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La responsabilità è uno stratagemma per il funzionamento della società

( 20 Agosto 2004 )

( scritto da Giuseppe O. Longo Cliccare sul link per scrivere all'autore )

NdR: questo intervento è una risposta a quello di Giuseppe Belleri

Caro Belleri,

Eccomi finalmente a lei, per tentare non di rispondere, ma di aggiungere qualche osservazione alle sue, molto pertinenti, alle quali mi associo quasi del tutto.

Sono molto d'accordo con lei che nonostante tutti gli aggiornamenti e le discussioni, la scienza classica, molto orientata al riduzionismo e alla causalità unifilare, esercita ancora un'influenza potente in molti campi del sapere e della pratica; lei esamina il caso della prevenzione medica, uno dei territori più importanti sotto il profilo pratico e anche epistemologico, e se ne potrebbero aggiungere altri.

Tuttavia credo che qui non sia all'opera l'influsso della scienza classica quanto piuttosto qualcosa che la precede e la condiziona, cioè la propensione umana alla semplificazione e alla linearità causale, sviluppatasi e affinatasi forse per motivi legati alla sopravvivenza o almeno a qualche valore selettivo: questa propensione è alla base della scienza classica e anche della prevenzione e di moltissime altre pratiche (e visioni del mondo): quindi non è sorprendente che vi sia risonanza e concordanza.

Solo di recente, e con molto impegno e fatica, si è riusciti a complessificare il quadro, a introdurre le nozioni di retroazione, di sistema, di multicausalità, di interazione non lineare ecc: queste conquiste tuttavia restano per lo più sul piano teorico, riescono a influire sulla scienza ad alto livello e condizionano il pensiero dei ricercatori più attenti, ma restano ancora patrimonio dei pochi.

Queste acquisizioni, cioè, non sono (ancora?) entrate a far parte della "cultura", intesa come patrimonio largamente condivisio di idee e pratiche tra loro legate, circolanti nella società e capaci di influire sulla visione del mondo a livello quotidiano, sui sentimenti e sulle emozioni condivise.

Del resto non c'è da stupirsi; pare che il 30 per cento degli europei sia ancor oggi convinto che il sole giri intorno alla terra: è evidente che la rivoluzione copernicana non li ha coinvolti perché essa ha a che fare con concetti molto lontani dalla quotidianità: in fondo al barbiere e al camionista (e anche al filologo) non interessa affatto che abbia ragione Tolomeo o Copernico, purché la sua attività si possa svolgere in modo normale e senza inciampi; tutti noi abbiano convinzioni errate e le possiamo mantenere finché non entrano in conflitto con il nostro benessere e la nostra incolumità; e anche quando sono palesemente in contrasto con quanto ci viene dimostrato per via razionale o per via sperimentale, le credenze sono dure a morire: il piano delle credenze e il piano delle conoscenze razionali (scientifiche, anche se non è proprio la stessa cosa) sono ortogonali: conosco fior di matematici che coltivano superstizioni inestirpabili e non soffrono affatto per questa che potrebbe parere una contraddizione (ma non lo è perché i piani sono appunto, ortogonali, o se si vuole paralleli, qui le metafore geometriche sono in certa misura arbitrarie).

C'è insomma una distanza grande e forse incolmabile tra le scoperte alte (specialistiche o erudite) e le loro ricadute basse (culturali), tanto più che il trasferimento, operato - spesso ma non sempre con grande buona volontà - dai "divulgatori", deve venire a compromessi, in particolare il rigore dev'essere sacrificato in parte alla comprensibilità, l'aridità alla suasione, la precisione al colore ecc; del resto ogni trasferimento è una divulgazione: una lezione universitaria è divulgazione, la comunicazione di una scoperta a un convego scientifico è anch'essa divulgazione: insomma "divulgazione" è un concetto sfumato (fuzzy) e quindi onnipresente, e quando c'è divulgazione c'è sempre una perdita irreversibile di rigore, coerenza, cautela e informazione.

