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Il postumanesimo di Roberto Marchesini in una recensione di Claudio Tugnoli

( 22 Ottobre 2005 )

( scritto da Vittorio Bertolini Cliccare sul link per scrivere all'autore )

Nel 2002 in questo sito abbiamo dedicato ampio spazio alla tematica del "Post Human":

«Il futuro ci riserva una post-umanità.
L'anelito dell'uomo a superare quella che ha da sempre percepito come una propria incompletezza è tipico delle più profonde e fertili autorappresentazioni che egli ha della propria esistenza. "Post human" è una riflessione sulle trasformazioni a cui questo modello di esistenza va incontro.»

Nella Rassegna stampa di quel periodo, intitolata "Post Human" ho fatto riferimento ad alcuni articoli che recensivano il libro di Roberto Marchesini "Post-human. Verso nuove forme di esistenza", il cui oggetto è l'ibridazione fra uomo e tecnologia.

Mi pare giusto quindi proporre la lettura di un'ulteriore recensione, a cura di Claudio Tugnoli, decisamente molto argomentata e completa: "Il postumanesimo di Roberto Marchesini" [documento in formato PDF, nel sito dell'IPRASE del Trentino].

Questo non tanto, e non solo, per fornire un elemento di informazione aggiuntivo, ma perché Tugnoli nel leggere il testo di Marchesini illustra una prospettiva nuova del rapporto fra uomo e tecnica. Se infatti nella recensione precedente avevamo colto l'ibridazione quasi come un fatto "fisico" Tugnoli mette in luce anche l'ibridazione culturale.

Il mito della purezza
e
il paradigma dell'incompletezza

«L'ultimo libro di Roberto Marchesini - Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Boringhieri, Torino 2002, pp. 577 - un volume che, per l'ampia articolazione, la molteplicità dei riferimenti e la densità concettuale non mancherà di suscitare l'attenzione del mondo accademico e scientifico, ricostruisce il dibattito sui rapporti tra uomo, tecnica e mondo del vivente dal punto di vista del Postumanesimo. La lettura di questo libro è salutare e benefica perché di fatto smantella tutti i pregiudizi tecnofobici di cui si è nutrito gran parte dell'umanesimo antiscientifico. Del resto le contraddizioni dell'umanesimo erano evidenti molto prima che il postumanesimo le denunciasse con impietoso acume. La demolizione del mito della purezza - il corollario immediato della tesi separatista, per cui uomo e natura, così come uomo e tecnica sono separati da un abisso incolmabile - è quanto di più convincente si trovi nel libro. I rapporti di mutua ibridazione che sono sempre intercorsi tra le tre sfere considerate sono sempre stati ignorati, in difesa dello statuto ontologico particolare dell'uomo. Marchesini invita a considerare il fatto che tutte le teorie antropologiche elaborate all'interno della tradizione occidentale sono riconducibili al paradigma dell'incompletezza, all'idea che l'uomo sia un essere imperfetto il quale si perfeziona e si completa attraverso la cultura. Questa concezione del rapporto tra natura e cultura è già presente nel mito di Prometeo illustrato da Esiodo nelle Opere e i giorni, così come nel Protagora di Platone. Marchesini intende dimostrare invece che il paradigma dell'incompletezza è un mito che ostacola la comprensione della natura umana e dei suoi rapporti con la cultura [...]

La cultura come evento ibridativo

[...] Marchesini interpreta il processo culturale come "evento ibridativo", in cui l'organismo umano si esternalizza passando a un livello di maggiore dipendenza da un partner esterno (un martello, una teoria, l'olfatto del cane). L'aspetto interessante è dato dal fatto che spesso le ibridazioni danno origine a una funzione del tutto nuova e inattesa, a bisogni insospettati. La tecnologia retroagisce sul sostrato biologico in modo che, si può dire, ogni acquisizione culturale si può considerare una biotecnologia [...]

Il concetto di "hibris"

[...] Lo sviluppo vertiginoso della tecnologia determina l'imperfezione ontologica, non pone rimedio a un'incompletezza naturale e anteriore alla cultura. Il superamento del concetto essenzialistico di purezza comporta il rigetto del concetto di hybris. Infatti, se l'idea di purezza si rivela un concetto privo di oggetto e di valore, muta completamente la valutazione dell'hybris da pericolo e peccato a "motore di coniugazione dell'uomo con il mondo" (p. 203). [...]

