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... "One of the dangers" dice Joseph Rotblat (v. la fine dell'articolo precedente intitolato "Danger"): ma... "pericolo" in che senso?
Per come la vede Bill Joy, nel senso di soppressione, o sopraffazione, della razza umana. Questo è il "pericolo definitivo" che molti tra coloro che prevedono gli sviluppi del mix tra ingegneria genetica, nanotecnologie e robotica paventano. Potrebbe essere fatta persino una distinzione fra "apocalittici" e "integrati", collocando Joy, appunto, fra i primi:«Con la prospettiva di un computer con potenzialità a livello umano sviluppabile entro una trentina di anni, si affaccia un'idea nuova: che io possa star lavorando alla creazione di strumenti che consentiranno la costruzione della tecnologia che potrebbe sostituire la nostra specie. Come mi sento a quest'idea? Molto a disagio. Dopo aver lavorato per tutta la mia vita lavorativa alla costruzione di sistemi di software affidabili, mi sembra più che probabile che questo futuro non funzionerà affatto così bene come alcuni immaginano.»
("Perché il futuro non ha bisogno di noi", traduzione in italiano, a cura dell'associazione "netWork", dell'articolo "Why the future doesn't need us" pubblicato da Wired nell'Aprile 2001)
Solo che...
in questo caso, la specie destinata all'estinzione sarà quella umana.
«Le specie biologiche non sopravvivono quasi mai agli incontri con concorrenti superiori.Moravec parla di "mercato completamente libero" perché pone l'accento su di una qualche forma di regolazione del rapporto fra robot e umani da parte del sistema istituzionale, ma la questione si colora di tinte inquietanti se si presta attenzione al fatto che tutto ciò si dovrebbe fondare sulla formalizzazione di criteri di distinzione tra ciò che è umano e ciò che è robotico.
[...]
In un mercato completamente libero, i robot superiori danneggerebbero sicuramente l'esistenza degli esseri umani, esattamente come i placentali nordamericani danneggiarono i marsupiali sudamericani (e come gli esseri umani hanno danneggiato innumerevoli specie). Le industrie della robotica entrerebbero in accesa competizione tra loro per il possesso delle materie prime, dell'energia, dello spazio, portando incidentalmente il loro prezzo oltre la portata dell'uomo. Incapaci di permettersi le necessità della vita, gli esseri umani biologici sarebbero stritolati fino a cessare di esistere.»
(Hans Moravec, "Robot: Mere Machine to Transcendent Mind", citato da Bill Joy nell'articolo su Wired)
«La risposta di Danny - diretta specificamente allo scenario descritto da Kurzweil, degli esseri umani che si fondono con i robot - fu prontissima e mi sorprese abbastanza. Disse semplicemente che questi cambiamenti sarebbero avvenuti in modo graduale, e ci saremmo abituati ad essi.La posizione di Hillis appare come rappresentativa di quella di chi ha accettato e, potremmo dire, già in qualche modo "metabolizzato" questo processo di ibridazione.
Ma immagino di non essere stato del tutto sorpreso. Avevo letto una citazione di Danny nel libro di Kurzweil, nel quale diceva «Amo il mio corpo come tutti, ma se posso vivere fino a 200 anni con un corpo di silicone, ne approfitterò». Mi sembrava aver accettato questo processo e i rischi ad esso connessi, mentre io non facevo altrettanto.».
«Dato il potere incredibile di queste tecnologie nuove, non dovremmo chiederci quale sarà il modo migliore di coesistere con esse? E se la nostra stessa estinzione è una probabile, o anche solo possibile, conseguenza dei nostri sviluppi tecnologici, non dovremmo procedere con la massima cautela?
[...]
Per la prima volta nella storia del nostro pianeta una specie, a causa di un'azione volontaria da parte sua, si sta trasformando in un rischio per se stessa - oltre che per un enorme numero di altre specie.
