Quali sono l'ambito e la portata del Principio di precauzione
( 22 Giugno 2005 )
( scritto da
Gavino Zucca
)
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Vorrei esprimere alcuni commenti in merito alla rassegna stampa del 7 giugno 2005, relativa al Principio di Precauzione (PdP).
La prima considerazione è che certamente vi è del giusto in alcune delle critiche espresse da alcuni degli autori citati. Ad esempio, ha ragione Sala quando auspica che il PdP non si trasformi in un "principio di blocco". E la richiesta del ministro Alemanno, citata da Katia Mammola, di ricerche scientifiche che assicurino l'innocuità degli ogm destinati alle nostre tavole, rappresenta il tipico esempio di atteggiamento poco consapevole della reale entità delle certezze (o, se si vuole, delle incertezze) che la scienza è in grado di fornire in proposito.
È indubbiamente vero che il PdP viene talvolta invocato a sproposito e in modo assurdo e ingiustificato. A sproposito, perché se ne richiede l'applicazione anche per attività che non hanno il carattere di pericolo potenzialmente globale e irreversibile. In modo assurdo, perché si pretendono certezze che non è possibile fornire e, in assenza di queste, l'unica misura precauzionale che si richiede è il blocco più o meno totale. E ingiustificato perché le prove a favore di un intervento sono spesso estremamente controverse e prive di qualunque tipo di fondamento.
Tuttavia la reazione di chi riconosce questi abusi è spesso altrettanto estrema, e tende a semplificare eccessivamente la questione mediante la richiesta di abolizione del principio tout-court (sempre, tuttavia, con riferimento ad un PdP che richiederebbe certezze assolute su una determinata attività prima che questa possa essere diffusa). E naturalmente questa posizione estrema non può che alimentare una contrapposizione fra le parti, un muro contro muro al quale non v'è rimedio, e in cui l'unica via di fuga dall'impasse è rappresentata dal diritto del più forte, che a seconda delle circostanze può essere o il partito ambientalista o quello dei produttori.
Una delle cose che più sorprende è come, in tutte le controversie intorno al PdP, sia difficilissimo trovare un riferimento corretto al suo vero enunciato, quello contenuto nella Dichiarazione di Rio delle Nazioni Unite, il quale non esprime né doveri, né obblighi, né divieti, ma enuncia solamente un diritto, una possibilità. Quando si analizza il dibattito intorno al PdP colpisce l'apparente incapacità (o meglio, la mancata volontà, probabilmente) di esprimere tale principio in maniera formalmente corretta. Sembra quasi che vi sia, da parte di molti, poco interesse a fare chiarezza, e che ci si pari dietro le ambiguità e lo scontro per negare una verità che, forse, è un po' scomoda per tutti.
Il problema, in realtà, come molti riconoscono, non è tanto quello della precauzione in sé, quanto dell'uso strumentale che di essa si può fare. Il problema sembra sorgere soprattutto quando il PdP, da principio prescrittivo di carattere generale, diventa invece un principio normativo di azione. Anziché suggerire un atteggiamento con cui affrontare i possibili rischi, diventa per alcuni uno scudo da innalzare per giustificare richieste di moratoria e blocco di ogni intervento. Ciò porta ad atteggiamenti in cui una determinata tecnologia viene rifiutata in toto, con motivazioni dall'apparenza sostanzialmente irrazionale e poco informata (opposizione al processo), mentre sarebbe probabilmente più proficuo per tutti valutare separatamente i diversi prodotti e trovare le eventuali soluzioni caso per caso (opposizione al prodotto).
Tuttavia, dal riconoscimento di un uso talvolta errato non discende necessariamente che il principio in sé sia da rigettare. Quello che serve è un dibattito serio e pacato in cui, partendo dall'enunciazione di un diritto espresso in una forma molto generale, si cerchi di definirne le linee implementative e di delinearne gli ambiti di applicazione e i limiti di validità. La Rivoluzione francese, con la sua enunciazione dei diritti alla libertà e uguaglianza, ha certamente prodotto anche eventi catastrofici, come il Terrore. Ma come sarebbe oggi il nostro mondo se, in conseguenza di questi eccessi, si fossero rigettati quei due principi fondamentali?