Si veda:

"11 creature"

(Pagina di Tommaso Correale Santacroce)

«Tra l'oggetto "essere" e l' "essere oggetto", tra il costruire e il creare, tra il prevedibile e l'imprevedibile: un percorso per immagini attraverso alcune figure chiave, espressione del desiderio dell'uomo di mettere mano alla propria evoluzione, di immergere le mani nel magma della vita e formare qualcosa di propria immaginazione.»

[...] "La tendenza a riprogettare il corpo è pertanto riconducibile a quell'apertura del sistema che sembra caratterizzare la nostra specie, associabile peraltro ad altre tendenze ibridative: per esempio il desiderio di intraprendere avventure nelle dimensioni incognite, la capacità di mettere in discussione il proprio registro percettivo e interpretativo, l'adozione di strategie comportamentali di altre specie" (p. 233) [...]

[...] L'orrore umanistico suscitato dal progetto di un uomo completamente artificiale si giustifica solo come conseguenza della persuasione che esista una differenza oggettiva tra naturale e artificiale [...]

[...] La comprensione dei meccanismi di riprogrammazione delle cellule staminali potrebbe rivelarsi una rivoluzione superiore a quella della scoperta degli antibiotici: "dalla cura di particolari patologie degenerative al ripristino di interi tessuti, dalla possibilità di controllare e indirizzare la terapia genica nei soggetti che presentano patologie ereditarie alla libertà di utilizzare terapie risolutive nella cura dei tumori (chemio e radioterapiche) emendando la perdita di alcuni tessuti con la rigenerazione promossa proprio dalle cellule staminali" (p. 434). Gli studi sulle nanotecnologie promettono scenari impressionanti sulla strada della creazione di sistemi ibridi.

Il corpo come ecosistema abitato dall'alterità tecnologica

Il nostro corpo sembra destinato a diventare un ecosistema abitato dall'alterità tecnologica (p. 443) [...]»

L'ibridazione uomo-tecnica, come potenziamento delle attitudini individuali, nasce anche da una necessità insita nell'animale uomo di superare i limiti che la storia naturale gli ha assegnato. Se nell'umanesimo classico il superamento della morte era legato alla conservazione della memoria di sé, la tecnica promette la conservazione di sé.

«La tecnica si svela allora come promessa di onnipotenza, delirio onirico, di oltrepassamento di ogni confine, come trasgressione di un nomos pensato come norma inviolabile. Se la morte è un fenomeno naturale e irreversibile, la civiltà si può interpretare come l'espressione di uno sforzo delirante che ha lo scopo di smentire l'esistenza di un limite cronologico naturale.»

«Ma» --prosegue Tugnoli leggendo Marchesini-- «il desiderio di divenire immortali ha come condizione la coscienza della mortalità. Marchesini riporta l'osservazione di Stephen J. Gould secondo il quale la coscienza della mortalità è la conseguenza negativa della maggiore complessità neurale della specie umana, che ha impedito all'uomo di rimanere nello stato di beata ignoranza che caratterizza la vita degli altri organismi (p.481). La conoscenza che l'uomo ha della propria finitudine biologica è gravida di conseguenze; la perdita della vita è interpretata come l'evento conclusivo di un depotenziamento progressivo al quale ciascuno si sforza di porre rimedio con l'ausilio della tecnoscienza. L'intensificazione delle pratiche di rallentamento e, se possibile, di arresto dei processi degenerativi dell'invecchiamento rallenta il decorso temporale e conferisce in fondo un valore assoluto al presente del soggetto. [...]

[...] Ma la morte è davvero un incidente di percorso, una disfunzione alla quale si può porre rimedio? Jean- Claude Ameisen sostiene invece che la morte non è un accidente evolutivo, bensì il motore del processo filogenetico: è la morte cellulare che interviene continuamente nell'ontogenesi, dallo sviluppo embrionale fino al decesso. La morte è dunque programmata per consentire lo stesso sviluppo embriogenetico e realizzare l'identità genetico-ambientale dell'individuo. La morte agisce selettivamente, in ogni tappa della nostra esistenza [...]

