Al di là del Principio di Precauzione
( 18 Novembre 2005 )
( scritto da
Gavino Zucca
)
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L'intento di questo scritto
Nel suo intervento sul Principio di Precauzione dell'11 settembre 2005, Luciano Butti ha evidenziato come
"la necessaria difesa del Principio di Precauzione, nei
suoi fondamenti culturali e giuridici, richieda in primo luogo di tener
conto delle buone ragioni dei suoi detrattori".
Si tratta di una affermazione che, personalmente, ritengo di poter
sottoscrivere pienamente. Pertanto, dopo aver difeso nei miei passati
interventi l'idea di un PdP definito come principio generale in forma
"debole", espressione di un diritto inalienabile di individui e
comunità, desidero qui invece accogliere e sviluppare
ulteriormente alcuni rilievi critici che sono stati recentemente
avanzati nei confronti del principio, soprattutto se considerato nella
sua forma più forte. L'intento di questi rilievi è quello
di individuare forme di implementazione del principio che ne
costituiscano, in qualche modo, una sorta di miglioramento e
superamento in vista di una più efficace gestione di quei rischi
solo ipotetici, ma estremamente gravi e potenzialmente irreversibili,
cui dobbiamo necessariamente far fronte.
Versione forte e versione debole del Principio
Prima di procedere occorre anzitutto spiegare cosa intendo per definizione "debole" o "forte" del PdP. La definizione "debole"
è quella basata su una corretta interpretazione dell'enunciato
espresso nella Dichiarazione di Rio e che potrebbe essere così
parafrasata:
"nessuno può impedire di prendere misure
precauzionali se vi sono dubbi circa l'esistenza di un rischio
potenziale che potrebbe causare un danno esteso e irreversibile, anche
quando non vi è evidenza scientifica che questo pericolo esista".
La versione "forte", invece può essere così espressa:
"quando sussistono dubbi circa l'esistenza di un rischio
potenziale legato ad una determinata attività, si deve agire in
maniera preventiva, anche se l'esistenza effettiva di tale pericolo non
è stata ancora stabilita scientificamente".
La prima enuncia una possibilità, un diritto. La seconda un obbligo, un dovere. È mia intenzione
cercare di mostrare con questo intervento che solo una versione debole
può rispondere ad una implementazione del PdP che sia fattibile,
rispondente alle esigenze di tutti gli stakeholder (coloro che hanno "una posta in gioco") e adeguata da un punto di vista adattativo.
In un precedente intervento intitolato "Quali sono l'ambito e la portata del Principio di Precauzione"
ho cercato di evidenziare alcuni problemi a cui conduce una versione
forte del PdP. Tra i caratteri principali di questa versione si possono
evidenziare i seguenti:
- anche in mancanza di certezze scientifiche, a fronte di un rischio
potenziale, ma plausibile, che darebbe luogo a danni estesi e
irreversibili, è necessario adottare opportune misure
precauzionali
- le misure precauzionali devono condurre, fra l'altro, ad un esame
delle alternative disponibili, fra le quali deve essere scelta la
migliore secondo un qualche criterio decisionale. Fra le alternative vi
è in generale anche la non-azione, e questa appare sovente
l'opzione preferita (si veda il caso degli OGM in Italia ed Europa)
- l'onere della prova deve essere spostato dalla dimostrazione della esistenza di un pericolo alla dimostrazione della sua assenza
Il Principio di Jonas
Olivier Postel-Vinay nel 2001 scriveva sulla rivista da lui diretta, "La Recerche", sotto il titolo "Il principio di Jonas":
«Il grande pubblico, ma anche una parte acculturata della
società, che va dai giornalisti agli uomini politici, confondono
principio di precauzione e principio di prudenza.
(...)
La ragione è semplice. A un concetto tecnico è stato dato
un nome che è comprensibile da tutti, ma che nel linguaggio
corrente ha un altro significato. Grave errore di strategia semantica!