Per chiarire meglio questo punto vorrei proporre una breve analisi del vero enunciato del PdP e del significato di una sua negazione. Anzitutto, il PdP è così definito: ove vi siano minacce di un danno serio o irreversibile, la mancanza di una piena certezza scientifica non potrà essere usata come una ragione per posporre l'adozione di misure, efficaci rispetto ai costi, volte a prevenire il degrado ambientale.
Per prima cosa è importante chiarire a quale tipo di certezze scientifiche faccia riferimento il PdP. L'enunciato suggerisce una suddivisione grossolana, ma efficace ai fini di questa breve esposizione, delle attività umane in due grandi insiemi: da un lato quelle per le quali è certa la nocività (come ad esempio l'energia nucleare), e per l'utilizzo delle quali è necessaria un'attività di prevenzione; e dall'altra le attività per le quali non è stata (finora) riscontrata alcuna correlazione con un qualunque effetto nocivo; in questo caso, non si può affermare che l'attività sia innocua, ma solo che vi è incertezza sugli effetti nocivi. Solo quest'ultimo è l'ambito della precauzione.
Si noti che, di fatto, non esiste un terzo insieme. Non esiste un insieme di attività innocue con certezza, proprio in riconoscimento dell'incertezza intrinseca delle conoscenze scientifiche. In tutto ciò esiste una evidente asimmetria: si può sapere con certezza che un'attività è nociva, mentre non si potrà mai sapere con certezza che è innocua. È indubbio che, in conseguenza di ciò, esista anche una asimmetria nell'onere della prova. Basta una prova per dire che un'attività è potenzialmente nociva, e va dunque regolamentata, mentre infinite prove che garantiscono la non esistenza di una relazione causa-effetto non possono escludere che l'ennesima prova dia invece un risultato differente (è sostanzialmente la famosa critica di Hume al procedimento di induzione). E questo è ciò che giustamente affermano gli scienziati: è assurdo pretendere certezze sulla innocuità.
Che cosa dice il Principio di precauzione
Ma, e qui siamo al punto fondamentale, non è questo ciò che richiede il vero PdP, il quale enuncia semplicemente il diritto di essere precauzionali quando ci si trova di fronte ad un'attività su cui vi è incertezza circa gli effetti nocivi. Esso non impone l'obbligo di essere precauzionali quando non si ha la certezza sull'innocuità, come invece pretenderebbero sia i difensori che i detrattori estremi. Può essere utile, per chiarire tutto ciò, immaginare un potenziale dialogo fra un sostenitore dell'approccio precauzionale e un sostenitore dell'approccio tradizionale al rischio (che prevede sostanzialmente di intervenire una volta che il pericolo e l'eventuale danno siano noti). Espongo due dialoghi possibili, che fanno riferimento a due diversi tipi di certezze:
DIALOGO 1:
P - "Propongo di adottare una misura precauzionale perché ritengo che questa attività, se dovesse rivelarsi nociva, avrebbe effetti globali e irreversibili"
T - "Secondo me si dovrebbe invece rinviare qualunque azione, in attesa di avere una certezza del fatto che questa attività sia effettivamente pericolosa"
DIALOGO 2:
P - "Propongo di adottare una misura precauzionale perché ritengo che questa attività, se dovesse rivelarsi nociva, avrebbe effetti globali e irreversibili"
T - "Secondo me si dovrebbe invece rinviare qualunque azione, in attesa di avere una certezza del fatto che questa attività sia effettivamente sicura"
Il secondo dialogo è palesemente assurdo, il che dimostra a mio parere che la certezza a cui fa riferimento il PdP può essere solo quella sull'esistenza di un pericolo. Solo il primo dialogo rappresenta effettivamente il confronto fra chi intende gestire il rischio ambientale in modo precauzionale e chi invece in modo tradizionale. E dunque il PdP fa riferimento alla certezza della nocività, che è conseguibile, e non alla certezza dell'innocuità, che non è conseguibile. Chi accusa il PdP, invece, troppo spesso scambia i due tipi di certezza e afferma che il PdP richiederebbe la certezza sulla innocuità.
