Estratti dal saggio di Adriano Pessina
"Il «senso» del possibile e l'orizzonte del limite nella civiltà tecnologica",
pubblicato sul numero di Hermeneutica del 2001 intitolato "Domande di etica"

v-mov.gif (1033 byte)Questo documento è un ramo di "Post Human : tecnoscienza e progresso", a pagina 9 degli Argomenti

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Per consentirne un'agevole lettura e per evidenziarne gli argomenti trattati, la Redazione di questo sito ha suddiviso il testo nei seguenti paragrafi (potete raggiungerli direttamente cliccando sui relativi titoli).

  1. Tecnica e tecnologia
  2. La tecnoscienza
  3. L'essenza della tecnologia
  4. Internet
  5. L'intelligenza artificiale
  6. Macchina antropomorfa e uomo come macchina biologica
  7. Tecnologia nociva
  8. La tecnologia ci trasforma
  9. Tecnologia come liberazione: un problema di etica
  10. Il possibile è doveroso (principio alla base di qualsiasi scienza sperimentale)
  11. Concezione del limite e autolegittimazione della tecnoscienza
  12. Concezione della natura biologica e ingegneria genetica
  13. L'ingegneria genetica e il "possibile" come progetto antropocentrico
  14. Tre modelli epistemologici, tre approcci alla realtà
  15. L'autoreferenzialità della tecnoscienza
  16. Il senso del possibile
  17. Quale risposta?

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Il numero del 2001 di "Hermeneutica" intitolato "Domande di etica" contiene, oltre al saggio di Pessina, anche G. Rimanti (Senso del domandare etico), P. Ricoeur (Dalla morale all’etica e alle etiche), C. Vigna (Per un’etica del desiderio), S. Veca (Questioni di giustizia), R. Gatti (Il vero, il bene, il giusto: domande inevase della filosofia politica), A. Franchi (Etica e stile pragmatico), G. Piana («Figure» di un’etica della responsabilità, F. Rossi (Figure della «responsabilità per altri» in Emmanuel Lévinas), G. Sansonetti (Etica e vita in Hans Jonas), P. De Vitiis (La morale tra postilluminismo e postmodernità, E. Matassi (Etica ed eredità hegeliana in Odo Marquand), G. E. Moore (Libertà).

right-sfondochiaro.gif (838 byte)Può essere richiesto direttamente all’editore via e-mail: morcelli@morcelliana.it

right-sfondochiaro.gif (838 byte)Il sito della rivista "Hermeneutica"

1. Tecnica e tecnologia

In primo luogo, va spiegato in che senso la tecnologia differisca dalla tecnica e perché non si possono ridurre le questioni sollevate dalle tecnologie nei termini dell'uso, buono o cattivo. Chi pensa la tecnologia come pura estensione della tecnica, presuppone: a) che la tecnologia sia di per sé neutra, e priva di una sua valenza culturale; b) confonde la tecnologia con lo strumento materiale con cui la tecnologia opera.

La tecnologia è, propriamente, il sapere che accompagna la tecnica, e ne integra la funzionalità, dandole già un orientamento preciso, mentre, in senso lato, la tecnica indica semplicemente la capacità operativa dell'uomo. Chi ama sottolineare le continuità storiche tende a vedere nella tecnologia un semplice incremento della tecnica e a far sorgere quest'ultima con la storia dell'uomo, che è da sempre, se così si può dire, un "animale" tecnico, cioè un vivente che sopperisce alle sue carenze istintuali con l'invenzione di utensili atti a garantirgli la vita. Ma la tecnologia, a differenza della tecnica, non si afferma soltanto grazie alle sue capacità di trasformazione pratica, ma attraverso la sua opera di razionalizzazione e rappresentazione della vita e della realtà, e finisce con il costruire un implicito universo di senso. La difficoltà a percepire questo livello della tecnologia dipende dal fatto che i prodotti della tecnologia costituiscono di fatto un ambiente familiare all'uomo occidentale a noi contemporaneo: ma è una familiarità d'uso che è molto differente da quella che aveva l'uomo con utensili quali, ad esempio, l'ascia, la ruota, il coltello. Voler stabilire delle continuità non è perciò facile, né ragionevole, quando si prende in considerazione ciò che concretamente è il prodotto tecnologico attuale.