Per garantire il successo mediatico di un concetto tecnico senza
snaturarlo, bisogna dargli un nome suggestivo che non possa prestarsi a
equivoci. La parola "quark" è un esempio di successo di questo
genere. Si sarebbe potuto, per esempio, chiamare il principio in
questione "principio di Jonas", in memoria del filosofo tedesco che
è stato, a quanto sembra, il primo che abbia tentato di
formularlo.»
L'articolo di Postel-Vinay può lessere letto per intero consultando, in questo sito, il Percorso sul principio di precauzione sviluppato dal 2000 al 2002.
È forse opportuno osservare che questa versione "forte"
corrisponde in buona parte a quella che potremmo definire invece una
visione intuitiva, o "ingenua", del principio. L'idea diffusa di
precauzione, infatti, sembra essere quella per cui nessun cambiamento
tecnologico di una certa entità dovrebbe essere introdotto
nell'ambiente e nella società fino a che i suoi impatti, inclusi
quelli a lungo termine, non siano conosciuti e misurabili. Ciò
porterebbe, per inciso, a ritenere che il termine precauzione in sé non sia forse il più adeguato da un punto di vista pratico
per riuscire a far riflettere tutti intorno alla ricerca di un
equilibrio tra sicurezza e innovazione che rispetti le esigenze di
ognuno. Lasciando da parte questa questione semantica (i cui effetti
pragmatici tuttavia sono tutt'altro che trascurabili), nel seguito
vorrei analizzare brevemente i tre aspetti sopra citati, cercando di
evidenziare come in ciascun caso la realtà sia più
complessa ed elaborata di quanto si vorrebbe far credere in un'ottica
di approccio "ingenuo" alla precauzione.
L'incertezza (epistemologica e ontologica)
Il primo punto riguarda il problema dell' I N C E R T E Z Z A.
Il PdP fa riferimento alla mancanza di certezze ma, come ho rilevato nel testo sulla portata e i limiti del PdP,
sarebbe priva di senso una enunciazione del principio in cui si
richieda la certezza sulla innocuità di una determinata
attività. Come alcuni autori hanno recentemente osservato,
tuttavia, vi è un altro aspetto dell'incertezza che va
considerato. Molti sostenitori del PdP, infatti, sembrano far
riferimento soprattutto ad un'incertezza epistemica, ovvero legata ad
un determinato stato delle conoscenze e superabile grazie ad ulteriori
studi e all'avanzamento del sapere scientifico. Ciò presuppone,
come osserva Mariachiara Tallacchini [3], l'esistenza di uno stato
normale della conoscenza scientifica in cui la certezza è la
caratteristica normale, mentre l'incertezza rappresenta uno stato
anormale e transitorio. Dunque la situazione di incertezza o ignoranza
sarebbe temporanea e dovuta solo alla incompletezza delle nostre
attuali conoscenze. In tal modo, bloccare del tutto un'attività
come approccio precauzionale può diventare una richiesta che si
ritiene sensata, in attesa di nuovi studi che diano finalmente la
desiderata certezza sulla sicurezza di quella attività (o sulla
sua pericolosità).
Quella epistemica non è tuttavia la sola fonte di incertezza.
Quando si ha a che fare con sistemi complessi, esiste anche una
incertezza ben più profonda, che potremmo definire ontologica o
"oggettiva", per utilizzare le parole di Dupuy e Grinbaum [1], che non
è legata né all'incompletezza di teorie e modelli,
né all'imprecisione con cui sono noti i dati. Questa incertezza
è intrinseca, "oggettiva" e non "soggettiva". Si tratta di una
incertezza inevitabile con cui si deve comunque fare i conti,
un'incertezza che esiste sia che agiamo, sia che non agiamo,
perché tutto intorno a noi muta di continuo, che noi si faccia
qualcosa oppure no. Se parliamo ad esempio di mutamenti climatici, si
può osservare che le grandi glaciazioni del passato non sono
state provocate dall'azione dell'essere umano, e che la peggiore
catastrofe della storia della vita sul nostro pianeta, il cosiddetto
"avvelenamento da ossigeno" prodotto dai primi organismi unicellulari
apparsi sulla Terra, è stata un evento che potremmo definire del
tutto naturale.