In particolare la divulgazione teorica e le pratiche - che, se non altro per questione di numeri, si ispirano quasi di necessità alle nozioni divulgate e non a quelle alte, primarie - si svolgono all'insegna della semplificazione: è vero che dobbiamo convivere con la complessità, e di fatto ci conviviamo, ma quasi a nostra insaputa (all'insaputa dei più): nella vita, nella medicina, nei tribunali ecc si opera una semplificazione drastica, per ovvie ragioni: "o time, money, patience and stregth", diceva Melville: queste sono le risorse limitate che ci costringono a venire a patti con il desiderio teorico di tutto considerare.

Un'ultima osservazione su questo punto (mi rendo conto che forse non sto rispondendo affatto alle sue osservazioni, ma ne aggiungo di mie un po' a ruota libera...): il rapporto tra complessità e semplificazione è un po' analogo al rapporto tra l'intellettuale e le masse: le folle non sono influenzabili dai ragionamenti, ma soltanto da grossolane associazioni di idee: le leggi della logica razionale non hanno alcun effetto su di esse (si leggano le pagine molto attuali ancora di Gustave Le Bon).

Dobbiamo dunque rimpiangere che la ragione non guidi le folle? Direi di no: non siamo affatto sicuri che la razionalità sarebbe riuscita a trascinare l'umanità verso la via della civiltà con l'ardore e la baldanza suggeriti dalle chimere irrazionali: figlie dell'inconscio che ci guida, tali chimere erano probabilmente necessarie.

In un'epoca che vorrebbe impostare l'agire secondo i principi del pensiero scientifico e ha paura della quota irredimibile di irrazionalità che si annida negli umani (e che, come lei giustamente osserva, oggi si rivela sempre più manifesta), ogni giorno le vicende del mondo dimostrano che la vita è più ampia e complessa dei modelli razionali che vorremmo sostituirle, nel bene e nel male.

Dante: "l'uom in cui pensier sopra pensier rampolla di sé dilunga il segno perché la foga l'un dell'altro insolla" (cito a memoria, e male, e mi scuso): l'intellettuale, proprio perché è spinto all'analisi estrema e infinita, non si risolve a nulla, non agisce, non decide, o meglio non vorrebbe decidere mai: ogni decisione (e ben lo sa il medico) è un procedimento di troncatura, e ogni analisi troncata espone a un rischio, ma l'analisi infinita espone alla certezza del fallimento, cioè dell'inazione: ecco perché i grandi condottieri sono spesso poco intelligenti e poco analitici e i filosofi sono spesso pessimi politici e amministratori.

Per quanto riguarda la responsabilità, direi preliminarmente che l'etica è un potente metodo di semplificazione; gli umani da sempre, come individui e come specie, hanno semplificato il mondo costruendone dei modelli più 'abitabili', tramite l'arte, il mito, la religione, la scienza, la letteratura, la tecnologia... si tratta di sostituire al mondo "dato", ancorché inconoscibile, un mondo meno complesso e meno caotico: ebbene l'etica è uno di questi metodi, le sue regole o principi ci consentono di non arrestarci di fronte a ogni azione, problema, fatto, contingenza per chiederci come fare per risoverlo o superarlo; sono azioni preconfezionate, la cui efficacia è stata collaudata e la cui economia è incontestabile (fatto salvo il rischio di errore).

Anche la responsabilità è un concetto etico, dunque stenografico: ripugna all'analisi, che può sempre trovarla inadeguata, rozza ecc: ma al solito qui si confronta la necessità di agire - in un tempo ragionevole con un rischio accettabile - con la spinta intellettuale ad analizzare per un tempo infinito con la speranza di ridurre a zero il rischio (anch'io, lo confesso, sarei propenso all'analisi infinita...), quindi la responsabilità è uno stratagemma per il funzionamento della società, come l'etica tutta, e come l'etica si evolve (perché la società si evolve e tutti i mezzi ed espedienti per farla funzionare in modo accettabile, ancorché imperfetto, debbono parimenti evolversi): quindi il concetto di responsabilità dovrebbe essere contestualizzato, ma io non sono certo in grado di farlo.