Esiste, ad onor del vero, almeno un'altra interpretazione di cosa rappresentino le certezze cui fa riferimento il PdP. Secondo questa prospettiva, il PdP si baserebbe su una visione della scienza in cui lo stato normale di un insieme di conoscenze è quello in cui viene raggiunta la certezza di queste conoscenze, mentre in alcuni campi si attraverserebbe una fase iniziale, per così dire, rivoluzionaria, in cui vi sono profonde incertezze le quali, tuttavia, tenderanno col tempo a risolversi in certezze. Secondo questa interpretazione, il PdP richiederebbe misure precauzionali durante le fasi rivoluzionarie, fino a quando non sia raggiunto lo stato stabile col conseguimento della certezza. Anche questa prospettiva tuttavia si scontra col fatto che, se così fosse, il PdP risulterebbe talmente assurdo da rendere impensabile l'idea che qualcuno possa averlo elaborato. Proviamo infatti a ricorrere a un terzo dialogo, che esprime questo tipo di interpretazione:
DIALOGO 3:
P - "Propongo di adottare una misura precauzionale perché ritengo che questa attività, se dovesse rivelarsi nociva, avrebbe effetti globali e irreversibili"
T - "Secondo me si dovrebbe invece rinviare qualunque azione, in attesa di raggiungere lo stadio in cui avremo una conoscenza certa su questo argomento"
L'unica interpretazione del Principio di precauzione che appare corretta da un punto di vista logico
Appare superfluo commentare ulteriormente la palese assurdità di un simile dialogo che, pertanto, non può esprimere correttamente il significato del PdP. L'unica interpretazione del PdP che appare corretta da un punto di vista logico è pertanto quella in base al quale esso esprime la possibilità (e non l'obbligo) di adottare misure precauzionali anche quando non si ha la certezza scientifica che vi sia un pericolo. Si tratta di un diritto, come già detto, e non di un dovere.
Un secondo esperimento mentale interessante consiste nel vedere a quali conclusioni si giunga negando un PdP definito in questo modo. Il PdP dice "si può essere precauzionali se...". La sua negazione è "NON si può essere precauzionali se...".
Come si vede, negando l'esistenza di un PdP si dovrebbe affermare che non si può (non si ha il diritto) di essere precauzionali (si noti anche che il PdP non fa riferimento a un pericolo qualunque, ma a pericoli gravi, estesi e irreversibili). Negare il PdP significa negare il diritto che una comunità ha di adottare misure per la propria protezione. Cioè, in linea di principio, chiunque potrebbe a piacimento introdurre attività/processi/innovazioni senza che le comunità possano opporre alcun tipo di veto o limitazione, a meno che non riescano a provare, a proprie spese se nessuno le aiuta, che vi è una correlazione fra quella determinata attività e un effetto nocivo. Se è vero che gli eccessi del principio hanno portato a degli assurdi e a degli abusi, a cosa potrebbe condurre l'impossibilità per una comunità di agire in propria difesa in maniera preventiva e precauzionale? Se si può dubitare della buona fede di una parte, è lecito dubitare della buona fede anche della parte opposta, e il non enunciare il diritto alla precauzione a livello giuridico implica l'impossibilità delle comunità a difendersi, se lo ritengono necessario.
Certo, si può affermare che il PdP inteso in questo senso sia un enunciato generale e ambiguo. Sala afferma che esso è ormai un metacriterio giuridico. Probabilmente è vero, ma proprio questo è il significato di tutti i principi generali enunciati nelle varie Dichiarazioni dei diritti, e che hanno trovato la massima espressione nelle Costituzioni delle nazioni moderne. Il termine meta (oltre, al di là), può anche indicare un qualcosa che sta sopra, che appartenendo a un ordine gerarchicamente superiore, include in potenza qualcosa che risiede in un livello immediatamente inferiore. Esattamente come una norma costituzionale e le leggi che da essa discendono.