La tecnoscienza

Prima di tutto perchè lo stesso sviluppo conoscitivo dipende in larga misura dall'integrazione dell'esperienza con la strumentazione tecnologica. A ragione, infatti, si può definire la scienza sperimentale come la tecnoscienza, cioè come il luogo di incontro tra i modelli del sapere e quelli del saper fare: in questo settore, forse, è più facile indicare un momento preciso in cui viene posta la condizione stessa della svolta tecnologica, ed è quello della nascita della scienza moderna. Ma anche in questo caso la continuità non può farci perdere di vista le differenze: la scienza sperimentale contemporanea, infatti, non ha più una semplice dimensione teoretica e si costituisce lungo una traiettoria di stampo antientropico, cioè attraverso una circolarità tra sviluppo del prodotto tecnologico, sviluppo della ricerca conoscitiva e diffusione dello strumento tecnologico, che era estranea alla scienza moderna (che tra l'altro non dipendeva così radicalmente dalla connessione con l'economia).

Ovviamente questi sono solo cenni, che servono però per percepire la complessità del fenomeno tecnologico.

L'essenza della tecnologia

L'essenza della tecnologia, tanto per parafrasare Heidegger, non è un fatto tecnologico: tecnologia è infatti una forma del sapere e del saper fare e in questo coniuga, almeno sotto un aspetto, l'Homo faber e l'Homo sapiens. La tecnologia, infatti, non è soltanto uno degli elementi costitutivi dello sviluppo del sapere delle scienze, di cui è, al contempo, prodotto e mezzo (basti pensare al microscopio elettronico, reso possibile dallo sviluppo delle scienze ottiche e elettroniche ma nello stesso tempo condizione necessaria per lo sviluppo del sapere di altre scienze, come, per esempio, la biologia), ma trasforma molte delle esperienze elementari della vita.

Gli strumenti tecnologici di cui si avvale l'uomo contemporaneo sono carichi di teoria e hanno sempre bisogno, per diventare funzionanti, di molteplici conoscenze. Basti pensare al fatto che nessuno può accendere per la prima volta un televisore o un videoregistratore senza far uso di un libretto di istruzioni. Non solo: i prodotti tecnologici segnano un divario radicale tra le conoscenze di coloro che ne fruiscono e quelle di coloro che li costruiscono. Molti sanno usare un computer ma pochi sanno costruirlo e ancor minore è il numero di coloro che sanno indicare in base a quali princìpi avviene la decodificazione degli impulsi fisici che fanno sì che premendo un semplice tasto noi vediamo comparire delle lettere su uno schermo. Questo divario di consapevolezza aumenta però il convincimento che caratterizza ciò che Weber definiva il processo di razionalizzazione del mondo: "basta volere per potere".

Internet

Ci sono poi prodotti tecnologici che costituiscono degli "ambienti" veri e propri: basterebbe pensare ad Internet, cioè ad una rete che ha una propria finalità intrinseca e alla quale non si può partecipare senza accedere a regole intrinseche che complicano la lettura del cosiddetto uso buono o uso cattivo. Infatti, in ogni modo, quell'ambiente impone una certa modalità relazionale che viene prima della valutazione d'uso e che ha bisogno di essere compresa in sé.

L'intelligenza artificiale

Un discorso a parte, inoltre, dovrebbe essere fatto per il tentativo di leggere l'intelligenza umana attraverso il modello della cosiddetta Intelligenza artificiale: in questa impresa, infatti, la macchina non serve semplicemente per imitare o potenziare delle attività umane (come il calcolo, che già veniva semplificato con il pallottoliere), ma per comprendere e per spiegare la stessa intelligenza umana.

Macchina antropomorfa e uomo come macchina biologica

Questo capovolgimento di prospettiva permette di "antropomorfizzare" la macchina stessa, che diventa "pensante" e al tempo stesso di depotenziare l'uomo, che diventa anch'esso una "macchina" biologica.

Tecnologia nociva

Anche sul piano delle abitudini è facile segnalare come la dipendenza dagli strumenti tecnologici abbia una portata e un'estensione molto differente da quella che si attua con gli utensili forgiati dalla tecnica: in certi contesti l'estensione della quantità determina un vero e proprio cambiamento di qualità, così come avviene quando l'incremento di quantità di un prodotto ne può determinare più o meno la nocività per l'organismo e per la vita.

[...]