Posso solo dire che, a quanto mi sembra, vi sono almeno due accezioni di responsabilità: una a posteriori, ed è la responsabilità che si associa alla colpa o al danno derivante da un'azione dolosa (quando si dice 'il responsabile dell'incidente'); l'altra, mi sembra di poter dire, è più che responsabilità un 'senso di responsabilità' come quando si dice 'mi sento responsabile di te', cioè voglio prendermi cura di te, voglio consigliarti e guidarti (atteggiamento che sconfina nel paternalismo, che mi è antipatico ma che a volte sento indispensabile, in virtù della solita necessità di semplificazione).

Mi sembra che Jonas parli spesso della responsabiltà nella seconda accezione (responsabilità verso i figli, i diseredati, le generazioni future): è chiaro peraltro che il secondo concetto si travasa nel primo a posteriori, cioè dopo un'azione fallita di cura e tutela: io che ero responsabile (1) di te, ho fatto la tal cosa e quindi mi sono reso responsabile (2) di un danno nei tuoi confronti.

Resta che sono del tutto d'accordo con tutte le sue osservazioni sulla responsabilità (sulla complessità delle conseguenze, sull'irrazionalità irredimibile degli attori sociali, sulla difficoltà di parlare in termini netti di responsabilità quando si vive in un mondo di incertezza, sull'ecologia dell'azione secondo Morin...): volevo solo mettere in evidenza come queste osservazioni devono essere confrontate con la necessità imprescindibile dell'azione da compiere in un tempo finito e spesso breve (e, banalmente, tutto è azione, anche la sospensione dell'azione); per questo, ripeto, le persone poco intelligenti ma molto decise sono spesso più adatte di quelle intelligenti ma "tentennanti" a fare i politici: nel bene e nel male.

Insomma, non dovremmo confondere i due piani: quello della riflessione e quello dell'azione, anche se così dicendo limito un po' l'aforisma di Maturana; il punto è che se è vero che "ogni conoscenza è azione e ogni azione è conoscenza", il passaggio tra i due versanti avviene attraverso la volontà (o libero arbitrio? ma qui non voglio aprire un altro fronte...) e la volontà mi consente di agire tenendo o non tenendo conto di certe conoscenze e di conoscere intraprendendo o non intreprendendo certe azioni... e questo è forse un punto da approfondire.

Con stima, grazie della cortesia e dell'attenzione.

giuseppe o longo

Giuseppe O. Longo
Ordinario di Teoria dell'Informazione
Dip di Elettrotecnica Elettronica Informatica
Università di Trieste

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Gli elisir della scienza [23/08/05]

( 16 Agosto 2004 )

( scritto da Vittorio Bertolini Cliccare sul link per scrivere all'autore )

Il libro di Enzensberger 'Gli elisir della scienza'Hans Magnus Enzensberger, giornalista, docente universitario, poeta, traduttore e saggista, è uno di quegli intellettuali di formazione umanistica che non disdegna però di confrontarsi con i problemi posti dal mondo della scienza. E forse proprio per la duplice natura dei suoi interessi culturali, i suoi scritti rappresentano una sfida nei confronti di chi si pone di fronte alle "due culture" in un'ottica monistica. La cultura moderna se è imprescindibile da Dante e da Goethe non può, nemmeno, non conoscere il secondo principio della termodinamica. La cultura tecnico-scientifica è di per sé una cultura avaloriale, che obbedisce solo alla logica interna della verità sperimentale. L'approccio umanistico di Enzensberger consente, perciò, di misurare l'innovazione tecnico-scientifica secondo criteri che mettono in primo piano l'importanza dell'etica della responsabilità.