«Potrebbe essere un passaggio familiare, che vale per molti mondi - un pianeta di recente formazione gira tranquillamente attorno alla propria stella, lentamente si forma la vita, una caleidoscopica processione di creature si evolve, emerge l'intelligenza che, almeno entro certi limiti, attribuisce un enorme valore alla sopravvivenza; infine, si inventa la tecnologia. Si fa strada nelle menti intelligenti che esistono cose quali le leggi naturali, che tali leggi possono essere rivelate per mezzo di esperimenti, e che la conoscenza di queste leggi può servire sia a salvare delle vite, sia a sopprimerle, ed entrambe le cose su una scala senza precedenti. La scienza, si accorgono gli esseri intelligenti, conferisce un potere immenso. In un lampo, creano invenzioni in grado di alterare il mondo. Alcune civiltà planetarie sono più lungimiranti, e pongono limiti a quello che si può e che non si può fare, e valicano in modo sicuro l'epoca più pericolosa. Altre, non altrettanto fortunate o non altrettanto prudenti, periscono».Earth (the dot in the middle) as seen from 3.7 billion miles away by the Voyager 1 spacecraft, on 6/6/1990.
«... Look again at that dot. That's here. That's home. That's us. On it everyone you love, everyone you know, everyone you ever heard of, every human being who ever was, lived out their lives. The aggregate of our joy and suffering, thousands of confident religions, ideologies, and economic doctrines, every hunter and forager, every hero and coward, every creator and destroyer of civilization, every king and peasant, every young couple in love, every mother and father, hopeful child, inventor and explorer, every teacher of morals, every corrupt politician, every "superstar," every "supreme leader," every saint and sinner in the history of our species lived there - on a mote of dust suspended in a sunbeam.
The Earth is a very small stage in a vast cosmic arena. Think of the rivers of blood spilled by all those generals and emperors, so that, in glory and triumph, they could become the momentary masters of a fraction of a dot. Think of the endless cruelties visited by the inhabitants of one corner of this pixel on the scarcely distinguishable inhabitants of some other corner, how frequent their misunderstandings, how eager they are to kill one another, how fervent their hatreds. Our posturings, our imagined self-importance, the delusion that we have some privileged position in the Universe, are challenged by this point of pale light.
Our planet is a lonely speck in the great enveloping cosmic dark. In our obscurity, in all this vastness, there is no hint that help will come from elsewhere to save us from ourselves.
The Earth is the only world known so far to harbor life. There is nowhere else, at least in the near future, to which our species could migrate. Visit, yes. Settle, not yet. Like it or not, for the moment the Earth is where we make our stand.
It has been said that astronomy is a humbling and character building experience. There is perhaps no better demonstration of the folly of human conceits than this distant image of our tiny world. To me, it underscores our responsibility to deal more kindly with one another, and to preserve and cherish the pale blue dot, the only home we've ever known.»(Carl Sagan, "Pale Blue Dot", 1994)
Era Carl Sagan, che nel 1994, in Pale Blue Dot, ci ha dato un libro che descrive la sua visione del futuro dell'uomo nello spazio. Solo ora mi rendo conto di quali profonde intuizioni abbia avuto, e di quanto amaramente sento e sentirò sempre la mancanza della sua voce. Con tutta la sua eloquenza, il contributo di Sagan è stato anche e soprattutto quello del buon senso - un attributo che, insieme all'umiltà, sembra mancare a molti dei più strenui ed eminenti difensori delle tecnologie del XXI secolo.
[...]
Ma molte altre persone che sono al corrente dei rischi sembrano ancora stranamente silenziose. Se si insiste, si accontentano della solita risposta, «non si tratta di nulla di nuovo» - come se la consapevolezza di quanto potrebbe accadere fosse già una risposta sufficiente. «Ci sono università» mi dicono, «piene di studiosi di bioetica che studiano questo argomento tutto il giorno». Mi rispondono: «Su tutte queste cose è già stato scritto tutto, e da esperti del settore». «Le tue preoccupazioni», si lamentano, «e le tue argomentazioni sono già roba vecchia».