La tecnologia ci trasforma

La tecnologia trasforma le percezioni spazio-temporali e permette al soggetto umano di allargare la sfera della sua progettualità, della sua relazionalità, della sua stessa razionalità. Da questo punto di vista emerge chiaramente come oggi ci si trovi in una condizione culturale differente rispetto a quella che considerava l'avvento della "macchina" nei termini della paura, e poteva lanciare l'allarme di un trionfo della macchina sull'uomo. La "macchina" si presenta oggi come la maggiore alleata dell'uomo e l'integrazione tra naturale ed artificiale sembra persino spostare i confini della nostra costituzione organica.

Non soltanto il potenziamento sensoriale (per esempio tramite il microscopio o la web-cam possiamo superare i confini spaziali dell'esperienza immediata), ma anche l'innesto di parti meccaniche nel nostro organismo (basti pensare alle valvole artificiali che permettono al cuore di funzionare) o la sostituzione, come nella FIVET, degli atti umani della procreazione attraverso le operazioni meccaniche della tecnoscienza, fanno sì che la "macchina" si presenti come una delle fonti dell'emancipazione umana dai vincoli della natura-ambiente. Non ci si può, pertanto, stupire, che ogni sviluppo venga già presentato come "progresso" e che i limiti dell'esistenza si presentino sempre più all'insegna di puri e semplici "ostacoli", ovvero di qualcosa che dovrebbe di per sé essere superato.

Tecnologia come liberazione: un problema di etica

La tecnologia è di fatto vissuta come uno deì maggiori processi di liberazione invisibile e pervasiva dalla condizione di limite dell'uomo. La tecnologia, che grande parte ha nel funzionamento della vita delle nostre città e che è condizione dei successi della medicina , e oggi il simbolo vivente del concetto di progresso.

Da questo punto di vista, la tecnologia si propone come buona proprio perché ci libera da molti vincoli fisici: non solo, grazie alla tecnologia le condizioni di salute dell'uomo contemporaneo hanno raggiunto livelli impensabili. L'avvento delle biotecnologie, da questo punto di vista, segna poi una svolta epocale: per la prima volta nella storia l'uomo è in grado di generare un suo simile, con la tecnica della FIVET, fuori dal grembo materno e può quindi accedere anche alla clonazione. Grazie alla fecondazione extracorporea egli può mischiare il patrimonio genetico delle specie e può dar luogo ad animali transgenici e anche alle cosiddette chimere, cioè esseri generati unendo materiale genetico animale e umano. L'elenco dei possibili che derivano, si badi, non da ipotesi o da teorie, ma da esperimenti già compiuti, cioè da esperienze, nel campo dell'ingegneria genetica e da manipolazioni genetiche è estremamente vasto: ebbene, in che modo queste esperienze generano questioni etiche? La risposta più semplice, ma forse anche quella più di superficie, fa riferimento alle inquietudini che si affacciano di fronte a questi esperimenti, alla paura di quello che potrà accadere e al monito, spesso ricordato, e con fondatezza, che non tutto ciò che è possibile è anche lecito. Affermazione vera, in linea di principio, ma in base a che cosa si potrà stabilire il confine tra il lecito e l'illecito, tra ciò che è buono e ciò che non lo è? A questo livello incontriamo il significato culturale della tecnologia e la sua capacità di svuotare, anche linguisticamente, ogni questione etica, traducendola nei termini costi/benefici.

Il possibile è doveroso (principio alla base di qualsiasi scienza sperimentale)

Ciò che infatti emerge dall'esperienza della tecnologia, dalla nostra assuefazione al modello del pensare tecnologico, è prima di tutto un altro criterio, quello che afferma che il possibile è doveroso. Non si tratta di una forzatura, ma dell'estensione nel vissuto di tutti di un principio metodologico che sta alla base di qualsiasi scienza sperimentale: chiunque abbia una qualche dimestichezza con un laboratorio di ricerca sa che quando si affaccia una strada percorribile per risolvere un problema, o approfondire un'ipotesi, si prova, si deve provare. Per la scienza sperimentale la verità, infatti, si trova al termine del processo sperimentale e non all'inizio: questo modello teorico è oggi pervasivo.