Nelle pagine della FGB, più volte si è fatto riferimento al pensiero di H.M. Enzensberger: si veda il Percorso "Hans Magnus Enzensberger sul sito della Fondazione Bassetti", la Rassegna Stampa Giugno-Luglio 2001, [23/08/05] la Rassegna Stampa del 4 aprile 2003 intitolata "Scelte della scienza e scelte della società" e la Rassegna Stampa del 29 luglio 2003 intitolata "Democrazia deliberativa: Bosetti, Amato, Enzensberger, Lehmann".

La nuova raccolta di saggi di Enzensberger, "Gli elisir della scienza", pubblicata recentemente da Einaudi, già nel titolo adombra la filosofia antiscientista dell'autore. L'assonanza col titolo dell'opera di Gaetano Donizetti probabimente è puramente casuale. Ma forse non tanto. Se lo "specifico", truffaldino ma innocuo, del dottor Dulcamara è al centro delle vicende di Adina e Nemorino, le illusioni della scienza, non truffaldine, ma non sempre innocue, sono il filo conduttore che lega i vari saggi che compongono l'opera di Enzensberger. La critica di Enzensberger non è rivolta alla pratica scientifica, quanto all'enfasi massmediatica con cui l'apparato industrial-scientifico proietta verso l'opinione pubblica le "magnifiche sorti e progressive" di alcuni settori della ricerca scientifica. Da quello della biogenetica, a quello delle tecnologie digitali, per finire alle prospettive dell'Intelligenza Artificiale.

La raccolta si apre con alcune osservazioni sulla difficoltà dei non specialisti a comprendere il linguaggio dei matematici. Superare l'esoterismo del discorso matematico, in una società dove le applicazioni della matematica, anche di quella più astratta (per esempio la decrittazione dei codici segreti a cui affidiamo la segretezza dei nostri dati, è fondata sulla teoria dei numeri primi), significa favorire la consapevolezza del grande pubblico nei confronti del discorso scientifico.

Segue un saggio in cui viene analizzata l'opera di Siegfried Giedion "L'era della meccanizzazione". In questo saggio Enzensberger sottolinea come la storia dell'innovazione tecnologica sia segnata dall'opera di sperimentatori empirici, artigiani e ingegneri, che al di fuori della cultura accademica, spinti da necessità pratiche o dalla pura e semplice ricerca del nuovo, hanno prodotto invenzioni e prodotti che non solo hanno modificato la società ma sono servite anche a gettare le basi per nuove teorie scientifiche.

Il saggio successivo, che porta il titolo "Il Vangelo digitale. Profeti, beneficiari e spregiatori", analizza sotto il profilo sociale, economico e politico la diffusione delle tecnologie digitali. Per Enzensberger, nella società digitale non si è ancora sviluppata una base teorica sufficiente per chiarirne le implicazioni e responsabilizzarla di fronte ad applicazioni sempre più avanzate. E' intrinseco alle tecniche digitali misurare l'informazione in termini di bit, ma il puro dato quantitativo è insufficiente a definire l'ampiezza dei contenuti culturali dell'informazione.