I pericoli presunti, potenzialmente globali e irreversibili, nei
quali dovrebbe trovare applicazione il PdP sono in generale proprio di
questo secondo tipo, in cui sussistono sia un'incertezza epistemologica
che ontologica. Tuttavia è la seconda ad essere predominante, e
può condurre a comportamenti del tutto imprevisti e
imprevedibili. I sistemi complessi sono infatti caratterizzati dalla
loro robustezza (possono assorbire perturbazioni anche grosse senza
subire contraccolpi) ma anche dalla loro criticità (ad un certo
punto, possono attraversare una fase di mutamenti violenti e
improvvisi, detta catastrofe, nella quale tutto cambia
in maniera irreversibile e inarrestabile, per portare il sistema verso
un nuovo stato stabile, diverso dal precedente). Le catastrofi sono
sostanzialmente imprevedibili: il loro legame con le possibili cause
è non lineare, sia nel tempo che nello spazio. Perciò,
quando si parla di applicare il PdP, si deve sempre essere coscienti
del fatto che una qualunque misura precauzionale può anche
essere inutile, se non dannosa, poiché l'effetto di qualunque
azione è in realtà imprevedibile. Nessuno, in
realtà, può essere in grado di prevedere con esattezza
gli esiti sulle varie scale temporali sia delle misure precauzionali
(compresa la non-azione), sia di qualunque altra attività umana,
naturale o non. E anche la non-azione ha i suoi effetti: ad esempio,
bloccare il progresso può impedirci, un giorno, di avere gli
strumenti che potrebbero consentirci di far fronte ad una crisi
derivante da altre cause, anche non umane.
La realtà è che quando si ha a che fare con sistemi complessi bisogna imparare a convivere con l'inevitabile incertezza.
Questo non vuol dire che non si deve fare niente, naturalmente.
È abbastanza evidente che le attività umane degli ultimi
secoli stanno modificando le condizioni in cui la nostra specie
è nata e si è evoluta, creando delle condizioni che
potranno andare bene per altre specie ma, forse, non per noi. Tuttavia
questo effetto lo otterremmo lo stesso anche solo esistendo: sei
miliardi di persone (e chissà quanti altri miliardi di esseri
viventi) "inquinano" in conseguenza del loro solo metabolismo organico.
Quale è la strada per cercare di gestire l'evoluzione dei
sistemi complessi per noi vitali? Naturalmente si tratta di un problema
di una complessità spaventosa, ma a mio parere qualche utile
indicazione si può trarre a partire dalla nostra esperienza
passata. Ad esempio, la medicina può darci un aiuto, soprattutto
quando ci raccomanda di prestare attenzioni ai sintomi, quelli che in
altro ambito sono definiti "early warnings", segnali precoci che qualcosa non va. Esempi di early warnings
ignorati ce ne sono tantissimi, a cominciare dal caso dell'amianto, per
il quale vi erano segnali su una sua possibile cancerogenicità
già nel momento in cui si iniziò ad utilizzarlo, oltre un
secolo fa.
La scelta fra alternative
Il secondo punto su cui vorrei soffermare l'attenzione riguarda
un'altra delle idee fondamentali alla base dell'applicazione del PdP:
la SCELTA TRA ALTERNATIVE. Non sto qui a soffermarmi
sull'indubbia utilità di valutare possibili alternative, e i pro
e contro di ciascuna. Spesso, però, tra i fautori del PdP vi
è l'idea che questa attività di analisi e selezione possa
essere condotta in maniera sufficientemente esaustiva e conduca a
decisioni dall'esito predeterminabile. In altri termini, che la presa
di decisione possa essere condotta secondo i criteri descritti dalle
teorie economiche classiche, ovvero la massimizzazione di una
utilità attesa. In tal senso, il PdP sarebbe una presa di
decisione sociale in condizioni di incertezza o di ignoranza. Questo
può certamente essere vero, a patto però di intendere
correttamente quale tipo di razionalità sia implicata in una
decisione sociale di questo tipo e di questa complessità.