Non so dove queste persone nascondano i loro timori. Da architetto di sistemi complessi mi sono introdotto in questa arena da generalista. Ma questo dovrebbe forse attenuare la mia preoccupazione? So benissimo quante parole siano state scritte, pronunciate e insegnate con grande autorevolezza. Ma questo significa forse che esse hanno raggiunto le persone comuni? Significa che possiamo considerare scongiurato il pericolo che abbiamo di fronte?
Sapere non è un motivo valido per non agire. Possiamo dubitare che la conoscenza sia diventata un'arma che stiamo per puntare contro noi stessi?
Le esperienze degli scienziati atomici dimostrano chiaramente il bisogno di assumersi una responsabilità personale, il pericolo che le cose evolvano troppo in fretta e come un processo possa riuscire a vivere di vita propria. Possiamo generare, come fecero loro, problemi insormontabili in un batter d'occhio. Dobbiamo riflettere con maggiore lungimiranza, se non vogliamo farci sorprendere e scioccare in modo altrettanto doloroso dalle conseguenze delle nostre invenzioni.»
Lungimiranza... prevedere...
Quelle nella citazione seguente sono invece parole di Umberto Galimberti:
«Lo scenario dell'imprevedibile, dischiuso dalla scienza e dalla tecnica, non è imputabile, come nell'antichità, a un difetto di conoscenza, ma a un eccesso del nostro potere di fare enormemente maggiore rispetto al nostro potere di prevedere, e quindi di valutare e giudicare.»
(Umberto Galimberti, "Un terremoto che ci riguarda", La Repubblica, 18 novembre 2000)
In questo sito, tra gli argomenti toccati nel Gennaio 2003 troviamo un item dedicato a tecnoscienza e responsabilità, specificamente costruito attorno alla tesi che Galimberti ha estesamente svolto nel suo libro "Psiche e techne. L'uomo nell'età della tecnica" e che ripropone spesso nei suoi articoli. Valga ad esempio quello uscito su La Repubblica del 28 dicembre 2002, "L'uomo impotente contro la scienza":
«Nata sotto il segno dell' "anticipazione", di cui Prometeo, "colui che pensa in anticipo", è il simbolo, la tecnica, nel nostro tempo, finisce col sottrarre all'uomo ogni possibilità anticipatrice, e con essa quella responsabilità e padronanza che deriva dalla capacità di prevedere.»
Prometeo... "colui che pensa in anticipo"... lungimiranza... previsioni a lungo termine... foresight...
Dopo aver anticipato e descritto molti dei problemi tecnici e politici connessi con le nanotecnologie nel libro "Engines of Creation", Eric Drexler fondò, alla fine degli anni ottanta, il Foresight Institute allo scopo di "contribuire a preparare la società alle imminenti tecnologie avanzate, la più importante delle quali è la nanotecnologia".
Ma, tornando a Joy: dopo tutto, qual è dunque la sua proposta in termini di soluzioni per il nostro futuro di esseri umani su questo pianeta?... CONTINUA...