Il saggio del quarto capitolo "Golpisti in laboratorio" è, almeno a mio parere, quello dove la critica è più puntuale di Enzensberger non alla scienza, ma alle pretese e ai rischi dello scientismo. In particolare Enzensberger rivolge la sua attenzione alle utopie ottimistiche prodotte da istituti e laboratori di ricerca. Utopie non sempre ingenue, ma spesso create per favorire il dirottamento di risorse verso progetti di ricerca sempre più costosi. Determinando di conseguenza un corto circuito fra conoscenza di base e ricerca applicata. «Il distacco fra la ricerca e il suo sfruttamento economico si è talmente ridotto che «dell'indipendenza di cui si vanta non è rimasto più molto». Nel mirino di Enzensberger le applicazioni dell'Intelligenza Artificiale: «E come la mettiamo con l'intelligenza artificiale, i cui profeti, già trent'anni fa, promettevano per la fine del millennio macchine che avrebbero dovuto superare di gran lunga tutte le prestazioni del nostro cervello? Nessuno confronta oggi queste previsioni con il misero risultato di investimenti miliardari, con quelle tartarughe elettroniche che faticano a salire una scala». Occorre notare, però, che se è vero che il sogno leibniziano della characteristica universalis è ancora lontano (e forse non sarà mai vicino) dall'essere compiuto, attraverso le misere tartarughe, così disprezzate da Enzensberger, la robotica è riuscita a realizzare apparecchiature che nell'industria, ma anche nelle sale operatorie, riescono a compiere, per efficienza e precisione, funzioni che sono in molti casi impossibili all'essere umano. Questo per dire che se in molti casi l'enfasi sulle magnifiche prospettive delle utopie scientifiche può risultare distorsiva nell'allocazione delle risorse, può anche essere che, indirettamente, si pervenga a risultati più modesti, ma senz'altro positivi. L'elisir di Dulcamara è inefficace, però Nemorino, nell'illusione della sua efficacia riesce a conquistare Adina. Questa, dal canto suo, non ha bisogno di alcun elisir per far innamorare di sé Nemorino, ma fida solo sulle proprie qualità, così come, fuor di metafora, la scienza dovrebbe non dovrebbe aver bisogno di ricorrere a false promesse.

In Internet, sul libro "Gli elisir della scienza", confronta sul sito del magazine on line "Boiler": di Giancarlo Bosetti "Intervista con Hans Magnus Enzensberger" e, sul sito del magazine on line "ReS", "Hans Magnus, poeta dei numeri", di Sara Capogrossi Bolognesi.

Il volume si chiude con due saggi dove Enzensberger, in una sorta di contrappasso recupera l'importanza della ricerca scientifica, non intesa, però, come processo rivolto verso futuri immaginari, ma come processo dialettico dove speranza del nuovo e tradizione si intrecciano di continuo. L'idiot savant e l'idiot lettré sono i due estremi di una concezione dove l'uomo appare in una sola dimensione. Ma studiare la fisica quantistica o cercare le frontiere della biotecnologia non significa non soffermarsi anche sui sonetti di Shakespeare.

Ogni capitolo del libro è, inoltre, accompagnato da una serie di brevi poemi in cui Enzensberger traccia un profilo di alcune delle figure chiavi dell'evoluzione del pensiero scientifico: da Leibniz a Turing a Goedel.

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La prevenzione in medicina (contributo al dibattito su "Il futuro tra incertezza e responsabilità") [11 agosto]

( 9 Agosto 2004 )

( scritto da Giuseppe Belleri Cliccare sul link per scrivere all'autore )
E' sempre un piacere intellettuale leggere i contributi del Prof. Longo.

Per parte mia vorrei aggiungere alcune considerazioni sulla prima e sull'ultima parte della conferenza. Dapprima cercherò di applicare alla medicina, di cui mi occupo professionalmente, la critica agli ideali epistemologici di ordine, prevedibilità e controllo, mentre nella seconda parte vorrei introdurre alcune criticità rispetto ad un concetto di responsabilità "hard".

1 - C'e' una sfera teorico-pratica della medicina in cui i principi della scienza classica, magistralmente riassunti nella prima parte della conferenza, hanno rilevanti ricadute sociali e culturali: la prevenzione.