[...] Più selettivi siamo, maggiore è il numero di possibilità che lasciamo estinguere e maggiore sarà la nostra identità peculiare. L'immortalità è dunque un controsenso, perché vivere è morire: «La morte entra nel proscenio della nostra vita fin dai primi istanti e contribuisce come uno scultore a estrarre dall'informe, cioè dal mare delle possibilità, quel profilo che ci è così caro» (p. 486) [...]

Sul tema della ricerca medica protesa al conseguimento dell'immotalità, si veda, in questo sito, "Verso l'immortalità per capire la macchina uomo (recensione del libro "Verso l'immortalità", di Boncinelli e Sciarretta)" (V. Bertolini - 29 Luglio 2005)

Si vedano anche "Immortali e infelici", di Daniel Callahan (traduzione in italiano, a cura di Mauro Capocci, del testo della Lecture del 21 febbraio) e "Umanità high-tech", di Silvio Monfardini, entrambi nel sito dell'Aiote, citati in precedenza in questo sito all'interno dell'articolo "Innovazione, Medicina e Responsabilità: Lecture di Daniel Callahan e altre risorse"

[...] La morte concepita come oltraggio è dunque al contrario quanto di più necessario e coessenziale alla vita. Il giovanilismo e la ricerca dell'elisir di lunga vita sono espressioni del desiderio di allontanare la morte, ma nel frattempo il nostro organismo, come quello di tutti i viventi pluricellulari, è coinvolto nel processo inesorabile di estinzione selettiva parziale che culmina nell'estinzione totale. L'imperativo di rimanere giovani ed efficienti può produrre effetti positivi nel campo della prevenzione di alcune malattie, ma diventa insensato se costringe ad adottare misure e pratiche con l'obiettivo esplicito di sfidare la finitudine o di spostare indefinitamente il limite cronologico di durata della propria vita.

Il rifiuto della morte

Del resto, il rifiuto della morte spiega scelte decisamente discutibili come quella della crioconservazione, in attesa di sviluppi della scienza che permettano di restituire la vita al cadavere congelato. Marchesini riporta in dettaglio le diverse e sofisticate procedure di ibernazione, alcune delle quali prevedono la distruzione del substrato biologico e la riproduzione elettronica dell'intera configurazione ottenuta con lo scanning di ogni pellicola del cervello ottenuta con tecnica microtomica. [...]

[...] La fine dell'umanesimo, osserva Marchesini, ha dato vita a due tradizioni diverse, che assegnano ruoli antitetici alla tecnoscienza: l'iperumanesimo che vede nella tecnoscienza una proiezione/estensione dell'uomo; il postumanesimo, che attribuisce alla tecnoscienza il ruolo di porre rimedio all'antropocentrismo e di rivalutare il ruolo decisivo dell'eteroreferenzialità e dell'ibridazione. Iperumanesimo e postumanesimo sono la conseguenza del dilemma costitutivo della modernità, la contraddizione tra il desiderio dell'uomo di rimanere separato dalla realtà (in quanto si concepisce come essere speciale) e il bisogno sempre più forte di immergersi nell'interazione ibridativa con l'alterità tecnologica: "L'accelerazione dello sviluppo tecnoscientifico incrementa in modo direttamente proporzionale i processi di esternalizzazione performativa, permettendo una paritetica internalizzazione di virtualità: l'uomo prova la disarmante esperienza di sentirsi al tempo stesso più potente, perché in grado di allargare il proprio dominio di operatività, e più debole, perché spaventosamente dipendente da partner esterni nell'espressione performativa" (p. 521). Ma proprio questa contraddizione rivela l'inconsistenza della pretesa umanistica di tracciare un confine preciso tra le discipline dell'uomo e quelle della realtà non umana.

