicate, senza gli opportuni adeguamenti, ad un laboratorio di biotecnologie o di nanotecnologie. Una delle sfide che si aprono, pertanto, è coniugare queste due culture.
Mario Castellaneta