Nonostante la messa in discussione della predicibilità dell'evoluzione dei fenomeni fisici, ad opera delle teorie del caos, l'idea di prevenzione in medicina continua ad avere un grande impatto e a generare altrettante aspettative sociali. Per alcuni si tratta di attese eccessive, fors'anche mitiche, soprattutto quando assumono caratteri del determinismo e del controllo monocausale sui processi biologici. La soprastima della medicina preventiva emerge dal confronto con la complessità probabilistica e non-deterministica dell'eziopatogenesi delle malattie e, in particolare, dell'evoluzione delle patologie croniche multifattoriali. La prevenzione medica è il luogo sociale dove ha più successo la concezione tradizionale della scienza, nella quale riecheggia la "fiducia di riuscire un giorno a fare previsioni esatte sul comportamento di porzioni sempre più vaste dell'universo in base a una conoscenza via via più precisa del suo stato in un istante qualsiasi". Se questo desiderio ha da sempre accompagnato il cammino dell'uomo figuriamoci quale risonanza emotiva e cognitiva individuale puo' avere l'offerta di iniziative preventive dal momento che promettono di prevedere ed anticipare le (male)sorti biologiche individuali, con "certezza" matematica e in modo "scientifico".

In effetti sotto il termine prevenzione si celano una galassia di significati e di pratiche che rendono il concetto quanto meno sfaccettato, se non nebuloso, e fuzzy. Ecco alcuni esempi:

A - gli interventi igienici di prevenzione ambientale attuati dal secolo scorso che, secondo alcuni epidemiologici, sono i veri artefici della sconfitta delle malattie infettive, ben più degli antibiotici (impianti fognari, potabilizzazione dell'acqua, standard ambientali abitativi, igiene alimentare etc..);

B - l'identificazione e l'eliminazione delle sostanze nocive ambientali (amianto, cancerogeni professionali, radiazioni ionizzanti, elettromagnetiche etc..) per interventi su gruppi a rischio;

C - la diagnosi precoce e pre-sintomatica, tramite screening di popolazione, di affezioni potenzialmente mortali come il cancro (mammografia, TAC spirale o dosaggio del PSA tutt'ora sub judice);

D - la cosiddetta prevenzione primaria, ovvero l'eliminazione o il controllo in popolazioni sane dei fattori di rischio biologici che sono in rapporto causale probabilistico con l'insorgenza di malattie, specie cardiovascolari (colesterolo, iperglicemia, pressione arteriosa, fumo di sigaretta etc..)

E - la prevenzione secondaria, in particolare nelle affezioni cardiovascolari dopo un primo evento patologico acuto, mediante il controllo "stretto" dei fattori di rischio sopracitati;

F - l'immunizzazione attiva dei gruppi contro agenti infettivi o altre malattie, tramite vaccini vivi, attenuati o sub-unità antigeniche di virus, batteri o componenti proteiche;

G - la medicina predittiva "genetica" che, ad esempio, in donne portatrici delle mutazioni dei geni BRCA 1 e 2, predisponenti allo sviluppo del tumore mammario, si può condurre ad interventi di mastectomia preventiva;

H - la promozione di abitudini alimentari "sane", che si mescolano con mode salutistiche di ogni sorta, a base di integratori, complessi polivitaminici, anti-ossidanti, erbe di vario genere.

Insomma un'ampia gamma di interventi con presupposti teorici ed efficacia assai diversificati, il cui comune denominatore è l'idea, tanto ovvia quanto vincente a livello sociale, che "prevenire è meglio che curare". Le proposte preventive hanno in genere un connotato deterministico o monocausale, la cui efficacia è generalmente enfatizzata, se non sopravvalutata, dai mass media e dalla gente. Quanti pazienti sono convinti che il colesterolo (o la pressione alta) sia la causa necessaria e sufficiente dell'infarto e che quindi abbassando i tassi ematici (o i livelli pressori) si prevengono tutti gli eventi cardiovascolari?