Riprendendo la distinzione introdotta da Andy Stirling proprio a
proposito del PdP [2], bisogna anzitutto fare distinzione fra rischio,
incertezza, ignoranza e ambiguità, ciascuno caratterizzato dal
diverso grado di conoscenza sui possibili esiti e sulle
probabilità di accadimento di questi. In particolare:
- Rischio:
- elevata conoscenza dei possibili esiti e delle relative probabilità di accadimento
- Incertezza:
- elevata conoscenza dei possibili esiti, ma bassa conoscenza sulle relative probabilità di accadimento
- Ignoranza:
- bassa conoscenza dei possibili esiti e delle relative probabilità di accadimento
- Ambiguità:
- bassa conoscenza dei possibili esiti, ma elevata conoscenza delle relative probabilità di accadimento
Ora, mentre nella condizione di rischio, che in senso più
rigoroso è oggetto di prevenzione più che di precauzione,
è almeno teoricamente pensabile l'applicazione di metodologie
decisionali classiche (come ad esempio metodi bayesiani), nelle altre
condizioni di ambiguità, incertezza o ignoranza (si noti per
inciso che per Stirling solo il caso della ignoranza è oggetto
del PdP), questo appare un compito irrealizzabile. In particolare,
quando siamo in condizioni di ignoranza, non abbiamo una conoscenza
esaustiva delle possibili azioni alternative, di ciascuna di queste non
conosciamo tutti i possibili esiti, né le rispettive
probabilità di accadimento. Ma c'è di più: in base
a quali criteri attribuiamo dei valori a ciascun possibile esito, dal
momento che le scale di valori di utilità possono essere diverse
da persona a persona e, per la stessa persona, possono variare nel
tempo? E che valore assegnare ai "valori", cioè a tutte quelle
conseguenze che non sono quantificabili in termini economici?
Il PdP riguarda in effetti un problema di decisione, ma la
situazione cui ci si trova di fronte non è quella asettica e
controllata di uno studio teorico su un decisore economico classico, ma
quella tipica di qualunque decisore reale, in cui questi si trova
stretto:
- da un lato, dalla pressione ambientale (necessità di una decisione e tempo limitato per operare la scelta)
- dall'altro, dalle limitazioni cognitive (capacità cognitive,
mnemoniche e computazionali limitate, impossibilità di una
analisi esaustiva delle alternative disponibili e delle ragioni a
favore di ciascuna alternativa)
Non solo. Limitandoci al caso della presa di decisione individuale,
anche ammettendo che sia possibile giungere al calcolo di una funzione
di utilità soggettiva, vi è una vera e propria
impossibilità di ottimizzare la scelta in senso classico
(massimizzazione dell'utilità attesa), poiché non esiste
un ottimo che valga per tutti. A livello sociale, poi, subentrano
criteri divergenti, aspirazioni contrastanti, conoscenze e competenze
distribuite, obiettivi, motivazioni e valori che possono divergere e
anche opporsi fra loro, differenze di metodi, euristiche, strategie,
diverso peso (status, prestigio) delle varie componenti del processo
decisionale. Inoltre, come insegnano le teorie dei giochi la scelta "migliore" dipende anche da ciò che fanno gli altri.
La teoria della razionalità limitata (soprattutto nella recente versione di "razionalità ecologica",
proposta dagli psicologi Gigerenzer e Selten) suggerisce una diversa
via per affrontare il problema delle decisioni sociali. Più che
una ricerca della alternativa migliore (che, come detto, in
realtà non esiste), si deve ricercare una scelta che soddisfi i
livelli di accettazione di tutti coloro che sono interessati, e il
processo di decisione deve essere tale che tutti possano adeguare
dinamicamente i propri livelli di accettazione. Il processo di decisione così descritto persegue non la massimizzazione dell'utilità ma, come già a suo tempo evidenziato dallo psicologo cognitivo Herbert Simon, il soddisfacimento.
