Il Sole 24 Ore, 1 dicembre 2005 "Ecco come muta la geografia dei talenti" di Richard Florida ------------------------------------------- "Il mondo è piatto", dice Thomas Friedman, celebre "editorialista del "New York Times". È anche il titolo del suo ultimo libro (Allen Lane, 2005), dove argomenta che la globalizzazione ha appiattito il terreno di gioco, permettendo a chiunque e ovunque nel mondo di essere punta di diamante dell'innovazione. "Non occorre più emigrare - sostiene Friedman - per essere all'avanguardia". Ma Friedman trascura di mettere a fuoco la realtà complessa del connubio tra sviluppo economico e innovazione, su cui si fonda l'attuale economia globale, le cui forze motrici - creatività scientifica e tecnologia, in particolare - sono più che mai concentrate geograficamente. Con l'aiuto di Tim Golden, geografo dell'Università del Maryland a College Park, ho rilevato come l'enorme numero di brevetti che esiste su scala mondiale di fatto venga alla luce in poche dozzine fra città, regioni e località: Tokyo, San Francisco, Berlino, Parigi, New York e Taipei. Riguardo alla crescente prominenza internazionale di Bangalore e Shanghai, va detto che contribuiscono all'espansione della frontiera dell'innovazione in modo ancora trascurabile. Nel 2003, la sola Università della California ha portato alla luce più brevetti che l'India o la Cina. E la sola Ibm ben cinque volte quelli delle due nazioni asiatiche assieme. Benché ci siano molte città e regioni asiatiche che giocano un ruolo importante nell'innovazione commerciale, il progresso scientifico ha luogo soprattutto nelle città europee e nordamericane. Il successo degli Stati Uniti deriva in gran parte dalla loro abilità a calamitare talenti creativi. Nel Ventesimo secolo le università americane hanno attirato scienziati eminenti come Albert Einstein ed Enrico Fermi in fuga dall'intolleranza e dal fascismo europei. L'afflusso creativo è cresciuto di intensità nel corso degli anni 80 e 90, dando grande energia all'economia tecnologica americana. Il talento però, non fluisce solo da un paese all'altro, ma tende anche a raccogliersi in bacini geografici precisi. Sono secoli che questo si avvera, da Atene a New York, alcune città si sono storicamente trasformate in crogioli dell'innovazione. Fondamentali sono le forze sociali ed economiche che incanalano questo flusso: quando i talenti confluiscono in una collettività, la loro forza creativa non è più un semplice insieme di forze individuali, ma trae impulso produttivo dalla loro interazione. Alcuni ricercatori della Brookings Institution hanno messo a punto una simulazione computerizzata di questo effetto. Il modello ruota attorno a due principi: dapprima, i talenti creativi si raggruppano in squadre che, poi, si trasformano in aziende e organizzazioni; in un secondo momento, questi enti cercano una località dove installarsi. Il mondo che emerge da tale simulazione è una rappresentazione quasi perfetta dell'attuale. I creativi e le imprese da loro fondate si insediano in agglomerati di città. A questo punto, sorgono delle domande. Innanzitutto, come mai alcune città come San Francisco e Boston si trasformano in fucine permanenti di creatività e innovazione e altre no? Nelle teorie economiche classiche e nei loro modelli, il talento è concepito come una provvista, simile a una scorta di materie prime immagazzinata da qualche parte. In verità però, il talento è una risorsa mobile del pianeta e in costante aumento. In secondo luogo, che cosa trasforma una località in un centro creativo? Un elemento propulsore fondamentale è la presenza di una o più università di levatura mondiale: l'effetto del Massachusetts Institute of Technology a Boston o di Stanford nella Silicon Valley ne sono una prova lampante. Tuttavia, per guidare veramente la crescita occorre però che le università siano "incastonate" in agglomerati di industrie all'avanguardia, con istituzioni capaci di sostenerle e con un mercato del lavoro ricco e vivace. L'apertura di un'area geografica al talento è cruciale; ovvero la sua abilità ad attrarre creatività da qualunque livello sociale essa provenga. I ricercatori hanno riscontrato una correlazione molto marcata da un lato tra l'apertura di una città agli immigrati, l'assenza di segregazione razziale e etnica, l'accettazione della popolazione omosessuale, l'entusiasmo per gli artisti, e dall'altro la sua capacità di attrarre gruppi, che siano ricettacolo di creatività tecnologica e scientifica, al fine di trasformare il tutto in una tangibile ricchezza economica. Una recente statistica della Gallup conferma che i rappresentanti di ogni gruppo razziale e sociale apprezzano le città che sono aperte e tolleranti alle diverse fasce di popolazione. Oltre al lavoro e alle entrate pecuniarie, gli abitanti si aspettano altre cose meno tangibili come l'estetica urbana, un legame col luogo e l'esposizione a idee nuove. Oggigiorno, i centri creativi e innovativi sono concentrati più che mai: i talenti internazionali non si sentono più ancorati ai loro lavori e alle loro località. Le grandi università e le grandi città devono cooperare, al fine di sostenere i nuclei creativi che guidano la produttività e la crescita della economia moderna e globale. Richard Florida è Hirst Professor all'Università George Mason, Fairfax, Virginia e autore di "The flight of the creative class" (HarperCollins, 2005) @ New Scientist Traduzione Piera Salto