Concezione del limite e autolegittimazione della tecnoscienza

Non solo, ma qui il limite è sempre pensato come ostacolo, cioè come qualcosa che deve essere superato: in etica invece, esistono ostacoli (ciò che è possibile superare), che debbono essere assunti come limiti, poiché ci richiamano al rispetto del bene. La diffusione di questo convincimento non dipende certo dal fatto che tutti noi partecipiamo dei processi metodologici delle scienze, ma è indotto dal processo di autolegittimazione sociale della tecnoscienza contemporanea, che a sua volta dipende in stretta misura dai processi economici: i "luoghi comuni" che riguardano il dovere di salvaguardare la libertà della scienza e di "non fermarne" il progresso (senza che peraltro venga determinato il contenuto di questa scienza e le modalità per conoscerlo, scordando che il valore del sapere dipende dal saputo e che non ogni incremento conoscitivo è di per sé un progresso, come risulta evidente quando si ricorda che esistono anche sviluppi di ricerche nell'ambito delle armi batteriologiche), esprimono questa dilatazione del possibile in doveroso.

[...]

Concezione della natura biologica e ingegneria genetica

La difficoltà di pensare il limite come luogo del senso deriva anche da un altro fattore che condiziona l'attuale stagione etica e le domande che da esse emergono. Per un processo storico che sarebbe lungo da descrivere, che si è costituito lentamente ma caparbiamente da molto tempo, siamo passati da una considerazione sacrale della natura biologica ad un totale depotenziamento dapprima assiologico e poi pratico della natura biologica. Tra l'idea che la natura biologica sia luogo del divino e il convincimento che la natura sia pura materia plasmabile dalla volontà e dal desiderio è andata persa la raffigurazione più adeguata e teoreticamente fondata della natura: quella che riconosce nella natura una dinamica immanente che può certo essere guidata (innanzi tutto imitandola) dalla volontà umana, ma che mette in conto, almeno nei termini del possibile, la non neutralità assiologica e pratica del biologico. Le nozioni-guida che fanno capo alla distinzione salute/malattia, normale/patologico indicano di fatto l'intrascendibilità di questo cimento teleologico (che non equivale a sacrale ma che esclude il puramente irrazionale) della natura biologica. Sanare significa infatti ricondurre ad uno stato riconoscibile, che è di solito il prodotto "naturale" cioè "normale" della natura. Curare significa sottrarsi alla logica della finalità e della sacralità, ma comporta anche riconoscere nella stessa condizione biologica un luogo di senso, da prendere in considerazione come modello da imitare: l'avvento dell'ingegneria genetica comporta invece il convincimento che sia il progetto dell'uomo a essere l'unico orizzonte di senso, al punto che la nozione di salute si dilata alla nozione di "benessere", confondendo i piani epistemologici e quindi i rispettivi compiti della medicina, della filosofia e persino della religione. Non è infatti improprio parlare della civiltà tecnologica come quella che ha visto l'avvento del mito "salutista", surrogato empirico della domanda di "salvezza" che ha percorso per secoli l'Occidente.

L'ingegneria genetica e il "possibile" come progetto antropocentrico

Ma l'estensione del possibile come progetto antropocentrico si avvale, dapprima metodologicamente, cioè come artificio teorico, poi teoreticamente, cioè come preteso giudizio conoscitivo, del postulato che la natura sia solo un insieme casuale che viene illuminato dall'opera plasmatrice dell'intelletto umano. L'aporia in cui cade la progressiva trasformazione del modello epistemologico darwiniano, oggi paradigma dominante sia nel campo della genetica sia della paleontologia, in una vera e propria filosofia della natura, è quella di pensare l'evoluzione come un processo cieco da cui sorgerebbe l'uomo come l'unico vivente e vedente, in grado ora di plasmare il futuro evolutivo proprio e del resto dei viventi: ma se la natura cieca non è in alcun modo normativa e non sa indicare all'intelligenza dell'uomo le strade da percorrere, allora non c'è limite alle possibilità dell'uomo se non quello dettato dal desiderio e dallo scacco dei fallimenti. Senza entrare, anche in questo caso, in analisi più dettagliate, può essere però utile segnalare come l'ingegneria genetica, mischiando tra loro i patrimoni genetici di viventi che si sono costituiti per millenni lungo filoni evolutivi differenti, non sa dire quale sarà l'esito di un progetto che pone l'equilibrio dell'ambiente soltanto in funzione delle esigenze di un unico vivente, di un'unica specie, quella dell'Homo sapiens sapiens. La paura del crollo dell'ecosistema non è certo sufficiente a fermare l'illusione di chi pensa che ogni problema suscitato dall'estensione delle biotecnologie possa a sua volta essere corretto da nuovi potenziamenti tecnologici. In realtà la natura ci è sempre più estranea anche perché tramite le scienze non può più essere pensata in modo intuitivo ma viene rappresentata con la mediazione della tecnologia e descritta attraverso complicate relazioni e funzioni matematiche e chimiche, grazie a simboli che appartengono all'ordine delle scienze ma non a quello dell'esperienza: la distanza tra ciò che conosciamo della natura attraverso la nostra esperienza e ciò che ne sappiamo attraverso la mediazione delle scienze, diventa incolmabile (basterebbe pensare alla mappatura del genoma umano, sequenza numerico-simbolica che non dice assolutamente nulla a chi è estraneo a quel linguaggio). Privata di ogni finalità intrinseca, la natura biologica si presta a diventare la pura materia: ma, è questo il punto su cui occorre richiamare la nostra attenzione, il depotenziamento assiologico della natura biologica coinvolge anche l'uomo che ne è il prodotto, sia pure, nella prospettiva evoluzionistica, il prodotto emergente.