Pertanto, se l'idea alla base del PdP è quella di cercare alternative migliori in senso adattativo
per tutto il gruppo e per tutti gli attori interessati, ovvero operare
una scelta che soddisfi possibilmente tutti gli attori, resi
consapevoli nel momento della scelta, il compito può anche
essere realizzabile. Se l'idea è invece quella di individuare
una alternativa che sia la migliore in assoluto rispetto alla
massimizzazione di una utilità attesa, oppure la migliore tra
quelle definibili in un dato momento, si tratta di un obiettivo
intrinsecamente non realizzabile. E anche il ritenere che non far nulla
sia, in situazioni di estrema ignoranza, la via migliore, non è
corretto. Anche non far nulla è una decisione, con i suoi esiti anche imprevisti, i suoi benefici ma anche i suoi costi. E non è detto che sia la più adeguata dal punto di vista della comunità.
L'approccio che ne consegue si basa sulla applicazione di strategie euristiche sociali
per una presa di decisione "evoluzionisticamente" valida. Naturalmente,
proprio l'approccio euristico della psicologia cognitiva suggerisce
anche una serie di problemi cui si deve cercare di porre rimedio.
Abbandonare l'approccio economico classico alla presa di decisione
sociale per abbracciarne uno di tipo euristico implica dare rilievo,
indirizzandole verso l'interesse comune, a strategie elementari
individuali che potrebbero anche condurre a scelte inadeguate.
Euristiche di imitazione, soddisfacimento, scelta rapida possono
aiutare a prendere decisioni valide da un punto di vista adattativo, in
tempi accettabili rispetto alle esigenze poste dall'ambiente esterno.
Ma possono anche condurre ad errori, soprattutto quando ci si trova ad
affrontare situazioni nuove, per le quali i riferimenti passati si
rivelano inadeguati. Ad esempio, come evidenziato da Dupuy e Grinbaum
[1], è noto che l'essere umano ha una forte tendenza a scegliere
ciò che è certo rispetto a ciò che è
incerto, anche quando l'utilità di questa seconda scelta
è maggiore (effetto certezza) e che questa "avversione a non
conoscere" si può tradurre nell'impossibilità di credere
alla realtà di una possibile minaccia, se di questa non si sa
nulla. In una presa di decisione in cui vi sia grande incertezza sugli
esiti delle varie azioni, tutto ciò si può tradurre nel
fatto che la scelta preferita tenda ad essere la non-azione, che appare
come l'opzione più sicura. Allo stesso modo, però, di
fronte ad una possibile catastrofe, può anche esservi una
tendenza a "rimuovere" l'idea che la catastrofe possa avere una
realtà, almeno fino a quando le prove della sua realtà
non siano tali da non poter più essere ignorate.
Il rischio, come si vede, può anche qui essere quello di
precipitare in uno dei due estremi opposti: da un lato un rifiuto
eccessivamente precauzionale verso le innovazioni tecnologiche, per
timore delle conseguenze ignote di qualunque nuova iniziativa, e
dall'altro un rifiuto di vedere le possibili conseguenze catastrofiche
delle nostre azioni e di operare precauzionalmente per cercare di
contrastare questo scenario. È chiaro che le procedure partecipative
con cui può essere messo in atto un programma di presa di
decisione sociale euristica devono cercare di sfruttare il meglio che
queste strategie possono offrire, evitando nel contempo i rischi che da
esse possono derivare.
L'onere della prova
Sulla terza questione, relativa all'attribuzione dell' O N E R E D E L L A P R O V A ,
il PdP prevede uno spostamento dalla dimostrazione della presenza di un
rischio alla dimostrazione della sua assenza. Anche qui, si tratta
certamente di una richiesta giustificata da innumerevoli esperienze
passate ed è più che lecito richiedere che chi modifica
una situazione preesistente faccia il massimo dello sforzo alla sua
portata per evitare danni. Tuttavia le cose non sono naturalmente
così semplici, soprattutto perché il compito richiesto
per effettuare le prove necessarie è estremamente gravoso,
richiede risorse e può protrarsi a lungo nel tempo. Per
comprendere la natura del problema, può essere utile riferirsi
ad un caso concreto.
