Il Sole 24 Ore, 1 dicembre 2005 "Come rifondare la cultura di prodotto" di Salvo Mizzi ---------------------------------------- Perché alcuni paesi poveri sono poveri e alcuni paesi ricchi sono ricchi? Per lungo tempo anche premi Nobel come Paul Samuelson hanno confessato di non avere risposte serie. Grazie a Rifkin, Florida o Steve Jobs, oggi tutto sembra più chiaro. I paesi poveri sono poveri anche perché hanno in gran dispetto la creatività, i paesi ricchi sono invece tali perché attraggono e blandiscono la gens creativa, l'aristocrazia più pubblicizzata e capricciosa della storia umana. Ma possiamo credere fino in fondo a questa vulgata dello spirito creatore? E come è nata la percezione della centralità di questo straordinario fattore di produzione? Le ragioni sono diverse, varie e complementari. Il mio personale percorso di conoscenza lo devo a un grande maestro e amico purtroppo scomparso, il quale ironizzando sul fatto che dal meridione fosse ricominciata la grande fuga, stavolta di laureati d'ogni sorta, era giunto alla conclusione che scopo specifico del mezzogiorno d'Italia fosse quello di produrre semilavorati per l'esportazione. In fondo è ciò che capita anche ai tonni: da Favignana a Tokyo lungo le misteriose correnti del sushi globale. La creatività perfeziona e raffina materiali umani diversi destinati al vario mondo degli arts & crafts, costituendoli in ceto e dotandoli di un linguaggio e di una password comune: new. Il paradigma creativo che si afferma in Italia negli ultimi decenni è di una specie tutta particolare, legata a doppio filo alla leggerezza creativa, al supereroe da copertina di Time e Vogue al tempo stesso. In questo terreno attecchisce anche la religione del made in Italy, che viene riproposta, senza grandi variazioni, dalla moda all'information technology. L'uomo è Togue e la donna è Vime. È un paradigma legato alla ideologia e alla rappresentazione della creatività, più che alla fatica quotidiana che rende possibile riprodurla stabilmente. Il carattere enfatico della rappresentazione non è un fattore secondario: in fondo oggi Richard Florida propone in parte con un forte cambiamento di segno e di valore le analisi molto seventies di Cristopher Lasch, il quale aveva previsto dall'inizio degli anni ottanta l'avvento di masse creative urbane, cosmopolite e vestite di nero, alla ricerca dell'ultima onda. Questa caratterizzazione della creatività è funzionale al credo routinier di società terziarie, all'industria superleggera, all'allentamento dei vincoli sociali. L'ideologia perfetta per questa forma della creatività è la Serendipity descritta da Robert K. Merton, ispirata dalla favola esotica dei tre principi di Serendippo, il moderno Sri Lanka: essa consiste nella capacità di "vedere" e dunque di trovare casualmente qualcosa che non si sta cercando. La Serendipity, oltre che piacevolissima e affascinante, è unà delle pietre angolari su cui è costruita la nostra sensibilità contemporanea verso la scoperta, la creazione, l'innovazione sia tecnologica sia scientifica, e sul modo in cui cerchiamo di "venderla" al mondo esterno. Digerita in maniera superficiale, questa rappresentazione comporta però i rischi che oggi conosciamo del nostro sistema paese. Per esempio, l'idea che l'innovazione sia opera casuale del nostro innato genio nazionale. La persuasione che dato il suo carattere individuale, la creatività sia una risorsa spontanea. L'ostinazione a rifiutare gli aspetti di pianificazione, e gli investimenti necessari perché creatività e innovazione siano coltivati e tutelati come fattori produttivi strategici. Come se dietro poche parole-totem, fosse possibile mettere sullo stesso piano la Olivetti di Adriano ma anche di Elserino Piol, e i bazar ammalianti di corso Como a Milano. È invece evidente che per dotare stabilmente un paese di innovazione e creatività reali, sono necessari investimenti a medio termine, visione del futuro, organizzazione sociale e formazione scolastica "lunga" e dedicata. La tendenza è chiara, e ci permette di leggere la nostra storia nazionale più recente come quella fase in cui la creatività diventa desiderio di massa, l'innovazione uno strumento prevalentemente verbale. È qui che si afferma un giovanilismo diffuso in cui tutto diventa creativo: la finanza, la storia, la politica, l'industria, la medicina. Persino la mineralogia. È un sentiero pericoloso perché quando tutto è creativo, nulla è creativo davvero. Quando tutto è innovazione, nulla è innovativo davvero. Anzi, questo è il momento in cui un creativo autentico deve rifiutarsi di esserlo, e un vero innovatore deve dichiarare di non avere ancora innovato nulla. E forse una delle risposte possibili è nel ritorno alla cultura del prodotto, qualunque sia il settore in cui lavoriamo. Tornare al prodotto significa concentrare e focalizzare l'attenzione oggi dispersa, ma anche privilegiare la natura fattuale della creatività e dell'innovazione, non solo la loro capacità di comunicazione. Sul terreno del prodotto, modernamente inteso anche come soggetto, servizio, relazione e conversazione, possiamo ancora generare una cultura della creatività e dell'innovazione che riesca a durare nel tempo e a stimolare di nuovo la crescita. Dobbiamo farlo in silenzio, senza dichiararlo in giro. L'intelligenza ci dice che siamo nella condizione di quegli uccelli che hanno avuto molto dalla terra e, resi pesanti, non riescono a volare in alto, pur avendo ricevuto le ali dalla natura. Ma la creatività, appunto, è questo. Sapere che è necessario andare al di là dell'intelligenza. E dell'Economia.