Resta chiaramente il problema dell'implementazione corretta del PdP, della definizione di regole giuridiche pratiche per il giusto dosaggio dei vari diritti in conflitto e per la corretta attribuzione dell'onere della prova. Da un lato è certamente assurdo spostare tale onere interamente sui produttori (soprattutto se a questo si accompagna la richiesta inesaudibile di certezze assolute sull'innocuità). In base a quanto detto, è evidente che l'unica richiesta realmente esaudibile, almeno da un punto di vista logico, sarebbe quella sull'esistenza di un rischio, conseguibile mantenendo l'onere della prova dalla parte di chi vuole imporre misure precauzionali. Tuttavia, quanto tempo e quante risorse sono richieste per ricercare un effetto dannoso? E quanti danni possono essere stati prodotti nel frattempo? Anche la ricerca della dannosità può essere, se non teoricamente, almeno praticamente infinita, e quindi altrettanto inesaudibile da un punto di vista pratico. E anche restando nel campo di un puro criterio di calcolo costi-benefici, se dei danni possono essere provocati da un approccio precauzionale, quali altri danni (e quantificabili come?) possono essere causati da un'attività che solo dopo un uso prolungato si scopre aver provocato danni globali e irreversibili? In più si deve tenere conto che non possono essere messi sullo stesso piano il diritto di una comunità a difendersi e quello di una azienda di produrre dei profitti. E, anche se i vari diritti fossero equiparati, è necessario trovare tra di essi un compromesso, non abolire il principio spostando di fatto l'ago della bilancia totalmente dalla parte di coloro che producono
Il problema è complesso, non v'è dubbio. Ma lo è perché sempre più complessi sono gli ambiti su cui hanno effetto le applicazioni della scienza. Nessuna soluzione semplicistica può essere una risposta adeguata. Né di chi si illude di poter creare le condizioni di un mondo sicuro semplicemente non facendo niente, né di chi minimizza l'importanza di ricercare una decisione collegiale che tenga conto di tutte le conoscenze e di tutte le esperienze, reputando che la sola conoscenza scientifica possa dare una risposta ad un problema che non è scientifico, ma politico.
Gavino Zucca
(docente di fisica presso l'ISIS Archimede di San Giovanni in Persiceto (BO), laureato in Fisica all'Università di Pisa e in Filosofia all'Università di Bologna)
In questo sito, tra gli articoli più recenti in argomento si vedano:
Annotazione di G.M. Borrello:
Mi pare importante evidenziare la sintonia tra la posizione espressa da Gavino Zucca e quella di Olivier Postel-Vinay, direttore di "La Recherche". Postel-Vinay, in un articolo del 2001, scriveva:
«Che dice il principio di precauzione? Che le autorità pubbliche, di fronte a un rischio la cui esistenza sembra plausibile ma non è o non è ancora scientificamente dimostrata, possono prendere misure di controllo o di interdizione proporzionale alla gravità del rischio potenziale individuato.
(...)
Il grande pubblico, ma anche una parte acculturata della società, che va dai giornalisti agli uomini politici, confondono principio di precauzione e principio di prudenza.
(...)
La ragione è semplice. A un concetto tecnico è stato dato un nome che è comprensibile da tutti, ma che nel linguaggio corrente ha un altro significato. Grave errore di strategia semantica! Per garantire il successo mediatico di un concetto tecnico senza snaturarlo, bisogna dargli un nome suggestivo che non possa prestarsi a equivoci».
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Principio di precauzione (proposta di un percorso di lettura) 05/07/05
( 14 Maggio 2005 )
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5 luglio 2005: vai all'aggiornamento
Ho intenzione di proporre ai lettori di questo sito, nel prossimo futuro, uno o più percorsi di lettura riguardanti il Principio di precauzione e l'insieme delle tematiche da esso involte e che lo involgono.
Partirò, oggi, con un saggio, pubblicato nel sito di Observa, che, a mio parere, rende giustizia al Principio di precauzione.
Eccone, qui di seguito, alcuni brani.
Il saggio, che si intitola "Il principio di precauzione tra incertezza intrinseca e razionalità limitata", può essere letto per intero nel sito di Observa. L'autore è Gavino Zucca (docente di fisica presso l'ISIS Archimede di San Giovanni in Persiceto (BO), laureato in Fisica all'Università di Pisa e in Filosofia all'Università di Bologna).
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[Il Principio di Precauzione (PdP)] prende atto che l'incertezza scientifica è inevitabile, ma proprio da questa incertezza trae la richiesta di un diritto, quello di poter prendere misure precauzionali per proteggere se stessi e le generazioni future, se vi sono ragioni per credere che possano esservi dei pericoli estesi che, una volta scoperti, non sono più eliminabili.