I distruttori endocrini sono agenti che interferiscono con tutti i
meccanismi che ruotano intorno agli ormoni naturali responsabili del
mantenimento dell'omeostasi negli organismi e della regolazione dei
processi di sviluppo. Si tratta di prodotti chimici (ad esempio
pesticidi) che da decenni vengono dispersi nell'ambiente, e per molti
dei quali è nota la potenziale tossicità. L'uso ne
è tuttavia consentito secondo determinate norme che ne regolano
l'esposizione in modo da tenere i rischi al di sotto di una determinata
soglia. Una delle principali preoccupazioni sorte di recente è
dovuta al fatto che iniziano a emergere forti sospetti circa la portata
della loro nocività, poiché anche se si è esposti
a dosi basse, dato che l'esposizione è continua e protratta nel
tempo, a lungo andare potrebbero verificarsi problemi in seguito
all'accumulo di sostanze di tipo differente, delle quali oltretutto non
sono note le interazioni (i prodotti non si presentano isolatamente, ma
sotto forma di miscele). Queste sostanze infatti rimangono a lungo
nell'ambiente, e possono facilmente penetrare nell'organismo, dal quale
non vengono smaltite efficacemente, e tendono quindi a concentrarsi nei
tessuti. Viene pertanto meno uno degli assiomi della tossicologia,
ovvero la dipendenza della tossicità dalla dose, poiché
siamo in presenza di una dipendenza della tossicità dal tempo.
L'incertezza in questo caso è a tutti i livelli: sia sulla
effettiva azione a lungo termine dei singoli prodotti, sia sul
comportamento di un organismo in cui venga alterata la funzione
endocrina, sia sulla effettiva esposizione dei singoli individui. In
molti casi, addirittura, l'incertezza è sulla stessa azione del
composto. Certamente, e in molti sono d'accordo (ad esempio l'EPA
statunitense e EEA europea) esistono ormai una serie di indizi che
possono essere collegati con l'ampia diffusione di distruttori
endocrini: tra questi, l'aumento dell'incidenza di svariati tipi di
problemi all'apparato riproduttivo (tumori ai testicoli, alla prostata,
alle mammelle) e la diminuzione della fertilità maschile dovuta
al calo del numero di spermatozoi. Sebbene si ammetta che non vi siano
evidenze in grado di stabilire in maniera definitiva un collegamento
causale tra gli effetti nocivi e l'esposizione ai prodotti chimici,
alle dosi e nei tempi propri delle situazioni reali, l'osservazione di
trend abbastanza chiari, insieme ad una serie di prove più o
meno dirette di effetti nocivi simili sugli animali (sia da laboratorio
che selvatici), rende estremamente plausibile, anche da un punto di
vista scientifico, l'ipotesi della nocività di queste sostanze
anche nelle condizioni tipiche di bassa esposizione cui le popolazioni
sono soggette. Soprattutto, come già detto, quando queste
sostanze possono mescolarsi e interagire in maniere totalmente
imprevedibili.
Può essere utile chiarire a questo punto quale sia la natura
degli "indizi" a cui si potrebbe fare riferimento in questo e in altri
casi simili. Supponiamo che il prodotto X, testato in laboratorio,
produca con ragionevole certezza effetti di riduzione della
fertilità dei topi. Il prodotto X viene utilizzato in modo
esteso a dosi estremamente basse, tali da non provocare a breve alcun
effetto sull'uomo. Dopo alcuni decenni di utilizzo si osservano nelle
popolazioni umane e animali effetti di riduzione della fertilità
dei maschi. Cosa si dovrebbe concludere? Chiaramente la correlazione
non può essere stabilita in modo scientifico. Ma possiamo
sostenere che questo non sia un indizio che la sostanza X potrebbe
essere la causa dell'effetto osservato? E nel dubbio, cosa conviene
fare? La risposta sensata sembra talmente evidente da parere scontata: se
posso fare a meno del prodotto X, lo elimino. Altrimenti cerco di
sostituirlo con qualcos'altro di equivalente che almeno non mi dia un
risultato chiaro sui topi di laboratorio. E intanto cerco di limitare
il più possibile l'uso di X e di avvertire la popolazione
esposta perché prenda tutte le misure per ridurre il contatto
con la sostanza. E questa è quella che si chiama precauzione.