A fronte di questa interpretazione corrente della prevenzione stanno le eziologie multifattoriali e probabilistiche delle malattie, specie quelle croniche. Ad esempio l'epidemiologo Vineis osservava nel lontano 1988 che "dallo studio delle malattie cronico-degenerative è emerso che alcune esposizioni (o tratti patologici) sono in grado di aumentare la frequenza di malattia senza esserne cause necessarie e/o sufficienti". Un eminente storico del pensiero medico, Mirko Grmek, gli fa eco quando sottolinea che "secondo diversi autori la nozione di causa della malattia non ha valore scientifico" in quanto un evento patologico "si manifesta quando si realizza una costellazione di condizioni che appartengono sia all'ambiente esterno sia all'organismo stesso". Infine secondo lo storico e filosofo della medicina Gilberto Corbellini "gli approcci biosperimentali hanno più volte reiterato il perseguimento del miraggio della causa unica, necessaria e sufficiente per determinare una particolare condizione patologica, per scoprire regolarmente che il modello monocausale non si applica alle spiegazioni causali della malattia".

Ecco un'esempio di qui-pro-quo riguardo al significato della prevenzione:
in una recente inchiesta tra un gruppo di donne che si sottoponevano ad uno screening mammografico è emerso che una consistente percentuale di esse erano convinte che l'esecuzione dell'esame radiografico avesse di per sè un'azione preventiva nei confronti del tumore; le donne in pratica interpretavano la mammografia, non gia' come un accertamento clinico per diagnosi anticipate di tumori in fase asintomatica, ma come una sorta di mezzo preventivo attivo, analogo alla somministrazione di una pillola per abbassare la pressione nei confronti degli eventi cardiovascolari. Cioè esattamente il contrario dell'effetto delle radiazioni ionizzanti che possono, seppur teoricamente e in grosse dosi (scintigrafie, coronarografie ed angioplastiche con STENT, TAC etc.) indurre modificazioni biologiche cellulari potenzialmente patogene.

La reazione della professione di fronte a questa ambigua polisemia e alla variegata gamma di pratiche empiriche, credenze e aspettative sociali verso la prevenzione, più o meno realistiche, è duplice ed antitetica. Da un lato si tenta di arginare la proliferazione di iniziative preventive e di screening, di dubbia affidabilità ed efficacia, tentando la strada delle prove scientifiche, ovvero sottoponendo anche la prevenzione al pari delle terapie farmacologiche al vaglio delle evidenze. Nasce così il nuovo acronimo EBP, ovvero la proposta di una Evidences Based Prevention.

All'opposto vi è chi tra gli epidemiologi propone l'abolizione di ogni distinzione concettuale, ad esempio quella tra prevenzione primaria e secondarie, ma anche quella tra prevenzione e cura, vanificando il significato simbolico del noto aforisma sopra ricordato ed attualizzando il motto dell'anarchismo metodologico: "tutto fa brodo"!

2 - Mi desta qualche disagio l'enfasi con cui Jonas e altri bioeticisti evocano il principio e l'imperativo etico della responsabilità. Il termine ha, sua volta, assonanze giuridiche nel senso della colpa e dell'individuazione di un nesso monocausale, certo e possibilmente necessario, tra azione e sue conseguenze delittuose. Con la differenza, non da poco, che in tribunale il nesso viene stabilito a posteriori mentre invece in fatto di tecnologia dovrebbe essere ex-ante! Mi sembra un concetto troppo "forte", e fors'anche ambiguo, per poter essere applicato agli esiti incerti, aleatori e probabilistici delle decisioni che ricadono su sistemi a complessità organizzata, caotici, lontani dall'equilibrio e sensibili alle condizioni iniziali.

Anche perché la conoscenza di questi sistemi e del loro stato passa quasi inevitabilemente per l'intervento e la manipolazione sperimentale, come recita il famoso aforisma di Maturana "ogni azione è cognizione, ogni cognizione è azione" (e come sottolinea anche il prof. Longo quando osserva che "la conoscenza è sempre un'azione dagli esiti incalcolabili e l'azione è sempre una conoscenza dagli esiti irrealizzabili"). Senza il metodico spezzettamento e la sperimentazione sul DNA probabilmente ne sapremmo molto meno di quanto oggi possiamo vantare sul "codice della vita". Ho l'impressione che per poter immaginare ed essere interamente responsabili delle conseguenze, immediate e soprattutto a lungo termine, delle decisioni bisognerebbe anche essere onniscienti o dotati di poteri di calcolo/previsione non lontani da quelli del demone laplaciano.