[...]
L'enunciato più forte del PdP afferma che "si devono prendere misure precauzionali quando la scienza non è in grado di garantire con certezza la sicurezza di una determinata attività". Ma il principio cui si è giunti in ambito ONU dice una cosa molto diversa: anche se la scienza non ha stabilito l'esistenza di un rischio, non si può impedire a nessuno di assumere misure precauzionali per proteggere l'ambiente e la salute delle generazioni presenti e future, quando vi sono ragioni per ritenere che tale rischio possa causare danni estesi e irreversibili. Il PdP, in altri termini, non enuncia un dovere, ma un diritto. E afferma semplicemente che, proprio perché la scienza non è in grado di garantire certezze assolute sulla sicurezza di una determinata attività, quando le poste in gioco sono estremamente elevate e la decisione è urgente, si deve concedere a chiunque il diritto di agire preventivamente in senso precauzionale per la propria protezione.
La situazione presenta molte analogie con quanto accadde nel XVIII secolo con la definizione del diritto alla libertà. Anche in quel caso la situazione appariva confusa, tanto da far dire a Montesquieu che «non vi è parola che abbia ricevuto maggior numero di significati diversi, e che abbia colpito la mente in tante maniere come quella di libertà». E molte delle accuse attualmente rivolte al PdP si sarebbero potute a suo tempo rivolgere all'enunciazione della libertà come un diritto fondamentale dell'individuo. Eppure, nonostante le differenti modalità di applicazione di questo diritto fondamentale nelle varie comunità, e gli esiti talvolta non del tutto felici cui esse hanno condotto, nessuno oggi metterebbe in dubbio la sua validità generale. Così, enunciare oggi un diritto alla precauzione dovrebbe avere il solo scopo di sancire in maniera univoca ciò che è già comunemente riconosciuto da tutti, e la Dichiarazione di Rio si presta bene a questo scopo. Essa afferma un principio politico e pratico, non scientifico: il diritto di applicare una delle strategie euristiche fondamentali di ogni organismo vivente, che prevede di procedere con cautela quando si avanza verso l'ignoto, cercando di cogliere indicazioni da ciò che accade intorno e utilizzando la strategia più adatta alla situazione per decidere e agire. La precauzione appare in definitiva niente più che una norma di buon senso, che recenti esperienze negative hanno condotto a riaffermare in maniera più formale. Il vero problema sta quindi nel trovare modalità di messa in atto del principio che lo limitino e regolamentino adeguatamente onde evitare abusi.
[...]
Il rischio in realtà è in buona parte una costruzione sociale, e per quanto gli esperti possano ostinarsi a ritenere irrazionali atteggiamenti in contrasto con le valutazioni oggettive, nondimeno si deve accettare il fatto che ciò a cui deve rispondere un politico è il rischio percepito dalla comunità, poiché alla fin fine è alla comunità che tutto deve essere rivolto, anche le innovazioni tecnologiche.
[...]
Si tratta, in effetti, di un problema prettamente politico legato a un processo in atto di democratizzazione tecnologica, del quale il PdP fa parte integrante, e che riguarda le decisioni in merito ad innovazioni tecnologiche che possono interessare l'esistenza di tutti, anche di chi non è interessato. Il dilemma dei decisori politici consiste nella necessità di conciliare due libertà fondamentali: da un lato, quella di una comunità di prendere misure precauzionali, se lo ritiene opportuno, al fine di proteggere se stessa, il proprio ambiente e le generazioni future; e, dall'altro, la libertà economica e di iniziativa privata, così come il diritto di usufruire dei vantaggi e dei benefici derivanti dalle innovazioni tecnologiche. La ricerca di regole di implementazione del PdP coincide con la ricerca di regole per la conciliazione di queste due libertà.
[...]
La presa di decisione deve di conseguenza diventare un processo collegiale e riflessivo di confronto, ricerca e apprendimento reciproco che dovrebbe coinvolgere tutti coloro che sono interessati e che hanno conoscenze o motivazioni utili per la decisione da prendere.
