L’Espresso -- 4 marzo 2005 Far West high-tech Contenere la spesa è possibile. Basta non farsi incantare dalle novità costose che non salvano vite di Luca Carra ------------------------------------------------------- Preparate le scialuppe. La nostra medicina è il Titanic in rotta verso l'iceberg. Costa ogni giorno di più: tutti i sistemi sanitari del mondo, primo fra tutti quello statunitense, stanno arrivando alla bancarotta nel tentativo impossibile di spostare sempre più in là il capolinea della vita. L'unica via d'uscita è il perseguimento di una medicina sostenibile, che sappia accettare i limiti imposti dalla biologia e non s'accanisca con tecnologie costose. Daniel Callahan, invitato in Italia dalla Fondazione Giannino Bassetti a parlare di medicina sostenibile all'Università Cattolica di Milano, è uno dei giganti della bioetica americana. Ecco cosa ci ha spiegato. Professore, perché questo pessimismo? «Il mio pessimismo prima riguardava solo il sistema statunitense, in assoluto quello più costoso e ingiusto al mondo. Basti pensare che la quota della spesa sanitaria sul Pil sfiora ormai il 15 per cento ed esclude più di 45 milioni di persone dalla copertura sanitaria. Ma dagli anni Novanta sono entrati in crisi anche i sistemi sanitari europei, compreso quello italiano. Oggi in tutti i principali paesi sviluppati la spesa cresce del 10-15 per cento all’anno, ed è evidente che fra qualche tempo ci si dovrà chiedere come fermare questa macchina impazzita. Anche voi europei cercate di ridurre i costi della sanità attraverso i ticket, le tariffe, l'aziendalizzazione e la cosiddetta "Evidence Based Medicine", che dovrebbe promuovere solo le pratiche che si sono dimostrate efficaci. Ma non basta. Bisogna ripensare gli scopi e i valori della medicina, partendo dall'analisi di ciò che non va oggi». Che cosa non va? «I fattori che determinano l'insostenibilità economica della medicina sono tre: il primo è l'invecchiamento della società: gli anziani stanno diventando la maggioranza della popolazione, e le cure mediche a un anziano costano il quadruplo rispetto a una persona con meno di 65 anni. Poi ci sono da un lato un progresso tecnologico selvaggio e poco utile per il miglioramento della salute, e le pretese sempre crescenti del pubblico nei confronti della medicina». Nei suoi libri lei parla del sogno sbagliato di una medicina che pretende di sconfiggere le malattie e la morte, e della necessità di accettare dei limiti. Partiamo da quelli che riguardano l'assistenza agli anziani. Da che età dobbiamo dire "basta così"? «Negli ultimi cinquant'anni le nostre società hanno fatto un balzo gigantesco, portando l'aspettativa di vita media dai 50 ai 75 anni. La prima cosa da dire è che questo allungamento della vita è stata una grande conquista, che si deve però più al miglioramento degli stili di vita e del sistema socioeconomico che alla medicina. Con la mia visione di una medicina sostenibile, io ritengo che si debba mantenere questa longevità, ma non spingerla più in là a qualsiasi prezzo. Dobbiamo recuperare il senso dei cicli vitali. Con l'età di 70 anni un ciclo vitale si avvia a un compimento. La prima grossa difficoltà psicologica dell'uomo moderno è accettare che la vita ha delle stagioni e che dopo quell'età comincia un declino, contro il quale è inutile accanirsi. Questo non vuole dire che si debba lasciare gli anziani senza assistenza medica. Tuttavia certi interventi come i trapianti, il cuore artificiale, i defibrillatori impiantabili, in una nuova visione sostenibile della medicina, diventano non proponibili dopo i 70-80 anni. Quanto meno non possono essere pratiche pagate dallo Stato. Soprattutto per gli anziani la medicina si deve spostare dall'interventismo tecnologico alla migliore gestione delle patologie croniche che affliggono gli ultimi anni della vita, come 1'osteoporosi, i sintomi dell'Alzheimer, la riduzione della vista e dell'udito. L'ideale da perseguire è una vita lunga nel pieno vigore seguita da una morte rapida». C'è chi preconizza che la vita umana in buona salute grazie al progresso medico potrebbe estendersi fino ai 120 anni. «Difficile dimostrarlo. Già oggi assistiamo a un invecchiamento molto più travagliato che in passato. L'ultraottantenne di oggi prende dieci medicinali al giorno, il suo corpo viene progressivamente invaso da un complesso di malattie croniche, dalla cardiopatia alla demenza, che riducono a misera cosa i suoi ultimi anni di vita. I grandi successi della medicina sono alle nostre spalle, quelli futuri non possono essere che residuali, proprio perché la vita umana sta arrivando a ridosso dei suoi limiti