D'altra parte le scienze sociali si fondano paradigmaticamente proprio sulle conseguenze inintenzionali dell'azione umana intenzionale (per non parlare dei macroeffetti perversi, imprevisti, controintuitivi e collaterali dell'azione sociale) mentre la ricerca empirica sulle decisioni organizzative ha rivelato, con non poca sorpresa, che ogni decisore è affetto da una irriducibile quota di limitazione della razionalità. Anche sul fronte del mitico homo oeconomicus, freddo massimizzatore dell'utilità attesa, le cose non vanno meglio da qualche tempo a questa parte: grazie all'economia cognitiva si è scoperto che anche le sue decisioni sono ben poco razionali, a causa del sistematico ricorso ad euristiche e scorciatoie di giudizio che semplificano il processo decisionale, rendendolo quanto mai approssimato rispetto alla complessità del compito.

A questo proposito Edgar Morin parla di un'ecologia dell'azione, ovvero del rischio che le azioni politiche, aleatorie per natura, entrino "rapidamente in un gioco di inter-retroazioni ecologiche che le dirige verso una direzione imprevista, che smorza lo sforzo più grandioso e lo riduce ad un accidente trascurabile". In altri termini la decisione viene ad essere integrata, amplificata, inibita o distorta dalle inter-retroazioni sistemiche fino a generare quelle conseguenze non previste, e forse imprevedibili, che caratterizzano la storia della società e l'evoluzione della vita. Se quindi valgono i due principi dell'ecologia dell'azione ("La massima efficacia dell'azione si situa all'inizio del suo sviluppo" e " Le conseguenze ultime di un atto particolare non sono prevedibili") quale concreta fattibilità ha l'idea "forte" di responsabilità in un mondo dominato dall'incertezza?

Grazie per l'attenzione

[11/8/04] Bibliografia in forma essenziale (v. sotto)

Giuseppe Belleri
(medico di Medicina Generale)
Flero (Brescia)

Bibliografia in forma essenziale

- Antiseri D, Trattato di metodologia delle scienza sociali, UTET, Torino, 1997

- Corbellini G., Filosofia della medicina, in Filosofie delle scienze, A.C. di N. Vassallo, Einaudi, Torino, 2003

- Fronte M., Greco P., Figli del genoma Interrogativi sulla bioetica, Avverbi, Roma, 2003

- Giesen B., Dal conflitto al legame: un abbozzo sistematico del dibattito micro-macro, Sociologia e ricerca sociale, N. 43/1994

- Gigerenzer G., Quando i numeri ingannano, Cortina, Milano, 2003

- Grmek M., Concettualizzazione e realtà della morbilità del XX secolo, Nuova Civiltà delle Macchine, N-3-4/1955, ERI, Roma

- Morin E., Il pensiero ecologico, Hopeful Monster, 1994, Firenze

- Motterlini M e Guala F. introduzione a Economia cognitiva e sperimentale, Egea, Milano, 2004

- Rumiati R., Bonini N. Psicologia della decisione, Il Mulino, 2001, Bologna

- Tombesi M., La prevenzione in medicina generale, UTET periodici, Milano, 1997

- Tombesi M., Gli interventi inutili in medicina generale, UTET periodici, Milano, 1999

- Von Foerster H., Attraverso gli occhi degli altri, Guerini & Associati, Milano, 1996

- Vineis P., Modelli di rischio, Epidemiologia e causalità, Einaudi, Torino, 1990

- Vineis P., Dal sintomo al rischio, Epidemiologia & Prevenzione, N. 34/1988

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