Tuttavia, vi sono enormi limitazioni alla possibilità di
effettuare degli studi esaustivi in questo campo ed è
praticamente impossibile attribuire ai produttori l'onere di provare
con certezza che non vi sono rischi. Anzitutto, poiché questi
prodotti variano moltissimo come struttura, non è probabile che
sia possibile collegarne la struttura con gli effetti, limitandosi a
studiare un numero limitato di composti rappresentativi. Il problema, a
questo punto, è la crescita esponenziale del tipo di controlli
che dovrebbero essere effettuati. Ad esempio, se si dovessero studiare
i 1000 composti tossici più comuni in combinazioni di 3 alla
volta, dovrebbero essere effettuati 166 milioni di esperimenti, senza
tenere conto dell'ulteriore aumento dovuto alla necessità di
avere diversi tipi di campione per ogni esperimento e del bisogno di
protrarre ogni esperimento nel tempo. Si tratta di una mole di lavoro
che va oltre la capacità di qualunque nazione al mondo. Da qui,
constatando la plausibilità del rischio e la potenziale enorme portata del danno possibile, oltre che della sostanziale irreversibilità degli effetti,
si è giunti in Europa alla raccomandazione di adottare misure
precauzionali, in attesa che giungano gradualmente i risultati delle
ricerche necessarie. La risposta precauzionale può essere
naturalmente di vario tipo: riduzione dell'uso delle sostanze
più sospette (quelle in cui sono provati effetti in laboratorio
o quelle in cui si è verificata un'associazione fra esposizione
ed effetti, pur se la relazione causale non è provata), ricerca
di prodotti alternativi, analisi della reale utilità del
prodotto, eliminazione graduale laddove possibile, studio in
laboratorio almeno degli effetti a breve, con uno spostamento
dell'onere della prova dalla parte dei produttori.
La strategia europea, in linea col principio di precauzione, prevede
azioni a breve, medio e lungo termine. Le prime riguardano
l'aggiornamento delle informazioni sulla scienza della distruzione
endocrina e sul modo in cui questo fenomeno sta influenzando le persone
e la vita selvaggia, e l'identificazione di sostanze di cui
dovrà essere valutata la capacità di distruzione
endocrina. Le azioni a medio termine riguardano invece principalmente
lo sviluppo e la validazione di metodi di test. Quelle a lungo termine,
infine, prevedono la revisione e l'adattamento della legislazione
esistente per la regolamentazione del testing, della valutazione e
dell'uso di sostanze chimiche nell'Unione Europea. Ed è proprio
da qui che, in sostanza, è nata anche la recentissima normativa
denominata REACH.
Quello descritto rappresenta forse uno degli esempi più
chiari e incontrovertibili di applicazione del PdP. Nessuno può
dubitare del fatto che l'onere della prova spetti principalmente a chi
produce i distruttori endocrini perché siano utilizzati.
Tuttavia non è un onere attribuibile integralmente ad essi, e
soprattutto non è pensabile che sia espletato tutto all'inizio,
cioè nella fase che precede l'introduzione di una sostanza. Una
simile richiesta (che coincide con l'enunciato "ingenuo" del PdP: non
innovare se non si è sicuri) condurrebbe inevitabilmente alla
paralisi e al blocco di qualunque attività che interferisca con
l'ambiente preesistente con un certo grado di complessità.