Il preservazionismo

e

l'ambientalismo preservazionista

Il preservazionismo, sia esso applicato all'uomo o alla natura, non ha alcun fondamento. Così l'ambientalismo preservazionista immagina di poter attribuire alla natura lo status di realtà incontaminata finché essa non è stata degradata dall'opera dell'uomo, ma si tratta di una concezione del tutto arbitraria, perché in nessuna epoca l'uomo è vissuto in armonia con l'ambiente, come dimostrano le alterazioni distruttive provocate su flora e fauna del pianeta a partire dal Pleistocene (p. 542). Solo una concezione dinamica in senso postumanista può dare una soluzione ai problemi ambientali attraverso il miglioramento delle applicazioni tecnoscientifiche. Perciò la direzione giusta non è la condanna della tecnologia, ma il riconoscimento e lo sfruttamento della dipendenza della nostra specie dall'alterità, la sua eteroreferenzialità.

Il concetto di responsabilità nei confronti dello sviluppo della scienza e della tecnica

A questo punto, come osserva Luisella Battaglia richiamata da Marchesini, entra in gioco il concetto di responsabilità nei confronti dello sviluppo della scienza e della tecnica. Hans Jonas e Tristram Engelhardt rappresentano due modalità opposte di intendere il principio di responsabilità. Se Jonas invoca il dovere di assumere una responsabilità cautelativa, capace di fornire risposte concrete ed efficaci alle minacce incombenti (anche a costo di limitare d'imperio la libertà degli individui), Engelhardt invece difende la legittimità del pluralismo di posizioni etiche e sancisce l'obbligo di riconoscere a ciascun individuo il diritto di decidere in merito al proprio bene. Engelhardt dichiara inaccettabile la tesi dell'integrità/inviolabilità della natura: "A coloro che temono che la ricostruzione genetica possa comportare rischi sconosciuti, si potrebbe controbattere che la mancata ricostruzione può comportare rischi altrettanto sconosciuti" (p. 549). La responsabilità per Engelhardt dunque si fonda sul riconoscimento dei diritti inalienabili della persona. All'opposto di Jonas, Engelhardt sostiene il principio di autonomia, che prescrive di rispettare la volontà dell'agente e di fare agli altri il loro bene. Marchesini considera queste due posizioni opposte come la conseguenza di un fraintendimento relativo alla collocazione dell'uomo nei suoi rapporti con la cultura, l'attività tecnoscientifica e la natura stessa. La riflessione di Jonas infatti esprime un irrigidimento conservatore e fa uso di vecchi concetti come quello di hybris per opporsi a ogni intervento nei confronti di una alterità dichiarata intangibile. Dall'altra parte si assiste alla difesa dell'essere umano, delle sue prerogative e dei suoi diritti prescindendo totalmente dal nesso con la natura, secondo uno schema quindi autoreferenziale e antropocentrato.

Responsabilità cautelativa

e

responsabilità emancipativa

Si può dire, conclude Marchesini, che sia i sostenitori della responsabilità cautelativa, sia quelli di una responsabilità emancipativa adottano lo stesso presupposto dei teorici dell'incompletezza: "la cultura si pone in opposizione alla biosfera, non come espressione della biosfera stessa [...] tecnofilia e tecnofobia sono così di fatto espressioni dello stesso empito antropocentrico incapace di leggere il processo coniugativo dell'agire tecnologico" (p. 550).

Marchesini propone un'etica del futuro e una bioetica capaci di riconoscere l'alterità e l'eteroreferenza come momenti essenziali del fare tecnologico. Dato che il non umano è l'altro polo del processo culturale, la salvaguardia dell'ambiente e della natura in generale non si può contrapporre alla cultura e alla tecnologia. Quando due poli interagiscono è impossibile attendersi che essi rimangano inalterati, perché ogni relazione interviene nella determinazione dell'identità mobile dei soggetti; identità che, d'altra parte, non sarebbe possibile definire in modo indipendente dalla relazione stessa. La critica che Marchesini rivolge alle correnti principali della bioetica è un corollario della sua concezione postumanistica. Rimane tuttavia il dubbio, circa la possibilità di assumere una posizione bioetica non antropocentrata, giacché sono pur sempre gli esseri umani ad assumere decisioni in campo tecnologico e a determinare la direzione dello sviluppo. A meno che quella di Marchesini non sia una visione naturalistica in cui ai processi di interazione con le alterità è attribuita la capacità di autorganizzarsi in modo spontaneo. Infatti è impossibile sottovalutare la circostanza che uno dei due poli, l'uomo, ha un potere d'intervento e una libertà di decisione straordinariamente superiori a quelli dell'altro polo. La responsabilità bioetica dell'uomo è allora tanto più drammatica quanto maggiore è il numero delle opzioni che egli è in grado di apprezzare e tra le quali è chiamato a istituire una gerarchia.».