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Aggiornamento del 16 maggio 2005
Il Principio di precauzione è uno di quegli argomenti che costituiscono veri e propri leitmotiv di questo sito. Tra il 2000 e il 2002 esso ha dato luogo a un Percorso di lettura da affiancarsi agli altri che, in quel periodo, andavano svolgendosi. Ci sono continui e frequenti rimandi, infatti, tra il Percorso sul Principio e gli altri dedicati alla "Società del rischio", a "Biotecnologie e Ingegneria genetica", alla "Libertà della ricerca scientifica". Quest'ultimo, negli Indici degli argomenti di questo sito, è anche associato all'etichetta tematica di "Scienza, Politica e Società", sotto la quale lo accompagnano quelli dedicati ad Edoardo Boncinelli, ad Hans Magnus Enzensberger, a Jacques Testart.
Nei brani sopra citati del testo di Gavino Zucca ho, dal mio personale punto di vista, colto due affermazioni che trovo conformi a un inquadramento interpretativo entro cui ho sempre guardato al Principio di precauzione: dall'incertezza (dall'inevitabile incertezza) nasce un diritto (e il Principio di precauzione enuncerebbe un diritto a proteggersi e a proteggere, prima che un dovere di fare o di non fare); diritto che va considerato tenendo conto della percezione di rischio che la società esprime, in quanto il rischio è in buona parte una costruzione sociale. Da tale premessa discenderebbero quella che Zucca chiama "democratizzazione tecnologica" e la propensione a prendere decisioni politiche in modo collettivo coinvolgendo i cittadini.
Lo spunto per riprendere in esame questi temi mi è venuto anche dalla segnalazione dell'altro giorno, da parte di Mario Castellaneta, del libro di Edoardo Boncinelli "Sani per scelta", dal recente post di Daniele Navarra nel suo blog "Innovation, Risk and Governance" e dal fatto che, a seguito della partecipazione della Fondazione Bassetti al Forum europeo su "Scienza e Società", abbiamo ripreso a parlare di partecipazione del pubblico alle decisioni politiche in campo scientifico e, quindi, in ultima analisi e in senso più ampio, della governance dell'innovazione (scientifica e tecnologica).
Qui, per oggi, mi fermo fornendo i riferimenti relativi a ciò che ho appena detto: - Tutti i Percorsi (svolti dal 2000 al 2002)
- Gli Indici degli argomenti di questo sito (oltre che, ovviamente, "Principio di precauzione", vedere l'argomento "Scienza, Politica e Società")
- Segnalazione da parte di Mario Castellaneta del libro di Edoardo Boncinelli "Sani per scelta"
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Principio di precauzione
( 9 Maggio 2005 )
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Polarizzando le aspettative che una porzione sempre più ampia della società del rischio contemporanea ripone nella capacità del diritto di governare gli effetti della tecnologia, il principio di precauzione si rende interprete di una contesa socio-politica che da qualche anno vede protagonisti Europa e Stati Uniti - in una partita serrata che si gioca sul terreno del diritto del commercio internazionale, con enormi poste economiche in gioco - mettendo a nudo un conflitto latente fra due modi profondamente diversi di concepire nei suoi elementi costitutivi la triangolazione fra individuo, società e rischio [*].
[*] Il che si manifesta oggi - per fare solo due dei tanti esempi possibili - nelle guerre commerciali che sulle due sponde dell'Atlantico si combattono sui caldissimi temi delle biotecnologie agricole e su quello delle carni bovine trattate con l'ormone della crescita, su cui rispettivamente A. Prakash, K. L. Kollman, "Biopolitics in the EU and the U.S.: A Race to the Bottom or Convergence to the Top?", 47 "Int. Stud. Quart." 617 (2003); T. Bernauer, E. Meins, "Technology Revolution Meets Policy and Market: Explaining Cross-National Differences in Agricultural Biotechnology Regulation", in 42 "Eur. J. Pol. Res." 643, 674 ss. (2003) e C. Charlier, M. Rainelli, "Hormones, Risk Management, Precaution and Protectionism: An Analysis of the Dispute on Hormone-Treated Beef between the European Union and the United States", in 14 "Eur. J. Law & Econ." 83 (2002) »
Questo brano è tratto dall'Introduzione del libro La precauzione nella responsabilità civile di Umberto Izzo, su cui si veda, in questo sito, la Segnalazione del 19 maggio 2004.
