Il Sole 24 Ore, 22 dicembre 2005 Il rovescio della scienza ROGER A. PIELKE JR. a colloquio con PAOLO CONTI ------------------------------------------------ Mestiere difficile, la scienza. E non solo per gli aspetti tecnici della professione, la difficoltà di reperire fondi per la ricerca, la competitività crescente. In realtà, secondo Roger A. Pielke Junior, il principale problema dei ricercatori contemporanei riguarda il loro coinvolgimento nel dibattito politico. Pielke insegna al Center for science and technology policy research dell'Università del Colorado e ha dedicato la sua carriera a studiare questo fenomeno. Il suo ultimo libro «Scienza e Politica - La lotta per il consenso», appena pubblicato in Italia da Laterza, sta già facendo discutere. Forse perché affronta il ruolo della scienza nella società in modo agnostico, senza preconcetti o timori reverenziali. «Da molti anni ormai un numero crescente di scienziati sta abbandonando il ruolo originario di onesto mediatore, per sposare una causa specifica e diventarne un sostenitore attivo - spiega Roger Pielke a Nòva24 -. Molti dei dibattiti in atto in Occidente vertono su temi nei quali la scienza gioca un ruolo importante. Così gruppi di pressione di ogni tipo, organizzazioni non governative, partiti politici e perfino governi fanno a gara per portare dalla propria parte il maggior numero possibile di scienziati. Il loro obiettivo è facile da comprendere: vogliono avvalorare la propria posizione specifica e acquisire autorevolezza. Ma per i ricercatori aderire a una posizione significa, fare una scelta precisa, che comporta conseguenze importanti e spesso negative per la società in cui vivono». L'onesto mediatore rappresenta, secondo Pielke, lo scienziato del passato, quello che si limitava a sottoporre alla società un ventaglio di opzioni praticabili, lasciando ai politici la responsabilità di definire le policy, ovvero le azioni concrete per migliorare la vita dei cittadini. Ha funzionato così fino alla Guerra Fredda, quando la ricerca scientifica era necessaria per mantenere la supremazia militare. Ma dal 1990 in poi trovare le motivazioni per investire nella scienza è diventato più difficile, il che ha spinto gli scienziati stessi a entrare più direttamente nel dibattito politico. «Il primo caso eclatante si è verificato però in America già negli anni Settanta. Gli scienziati si sono divisi nel sostenere o meno le ragioni del nucleare e molti di essi hanno finito per sposare posizioni radicali» spiega Pielke. «Hanno rinunciato al proprio ruolo di onesto mediatore e sono diventati degli attivisti. Ma così facendo hanno finito paradossalmente per ridurre l'impatto della propria attività di ricerca sulla società. Si sono trasformati in advocate, in scienziati militanti. Da allora questo meccanismo si è riproposto con frequenza crescente. Quando nel 2002 gli Stati Uniti hanno dovuto decidere sulla possibilità di invadere l'Iraq, molti scienziati americani si sono schierati con l'amministrazione Bush, invocando la guerra preventiva come la politica più efficace. Altri hanno sostenuto posizioni contrarie. E oggi questa contrapposizione è molto comune anche in Italia: nell'opportunità di aderire al protocollo di Kyoto e in altre tematiche ambientali, nel dibattito sugli organismi geneticamente modificati e sull'uso delle cellule starninali». «Ìl fatto è che la scienza non è sempre in grado di aiutarci a prendere una decisione. Se un tornado sta per investire una città il ruolo della comunità scentifica è determinante per decidere sul da farsi, perché può indicare con esattezza la dinamica dell'evento. Ma in altri casi, come quando bisogna valutare l'opportunità o meno di legalizzare l'aborto o di entrare in una guerra, la situazione è molto più complessa. E per quanti studi scientifici vengano prodotti sull'argomento, i ricercatori non saranno mai in grado di determinare con certezza l'opportunità di una scelta rispetto a un'altra. In casi come questo gli scienziati devono avere il coraggio di fare un passo indietro, lasciando ad altri la responsabilità di prendere la decisione». Sarà forse per questo, gli abbiamo chiesto, che su alcuni argomenti dibattuti esistono molti studi scientifici che si contraddicono? «In molti casi la ricerca fornisce effettivamente risultati incontrovertibili -, ha risposto Pielke -. Ma la pressione che i gruppi d'interesse esercitano sulla comunità scientifica (resa spesso più efficace tramite la leva dei fondi finanziari) spinge i ricercatori ad avventurarsi in aree di frontiera, dove l'indeterminatezza delle posizioni si fa più marcata. Ed è qui che le lobby sono tentate di darsi allo shopping, scegliendo le posizioni scientifiche che più si adattano alle proprie posizioni politiche. In più, c'è la forte interdisciplinarietà della ricerca contemporanea, che permette di affrontare gli stessi temi da punti di vista molto diversi, il che porta talvolta a risultati altrettanto diversi». Quando dall'enunciazione del problema si passa a ipotizzare le possibili soluzioni, Roger Pielke non appare particolarmente ottimista. «Ogni scienziato è anche un cittadino e può naturalmente scegliere se e con chi schierarsi. Ma sono le organizzazioni che governano la comunità scientifica a doversi interrogare con attenzione sul proprio ruolo nella società. Ci sono dibattiti dove la scienza ha ben poco da offrire e sono proprio queste organizzazioni che dovrebbero spingere i propri membri a fare un passo indietro, tornando a interpretare con orgoglio il vecchio ruolo dell'"onesto mediatore". Troppi scienziati confondono ormai la policy con la politica, trascurando la prima in favore della seconda. Essi dovrebbero approfondire meglio la differenza fra le due, interrogandosi a fondo sull'importanza del loro ruolo. Non sarà facile, ma è importante per il futuro di tutti noi».