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Bibliografia sul Principio di precauzione

( 16 Ottobre 2005 )

( scritto da Redazione FGB Cliccare sul link per scrivere all'autore )
Tutte le bibliografie pubblicate nel sito della Fondazione Bassetti

Pubblichiamo oggi una Bibliografia sul Principio di precauzione.

A cura di Gavino Zucca, è una selezione mirata di alcuni testi, articoli e riferimenti web che possono aiutare a comprendere meglio la storia e l'evoluzione del Principio, i diversi significati che gli sono stati assegnati, i principali tentativi di implementazione e le linee del dibattito internazionale intorno ad esso.

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La responsabilità nell'innovazione e l'antropologia mimetica come chiave euristica per raggiungere decisioni responsabili

( 12 Ottobre 2005 )

( scritto da Claudio Tugnoli Cliccare sul link per scrivere all'autore )

Premessa di Gian Maria Borrello:

«Avevo chiesto al Prof. Tugnoli di aiutarmi a mettere a fuoco meglio i nessi fra la teoria mimetica e la problematica della responsabilità nell'innovazione, se possibile individuando una traccia che prendesse in considerazione l'osservazione che oggi è necessario parlare di responsabilità delle conseguenze in un'ottica di mondo globale e interconnesso. Tugnoli mi ha dato una risposta che reputo eccellente, nella quale coniuga tra loro alcuni dei motivi tematici dominanti in questo sito. Per esempio pone l'accento sul fatto che quello della responsabilità nell'innovazione è eminentemente un problema politico; per la precisione, che è un problema di governance [*], di --usando le sue parole-- "gestione sistematica dei rapporti tra individui, tra collettività, tra stati e tra questi e gli individui"

[*] "Governance is the sum of the many ways individuals and institutions, public and private, manage their common affairs. It is a continuing process through which conflicting or diverse interests may be accommodated and co-operative action may be taken. It includes formal institutions and regimes empowered to enforce compliance, as well as informal arrangements that people and institutions either have agreed to or perceive to be in their interest"
(Commission on Global Governance (1995)
An overview of Our Global Neighbourhood - The Report of the Commission on Global Governance, Oxford, Oxford University Press, p.2)»

In generale ogni decisione, qualunque sia il ruolo istituzionale del decisore, presuppone una conoscenza della situazione che si intende modificare e una capacità di prevedere le conseguenze delle proprie azioni. Purtroppo però nessun decisore umano possiede in modo completo tale sapere. Questo spiega i numerosi insuccessi e i casi in cui il risultato ottenuto è addirittura antitetico rispetto all'obiettivo prefissato e programmato. D'altra parte, è umanamente impossibile prevedere tutte le conseguenze che si verificheranno, anche nel breve periodo, rispetto a ciò che si sta per intraprendere. E' il limite delle teorie etiche di tipo consequenzialista, per le quali il metro di valutazione del valore morale delle azioni umane risiede unicamente nelle conseguenze provocate dalle azioni medesime. Se la responsabilità di ciò che facciamo risiedesse tutta nelle conseguenze che consapevolmente crediamo scaturiscano dal nostro intervento, allora potremmo ugualmente considerarci "irresponsabili", giacché quelle che riusciamo a prevedere sono molto poche e riguardano la gestione di routine, ma molto meno le scelte innovative e il governo del cambiamento.

Secondo un altro orientamento teorico, il valore morale delle azioni si misura considerando il grado di confornmità delle azioni stesse a una legge o principio immutabile, la cui validità è universalmente riconosciuta (ad esempio: non uccidere). Si tratta dell'indirizzo deontologico, di cui Kant è l'esponente più illustre. Secondo i sostenitori di tale concezione dell'etica normativa gli uomini devono sottoporre le massime delle loro azioni a una prova di validità che consiste nel porsi due domande fondamentali:
1) posso immaginare senza contraddizione che la massima della mia azione possa valere per tutti gli uomini nessuno escluso?
2) Agisco in modo da considerare l'uomo come fine e non come semplice mezzo?