Il libro analizza in che modo il concetto della "precauzione" incida, nel periodo più recente, sull'istituto della responsabilità civile, con particolare riferimento al danno da contagio per via trasfusionale.
Il brano che ho sopra citato mi è sembrato particolarmente interessante perché fa emergere l'essenza politica, prima ancora che stricto sensu giuridica, del Principio di precauzione. E', a mio avviso, proprio prendendo atto che il Principio, fin dalla sua costituzione teorica, è pervaso (se non frutto di) sia da un'impostazione ideologica (o da più d'una), sia da esigenze pragmatiche e politiche, che l'autore del libro, subito dopo il brano qui citato, precisa che del Principio è in crescita la valenza giuridica (ambiti interessati: la protezione dell'ambiente e la tutela della salute nelle forme della sicurezza alimentare, della produzione e immissione in commercio di farmaci e di dispositivi biomedici, delle frontiere sperimentali della ricerca biomedica).
Egli prosegue:
«
Quale che sia l'ambito e la sede di invocazione del principio, è evidente che la sua essenza consiste nell'ambizione di esprimere ed imporre ai soggetti a cui si rivolge (stati nazionali, istituzioni pubbliche e private, nonché singoli individui) una linea di condotta ideale da osservare per fronteggiare il rischio ed il pericolo sottesi all'ignoto tecnologico, quando la scienza rivela di non essere in grado di fugare l'incertezza che attanaglia la decisione sociale sul "se" e sulle "modalità" dell'agire. Da qui l'invocazione, che spesso costituisce il corollario operativo dell'invocazione del principio di cui si discorre, di un blocco temporaneo dell'attività in questione, nell'attesa che nuove conoscenze scientifiche e nuove regole e procedure diano un senso concreto - e non soltanto inibitorio - all'operare del principio nel settore di attività considerato.
Nella sua configurazione più estrema, il principio di precauzione rischia in quest'ottica di rendersi indistinguibile da uno slogan politico - o da una giustificazione retorica di stampo normativo - per dare fondamento e legittimità a timori irrazionali, a volte venati di inconfessabili intenti protezionistici, con l'effetto di dar linfa alle aspre critiche che esso (con intensità pari a quella esibita da chi, per parte sua, ha provveduto a farne il proprio vessillo ideologico [**]) ha attirato da parte dei suoi detrattori, che sono presenti in vaste aree del mondo scientifico ed imprenditoriale [***].
[**] Si veda, per esempio, G. Francescato, A. Pecoraro Scanio, Il principio di precauzione, Milano, 2002.
[***] Si veda, per fare solo uno dei possibili esempi, A. Meldolesi, Organismi geneticamente modificati. Storia di un dibattito truccato Torino, 2001, 113-124.
[Ndr: Al libro di Anna Meldolesi è stata in questo sito dedicata una diramazione del Percorso "Biotecnologie e ingegneria genetica"] »
Credo opportuno segnalare anche il seguente brano, con cui si conclude l'Introduzione del libro, perché vi ho individuato non pochi legami con articolazioni particolari, presenti in questo sito, della tematica della "società del rischio", tematica che forse varrà la pena far riemergere:
«Il silenzioso protagonista del problema esaminato in questo studio, un virus letale [Ndr: l'HIV] che per anni ha tenuto in scacco le capacità predittive e conoscitive della scienza contemporanea, sintetizza le caratteristiche archetipe di una vasta (e purtroppo crescente) gamma di minacce che inquietano la società del rischio contemporanea: il bene messo a repentaglio è quello primario della salute; l'identificazione del pericolo è rimessa alla scienza ed alla sua capacità di guidare l'operato degli agenti sociali deputati a debellarlo; il fenomeno si è mostrato capace di evocare paure irrazionali, attraverso l'amplificazione massmediatica del suo potenziale di rischio; infine, l'operare della precauzione nei confronti di questa minaccia è dipeso e dipende in via esclusiva dallo sviluppo, dalla gestione e dalla implementazione di una tecnologia particolarmente sofisticata.»
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