Corriere della Sera, 12 agosto 2004 Noi e il nucleare. I rischi reali e le emozioni di MASSIMO PIATTELLI PALMARINI ------------------------------ La valutazione fredda e razionale di’un rischio si basa sempre sul confronto approssimato tra due quozienti, cioè su quattro numeri giudiziosamente scelti e sui rapporti tra essi. Proviamo a farlo per l'incidente al reattore nucleare giapponese di Mihama. La prima cifra è, purtroppo, incontestabile: 4 morti e 5 feriti gravi. Per cosa dobbiamo dividerla? Il Giappone ha 52 centrali, che per ora avevano funzionato senza incidenti, alcune per decenni: 300 addetti per centrale è una buona stima, quindi circa 15 mila in tutto. Nove (il numero delle vittime tra morti e feriti gravi, due operai sono feriti in modo più leggero) su 15 mila (totale addetti) dà circa una probabilità su 6 mila, per i lavoratori del nucleare in Giappone (si badi bene, non per la popolazione in genere) di cadere vittima di un incidente nell’arco di circa venti anni. È molto, è poco? Qui bisogna scegliere un metro di misura. Gli esperti di psicologia del rischio, come Paul Slovic dell'Università dell’Oregon, da tempo collaboratore del premio Nobel per l'economia 2002 Daniel Kahneman, prendono come riferimenti, per esempio, la probabilità che ha un agricoltore (negli Stati Uniti) di morire per un incidente sul lavoro, cioè 3,6 su 10 mila, o un motociclista per un incidente stradale (il 2%). Come è stato più volte correttamente sottolineato, i rischi dei reattori nucleari, per il generico cittadino, sono inferiori a quasi qualsiasi altro rischio, per esempio allagamenti, incendi, scosse elettriche, naufragi di imbarcazioni e perfino il fulmine. Impallidiscono decisamente al cospetto del milione e mezzo di morti, ogni anno, sulla faccia della terra, per incidenti del traffico (un morto ogni ventuno secondi). Ma questi studiosi ben sanno che esiste anche un'altra valutazione del rischio, soggettiva, basata su un diverso metro di misura. Cinquant'anni fa, il grande logico, matematico e filosofo inglese Bertrand Russell definì questa valutazione emotiva "induzione popolare" e fece acutamente presente che essa si basa non sui numeri obiettivi, ma sull'impatto psicologico degli incidenti, soprattutto di quelli più recenti. Infatti, atterrisce pensare a undici sventurati investiti d'un tratto da un getto di vapore a centinaia di gradi, quattro dei quali in modo mortale e altri cinque feriti gravemente. La progettata costruzione di altre undici centrali nucleari in Giappone subirà, quanto meno, una battuta d'arresto. Questo è non molto razionale, ma molto umano. E talvolta il razionale e l'umano divergono radicalmente. Proprio Paul Slovic ha recentemente pubblicato un ulteriore semplice esperimento che dimostra la massiccia irrazionalità delle persone nello stimare i rischi e nell'appoggiare o rifiutare investimenti per prevenirli. A un gruppo di soggetti Slovic ha chiesto quanto caldamente avrebbero appoggiato un programma di prevenzione del rischio che avrebbe salvato la vita di 150 persone. A un altro gruppo, in tutto simile al primo, Slovic ha chiesto quanto caldamente avrebbero appoggiato un programma di prevenzione del rischio che avrebbe salvato il 98 per cento su un totale di 150 persone. Ebbene il secondo gruppo, contro ogni logica, si è dimostrato assai più entusiasta del primo nell'appoggiare questo ipotetico programma. Infatti, occorre tornare laddove eravamo partiti, cioè al confronto tra cifre. Centocinquanta persone, sono molte? Sono poche? Difficile dire. Ma il 98% è da noi percepito, soggettivamente come "molto", anche se si tratta, in realtà, di 147 persone, invece che 150. Gli psicologi della decisione non perdono occasione per mettere in guardia studenti, manager, politici e grande pubblico contro simili trabocchetti. Ma l'induzione popolare, proprio in quanto popolare, non può essere ignorata. La lodevole missione di accrescere la razionalità comune non deve attrarci nel trabocchetto, altrettanto insidioso, di voler sapere meglio della gente che cosa è bene per la gente.