Una questione però sorge a questo punto: il rapporto tra mezzi e fine. Né l'etica consequenzialista, né quella deontologica risolvono in modo del tutto coerente la questione del rapporto tra mezzo e fine. E' lecito sforzarsi di realizzare un fine buono con mezzi cattivi? Siamo responsabili solo nei confronti del fine o anche rispetto ai mezzi impiegati per realizzarlo?

L'etica dei vangeli e quella di Gandhi negano che si possa dissociare il mezzo dal fine: se il mezzo è cattivo, anche il fine lo è. Siamo dunque responsabili anche nei confronti dei mezzi e non solo dei fini, che peraltro non controlliamo mai perfettamente.

Altri invece (credo che siano la maggioranza) ritengono che ogni decisione comporti la necessità di distinguere tra mezzo e fine; e che solo il fine meriti una valutazione morale, dal momento che, soprattutto in condizioni di emergenza (si immagini un poliziotto che abbia a pochi metri di distanza un terrorista imbottito di esplosivo e in procinto di entrare in un palazzo affollatissimo: che cosa deve fare? Deve trattenersi dall'uccidere il kamikaze in considerazione della rilevanza morale anche del mezzo, oltre che del fine?) risulta inconcepibile e irresponsabile non fare uso di un mezzo in sé discutibile per raggiungere un fine positivo e giudicato buono da tutti.

Il tema della responsabilità va tuttavia affrontato anche in un'altra direzione, in riferimento alla teoria mimetica. Ogni nostra azione infatti è suscettibile di essere imitata e lo è di fatto, come mostrano ad abundantiam i fatti di cronaca (lanci di sassi dal cavalcavia, allagamenti delle scuole, e altri comportamenti più neutri). Il mimetismo è il motore dei comportamenti umani che noi definiamo spontanei e originali. Quanto più inconsapevole è l'imitazione, tanto maggiore è l'impressione soggettiva di originalità di chi mette in atto un certo comportamento. Le mode e i comportamenti di massa in generale presuppongono l'imitazione semplice, che si diffonde come una specie di contagio. Il conflitto e la sua degenerazione nella violenza presuppone invece l'imitazione reciproca, in cui diverse persone desiderano possedere qualcosa solo perché anche l'altro lo possiede, in un'escalation ossessiva in cui l'oggetto fisico interessa sempre di meno, mentre la vera posta in gioco diventa in misura crescente l'altro, il modello di cui si vorrebbe prendere il posto per il valore immenso che esso rappresenta agli occhi del rivale-discepolo proprio in ragione dell'ostacolo che frappone...

La conoscenza dell'antropologia mimetica aiuta a prevedere almeno alcune conseguenze delle nostre azioni. Inoltre mette a disposizione di operatori e direttori di comunità, manager e dirigenti a ogni livello uno strumento di analisi dei rapporti umani che può rappresentare un valido ausilio nella formazione di un'attitudine alla decisione responsabile e consapevole.

In questo mondo globalizzato ogni azione rimbalza esponenzialmente nei cervelli degli abitanti del pianeta. E mai come oggi si presenta all'umanità la possibilità di prevedere in gran parte (e quindi il compito di prevenire) le catastrofi di ogni genere che appaiono all'orizzonte. La responsabilità nell'innovazione riguarda innanzi tutto, credo, la gestione sistematica dei rapporti tra individui, tra collettività, tra stati e tra questi e gli individui. Alcune decisioni fondamentali chiamano in causa la responsabilità di coloro che le prendono e cercano di attuarle. La loro azione sarà tanto più efficace quanto maggiore sarà la condivisione degli obiettivi da parte delle masse. Di qui la necessità di diffondere la conoscenza della realtà al maggior numero di persone, affinché possano appoggiare i decisori nel momento in cui questi prendono decisioni drastiche (ad esempio il blocco della circolazione nelle città o l'aggiornamento dei sistemi di smaltimento dei rifiuti) per far fronte a una situazione così grave da non lasciare alternative. L'innovazione è possibile, a molti livelli, se si organizzano il coinvolgimento e la partecipazione del maggior numero di persone, da cui dipende l'esito del progetto.