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Particelle microscopiche esistono e sono inalate dagli esseri umani da sempre, ma le nanoparticelle sulle quali l'industria sta investendo una fortuna hanno caratteristiche che sono del tutto nuove. Per quanto mi risulta, al momento attuale è stato completato un solo rapporto tossicologico con riguardo ai danni che potrebbero derivare da nanoparticelle e concerne le molecole di carbonio chiamate 'fullerene'. E' una ricerca della biologa Eva Oberdoerster (Duke University Marine Laboratory in Beaufort, North Carolina, e Southern Methodist University in Dallas, Texas), molto citata dagli articoli che negli USA escono sul Nanotech. Prende in esame i danni cerebrali che nell'arco di soltanto 48 ore sono stati riscontrati nei pesci (cfr. nota 1). Ma sono in corso anche altri studi che riguardano l'impatto del fullerene sull'ambiente e sulla salute degli esseri viventi. La business community è seriamente preoccupata per come l'introduzione di nanotecnologie potrebbe essere osteggiata dalla pubblica opinione. Il parallelo è col "frankenfood" (GMO). Le passate esperienze di cause legali collettive per il risarcimento di danni provocati da sostanze tossiche e di azioni di contrasto da parte di attivisti (che hanno sempre una non trascurabile eco sui media) hanno insegnato molto all'industria. Anni addietro le imprese chimiche misero in commercio prodotti dei quali non avevano testato adeguatamente l'impatto ambientale, ma oggi temono molto la pubblicità negativa che potrebbe derivare dal mettere in commercio un prodotto che si riveli poi dannoso. Un problema oggettivo è che gli studi sull'impatto ambientale e sulle conseguenze mediche di un prodotto nel campo del Nanotech non possono tenere lo stesso ritmo della R&D. Questa avanza in modo inesorabile e potente e chiunque opera nel settore è consapevole del lack degli studi d'impatto. La differenza rispetto al passato è che ora tutti insistono sull'assoluta necessità di adeguati studi di impatto da sviluppare parallelamente alla produzione in laboratorio di nuove sostanze. Non viene detto però che questi studi d'impatto quando raggiungono un risultato scientificamente attendibile sono ormai abbondantemente 'fuori tempo massimo'. Nel campo della farmacologia, per esempio, esiste un controllo molto stringente del raccordo tra ricerca, produzione in laboratorio, tests e immissione in commercio di un preparato chimico e vengono svolti check su ciascuna delle fasi che precedono la produzione finale. Nel complesso, la procedura che precede l'immissione sul mercato dura sempre diversi anni. Nel campo nel Nanotech, invece, non ci sono leggi che diano regole di protocollo altrettanto nel dettaglio. Infatti, la Royal Society ha suggerito, con una raccomandazione formale, che le nanoparticelle siano trattate dal punto di vista legislativo come nuovi prodotti chimici, in modo che siano svolti test di sicurezza appropriati. Che ci sia più di qualcosa di fondato nell'atteggiamento preoccupato trova conferma anche nel fatto che le società di assicurazione stanno seguendo con molta attenzione ciò che avviene nel campo del Nanotech: temono per esempio che si verifichino catastrofi simili a quella che avvenne negli anni Settanta con l'asbesto. La Swiss Re - seconda compagnia di ri-assicurazione nel mondo - in un comunicato dello scorso maggio ha messo in guardia rispetto ai rischi di tossicità o di inquinamento associati alla diffusione di nanoparticelle (cfr. nota 2). E' vero che, ultimamente, dei fondi destinati negli USA al Nanotech, l'11 per cento è finalizzato agli studi di impatto, ma - e senza per questo avere una visione apocalittica - l'allarme per le conseguenze delle nanotecnologie deriva dal fatto che l'industria sta già preparando i possibili utilizzi commerciali senza che vi siano attendibili test sui riflessi che i prodotti che incorporano nanotecnologie potrebbero avere sull'ambiente e sulla salute.
'Environmental Health Perspectives' di luglio:
'Swiss Re investigates the opportunities and risks of nanotechnology from an insurance perspective' 10 May 2004 http://www.swissre.com/INTERNET/ |
Microscopic particles have always existed and been inhaled by human beings, but the nanoparticles that industry is investing an absolute fortune on have entirely new characteristics. As far as I am aware, so far just one toxicological report has been compiled on the damage that nanoparticles could cause. The research in question, concerning carbon molecules called "fullerenes", was carried out by the biologist Eva Oberdoerster (Duke University Marine Laboratory in Beaufort, North Carolina, and Southern Methodist University in Dallas, Texas) and has been widely quoted in articles on Nanotech published in the USA. It examines the cerebral damage found in fish in the space of just 48 hours (see note 1). However, other studies are also under way on the impact of fullerene on the environment and on the health of living creatures. The business community is seriously concerned by the possibility that the introduction of nanotechnologies might be thwarted by public opinion. The parallel made is with "frankenfood" (GMOs). Past experience of class action for damages resulting from toxic substances and of hostile campaigns by activists (which always reverberate to no small degree in the media) have taught industry a lot. Years ago chemical companies marketed products without adequately testing their environmental impact, but today they greatly fear the negative publicity that would result if they were to market a product that then proved to be harmful. One objective problem is that environmental impact studies and those concerning the medical consequences of products in the Nanotech field simply cannot keep pace with the R&D. This advances inexorably and powerfully and anyone working in the sector is fully aware of the lack of impact studies. The difference with respect to the past is that now everyone insists on the absolute need for impact studies to be taken forward in tandem with the production of new substances in the laboratory. No-one admits, however, that by the time these impact studies have reached any scientifically reliable conclusions they have well and truly exceeded their "shelf life". In the pharmacological field, for example, there are very strict checks on the linkages between research, laboratory production, testing and sale of chemical preparations and tests are carried out at each stage leading up to final production. Overall, the procedure immediately preceding the market launch always lasts for several years. In the nanotech field, on the other hand, there are no laws laying down such detailed protocols. Indeed, the Royal Society has suggested, in a formal recommendation, that from the legislative point of view nanoparticles should be treated as new chemical products, so that the appropriate safety trials can be carried out. The fact that these concerns are well founded is also confirmed by the fact that insurance companies are following developments in the Nanotech field very closely: for example, they fear catastrophes similar to one that occurred in the 1970s with asbestos. In a communiqué issued last May Swiss Re -- the world's second largest re-insurance company -- warned against the risks of toxicity or pollution associated with the spread of nanoparticles (cf. Note 2). It is true, finally, that of the funds devoted to Nanotech in the USA, 11% are intended for impact studies but -- and without this necessarily implying any visions of the apocalypse -- the alarm over the consequences of nanotechnologies derives from the fact that industry is already working on possible commercial uses without reliable tests being carried out on the repercussions that products incorporating nanotechnologies might have on the environment and on health.
'Environmental Health Perspectives, July:
'Swiss Re investigates the opportunities and risks of nanotechnology from an insurance perspective' 10 May 2004 London / Zurich -- The use of nanotechnology in industrial and commercial production, although still in its infancy, is growing rapidly. Swiss Re addressed the opportunities and risks of nanotechnology at a media conference in London as part of its contribution to open risk dialogue. The publication "Nanotechnology: Small matter, many unknowns" is now available. http://www.swissre.com/INTERNET/ |
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Dirò subito che non ho competenze sufficienti per entrare nel merito di quanto viene detto. Il mio intervento è perciò a un livello molto più banale, comunque credo che il futuro sia già presente, nel senso che anche oggi è presente la tendenza a decentrare alla macchine alcune decisioni normalmente di spettanza sell'uomo.
Mi è capitato nei giorni di scorsi di leggere che in alcuni ospedali italiani si sta sperimentando un robot per la diagnosi delle cefalee primarie. Soffrendo, per mia sfortuna di emicrania, l'articolo mi ha interessato. In realtà poi non si trattava di robot ma di un sistema esperto, e già la cosa la dice lunga come a volte l'informazione sulle nuove tecnologie possa essere fuorviante. In pratica si tratta di un software che caricato con i dati del paziente è in grado di diagnosticare il tipo di cefalea di cui il paziente è affetto, con indubbi vantaggi per la scelta della terapia più adeguata. Non intendo negare l'importanza di un'applicazione di questo genere, ma credo si corra il rischio di deresponsabilizzare il ruolo del medico curante. I sistemi esperti si basano su algoritmi di tipo probabilistico e su modelli che per quanti sofistificati rappresentano la realtà in modo approssimativo. Infatti per ogni sistema esperto è prevista l'implementazione delle conosacenze dei risultati. Se un sistema esperto viene utilizzato in modo acritico non è altro che la versione più sofistificata di quei manuali tipo il medico in famiglia o il legale in casa, che probabilmente hanno dato più danni che vantaggi. Poichè mi sto avviando alla professione forense, non credo impossibile un sistema esperto che caricato dei codici, delle sentenze e dei dati processuali possa anche arrivare a stabilire le sentenze. Ma quanti sarebbero disposti ad accettare come giudice un sistema esperto?
(inviati da Giugno a Dicembre 2004):