biologici. Eppure la big science continua a investire capitali enormi inseguendo il mito dell'immortalità». Dunque, lei è favorevole all'eutanasia. «L'eutanasia è una reazione all'accanimento terapeutico, che rende possibili forme di vita non degne di essere vissute. Una medicina sostenibile, che accetta i limiti naturali, non si accanisce e non ha bisogno di porre termine in modo artificiale alla vita». Che cosa vuol dire meno medicina interventistica? Basta by-pass, trapianti, terapia intensiva sui neonati? «Non mi fate fare il gioco della torre. La medicina va indirizzata a salvare la vita a chi rischia una morte prematura. Tuttavia, a qualsiasi età, l'accanimento non porta dei benefici: oggi si riescono a salvare anche neonati prematuri che pesano 400-500 grammi alla nascita, ma con gravi compromissioni respiratorie e di altro genere. Ha senso insistere su questa strada? lo che ho perso un figlio di sei settimane so quanto è forte la spinta della società verso la ricerca medica sui bambini. Ma non dimentichiamoci che i problemi di questa età sono soprattutto sociali e psicologici». Basta fecondazione assistita o terapia genica? «Il desiderio di un figlio è una cosa importante. Ma ha senso voler sviluppare più di tanto la medicina riproduttiva, i cui tassi di successo sono bassi, quando in realtà le cause principali dell'infertilità sono l'età avanzata delle gravidanze e le malattie sessualmente trasmesse? Non sarebbe più efficace agire su queste cause? Per ognuna di queste pratiche dobbiamo trovare un bilancio positivo fra i costi e gli effettivi benefici. Quanto alla terapia genica, in quindici anni ha portato a ben poco. La farmacogenomica, che si fonda sul progetto genoma umano per il quale sono stati spesi tre miliardi di dollari, promette una medicina personalizzata, ma a costi non sostenibili e che necessariamente andrebbero a erodere altri settori più importanti e promettenti della medicina e dell'assistenza». Quali settori, vediamoli. «Dobbiamo riorientare la medicina verso una prospettiva di benefici non solo individuali, ma di popolazione. Le sembra logico sapere tutto sui geni e non avere la minima idea di un metodo efficace per smettere di fumare, o di ridurre la montante epidemia di obesi? Su questi big killer la nostra ignoranza è proporzionale alle briciole che investiamo in queste ricerche. Non dimentichiamo poi che i più importanti determinanti della salute della popolazione sono il livello di educazione, un lavoro fisso e una buona alimentazione. Negli Stati Uniti si è fatto troppo poco in questi ambiti. Tanto è vero che a New York abbiamo i migliori centri clinici e di ricerca al mondo, ma le scuole cadono a pezzi, e i neri e gli ispanici non hanno una copertura sanitaria». Lei dice che vanno posti limiti all'idea stessa del progresso medico indefinito. Ma non è propria della scienza l'idea di superare i limiti? «È una superstizione, e la stessa storia della tecnologia lo dimostra: la Nasa ha lasciato la strada delle missioni spaziali umane oltre la Luna per ragioni di sostenibilità economica e tecnologica. Allo stesso modo l'industria dei trasporti aerei ha abbandonato la strada dei jet supersonici perché non conveniente. Oggi gli aerei vanno più piano di quelli di 25 anni fa. Anche in medicina possiamo modulare diversamente gli investimenti, togliendo un po' di enfasi all'high-tech e concentrandoci sulla promozione degli stili di vita sani, sulla prevenzione e su una migliore gestione delle malattie croniche invalidanti, come il diabete. Le nuove tecnologie e i nuovi farmaci vanno valutati prima di essere immessi sul mercato per l'efficacia e sicurezza, ma anche per la loro sostenibilità economica. Senza questo criterio bisognerebbe impedirne la commercializzazione». La tecnologia porta a diminuire i costi. Gli stent per l'angioplastica: negli ultimi dieci anni si sono dimezzati di prezzo, ad esempio. «Questo ha fatto sì che venissero proposti a molte più persone. I costi aumentano nel complesso proprio perché i prodotti diventano più economici e diventano accessibili a tutti, favorendo anche un loro impiego poco appropriato». Lei propone controllo e razionamento delle tecnologie innovative. Non è difficile da realizzare in una società democratica? «Sarebbe la quarta rivoluzione culturale americana dopo il femminismo, l'ambientalismo e i diritti civili. È un cambiamento lungo, di tipo culturale, che deve conquistare il consenso della popolazione. D'altra parte il razionamento è presente, in forma occulta o palese, in tutti i sistemi sanitari, per esempio attraverso le liste di attesa. Va indirizzato a beneficio della salute pubblica».