Mi scuso per aver abbreviato e semplificato forse troppo questioni tremendamente complesse. Non mancherà occasione di riprenderle e di affrontare anche altri aspetti che sono rimasti in ombra.

Claudio Tugnoli ( Scheda biografica nel sito mondodomani.org)

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Difendere l'ambiente ascoltando le obiezioni [AGG: 28/03/06]

( 5 Ottobre 2005 )

( scritto da Luciano Butti Cliccare sul link per scrivere all'autore )
Per intervenire, fai clic qui

Vai all'aggiornamento del 28/03/06 (messaggio da Mario Castellaneta)

Sarei felice se sul sito della Fondazione potesse avviarsi un dibattito aperto e spregiudicato sull'effetto serra. Come si può comprendere dall'articolo che ho già scritto in questa sezione del sito della Fondazione, sono convinto che il riscaldamento globale sia una (probabile) realtà, e che pertanto - allo stato attuale delle conoscenze - sia ragionevole l'adozione di misure di difesa e prevenzione, sulla base del Principio di Precauzione.

Tuttavia non mi piacciono i fondamentalismi alla Sartori, ed anzi penso che siano sbagliati e dannosi.

Si vedano i due articoli di Giovanni Sartori usciti sul Corriere della Sera il 16 gennaio e il 17 agosto 2005, citati nella Rassegna nel blog "Tout se tient", a sua volta citata nella colonna di destra che affianca il precedente articolo di Luciano Butti

Sull'effetto serra vi è - nel dibattito giornalistico che si svolge in Europa - un preoccupante clima di difesa a oltranza del "politically correct". Per effetto di questo clima, le domande difficili vengono puramente e semplicemente ignorate (a partire dalla spiegazione che viene data nelle scuole su questo problema).
Alcune domande difficili sono le tre che seguono:

a) siamo sicuri che il riscaldamento in corso sia opera dell'uomo?

b) siamo sicuri che - se il riscaldamento dovesse proseguire con l'attuale ritmo - le conseguenze in alcune decine di anni sarebbero disastrose?

c) siamo sicuri - questa è la domanda più importante - che le misure raccomandate dal Protocollo di Kioto siano efficaci e proporzionate dal punto di vista del rapporto fra costi e benefici?

Nessuna di queste domande ha una risposta semplice: ma non è questo un buon motivo per evitare di porcele...

Luciano Butti
(Pagina biografica nel sito dello Studio legale "Butti Peres & Partner": <www.buttiandpartners.com> )


Aggiornamento del 28 marzo 2006

Da Mario Castellaneta:

«Il libro di James Lovelock "The revenge of Gaia", recentemente pubblicato, è uno di quei testi che finiranno per restare tra i riferimenti culturali di chi segue le tematiche ambientali. James Lovelock viene da molti ritenuto una delle figure più eminenti del pensiero ambientalista. "Gaia" è il suo modo di chiamare la Terra; in realtà è qualcosa di più complesso, ma per la semplicità di queste note si può intendere in questo modo. Lovelock fa considerazioni molto preoccupate sullo stato di salute della Terra e sulla necessità di reagire rapidamente al deterioramento della situazione. Sferzanti le sue critiche rivolte a chi ritiene il "global warming" null'altro che una finzione; il loro modo di pensare è ben rappresentato dal recente romanzo di Michael Crichton "Stato di paura". Ma non è più tempo, secondo James Lovelock, di pensare al "business as usual", nè allo sviluppo sostenibile. Anche quest'ultimo, secondo Lovelock, sarebbe solo una panacea; è tempo di pensare ad una "sustainable retreat" (sostenibile ritirata). Tra le affermazioni degne di nota, la difesa della energia nucleare: l'opinione di J. Lovelock è che si tratta dell'unica fonte che assicura quantità di energia sufficienti senza emissione di gas ad effetto serra e con un livello di sicurezza più che adeguato.»

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