L'onere della prova deve essere invece inteso come uno sforzo
continuato di monitoraggio e ricerca, di attenzione all'insorgere di early warnings e di volontà di farli emergere.
E una parte dell'onere della prova spetta comunque anche a chi propone
una misura precauzionale, poiché nessuna richiesta di questo
tipo è sensata senza una qualche giustificazione, anche
indiretta, ma comunque razionalmente e scientificamente plausibile.
Riassumendo
- L'incertezza dei sistemi in cui trova applicazione il PdP è
soprattutto "oggettiva", ontologica, intrinseca, ovvero non
eliminabile. Con l'incertezza si deve imparare a convivere. Ricercare
la certezza è utopistico, anche se tendenze innate ci portano a
questo
- L'esame delle alternative non può essere completo,
esaustivo. Nelle scelte reali è impossibile ottimizzare
l'utilità attesa da una decisione. Le scelte reali vengono
operate non con criteri di massimizzazione dell'utilità attesa,
ma di soddisfacimento. La razionalità ecologica deve sostituire
la razionalità economica classica
- L'onere della prova non è attribuibile a nessuno in via
esclusiva. Ciascuno deve concorrere a tale scopo, in fasi e momenti
differenti. Tuttavia, anche se alla fine la decisione della
comunità è comunque sovrana (e in questo consiste il
diritto di precauzione che deve essere riconosciuto a tutti), la logica
indica che almeno qualche indicazione (early warning) dovrebbe essere data per poter giustificare l'attivazione di una misura precauzionale
Tutto ciò depone a mio parere a favore di un uso prudente della precauzione,
in cui la richiesta di attivazione delle misure precauzionali sia
plausibile e decisa in modo collegiale e responsabile, e le misure
proposte ragionevoli e adeguate. Solo una definizione "debole" del PdP
può essere appropriata a tale scopo e la messa in atto del PdP
deve rispettare la pluralità esistente di conoscenze, interessi
e valori.
Di fronte ai due atteggiamenti contrapposti:
- quello pre-esistente alla nascita del PdP, in cui si attendeva
l'insorgere di un pericolo prima di prendere contromisure, nella
convinzione che gli ecosistemi fossero in grado di ritornare
naturalmente al loro stato di equilibrio
- quello suggerito da una versione forte, o "ingenua", del PdP, che
prevede il blocco di un'attività fino a quando non si sia
raggiunta la certezza della sicurezza
emerge da quanto detto un quadro di compromesso. Una volta esclusa
la possibilità che sussistano pericoli evidenti ed estremamente
probabili, il blocco completo di una innovazione, che porterebbe per
altri versi vantaggi all'umanità, dovrebbe in generale essere
l'ultima ratio. Una volta esauriti i controlli possibili in
laboratorio, è solo mediante l'applicazione in campo che si
possono ottenere le ulteriori indicazioni, a patto di prevedere forme
di monitoraggio continuo e attento, e di prestare attenzione anche al
più piccolo allarme che da tale innovazione dovesse derivare.
In fondo, si potrebbe concludere, se non si fa, non si sa. Ma
soprattutto, se non si fa, non si ha. Non si ha, cioè, tutto
quell'insieme di vantaggi non solo materiali che dobbiamo al progresso
scientifico e tecnologico e ai quali nessuno probabilmente può e
vuole più rinunciare.
Bibliografia essenziale
[1] Dupuy Jean-Pierre, Grinbaum Alexei, "Living with
uncertainty: from the precautionary principle to the methodology of
ongoing normative assessment", Comptes Rendus Geosciences, Vol. 337, Issue 4, March 2005, pp. 457-474
[2] Stirling Andrew, ESTO Report On Science and Precaution in the Management of Technological Risk, vol. 1 (EUR 19056/EN), 2000 e vol 2. (EUR 19056/EN/2), 2002
[3] Tallacchini Mariachiara, "Before and beyond the precautionary principle: Epistemology of uncertainty in science and law", Toxicology and Applied Pharmacology, Vol. 207, Issue 2, Supplement 1, 1 September 2005, Pages 645-651
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