[...]

Tre modelli epistemologici, tre approcci alla realtà

Possiamo, in estrema sintesi, indicare tre modelli epistemologici, che potremmo, con qualche forzatura, far coincidere anche col "senso" comune presente in tre diverse epoche storiche: il primo, che afferma l'equivalenza tra la verità e l'essere delle cose, il secondo, che indica invece in ciò che è fatto il luogo della verità, il terzo, che segna l'inizio della cultura tecnologica, che attribuisce al fattibile il connotato della verità. Detto in altri termini: ad un modello speculativo che riconosce la verità della realtà (l'intelligibilità appartiene al reale e non è il prodotto dell'attività conoscitiva umana), si sostituisce progressivamente un modello operativo, che ritiene di poter garantire valore alla conoscenza là dove l'uomo ha a che fare con qualcosa di costruito e di costruibile (l'intelligibilità è l'operazione con cui l'uomo attribuisce senso alla realtà che lo circonda perché è in grado di costruire modelli teorici ed operativi che spiegano la realtà); da ultimo, l'intelligibilità viene identificata con la progettualità e questa non ha modelli predeterminati perché si innesta nelle possibilità che continuamente si aprono attraverso l'incremento degli esperimenti.

Questi tre approcci alla realtà possono essere anche letti secondo queste categorie: il primo appartiene alla tradizione metafisica occidentale ed è proprio della cultura ebraico-cristiana, che pone nel creazionismo la fonte dell'intelligibilità del reale; il secondo, ascrivibile alla rivoluzione scientifica moderna, appartiene alla prima stagione dello sviluppo scientifico; il terzo, invece, caratterizza l'attuale situazione scientifica, nella quale cade, almeno a livello delle scienze sperimentali, la netta separazione tra tecnica e scienza e si assiste ad un incremento reciproco ed interdipendente. Si tratta di una fase in cui la dinamica scienza-tecnologia ha carattere antientropico (che viene difeso con la duplice categoria del progresso e della libertà, che non debbono essere limitate).

L'autoreferenzialità della tecnoscienza

Ciò che determina la difficoltà a dare soluzioni etiche (in ordine cioè al bene del singolo e della comunità) non è la compresenza di queste tre modalità di approccio, ma la tendenza ad assorbire nella cultura tecnologica ogni questione, eliminando le differenze metodologiche e creando l'autoreferenzialità della tecnoscienza, come unico luogo abilitato a dire la verità intorno al mondo, all'uomo e a Dio.

L'assorbimento della questione della verità nella prassi e quest'ultima nella prassi tecnoscientifica porta a considerare ogni approccio ulteriore e differente come puramente soggettivo, emotivo, confessionale, nel senso di frutto di pura opzione esistenziale.

La frattura del rapporto tra verità e prassi, tra verità e moralità, è uno dei luoghi teorici in cui andrà letto il fatto per cui gran parte della cultura odierna tende a porsi come ancilla technologiae, promuovendo non semplicemente la tesi che tutto ciò che è tecnicamente possibile è lecito, ma, più radicalmente, che tutto ciò che è possibile è doveroso. Il dover essere è così coniugato in ordine all'essere della tecnoscienza, al suo stato dell'arte.

Il senso del possibile

Il limite, di per sé, rimanda all'esperienza della finitezza, ma la finitezza, di per sé, non riconosce tutti i limiti sotto la categoria della privazione (cioè della mancanza di qualcosa che dovrebbe esserci), poiché ci sono limiti costitutivi che possono essere pensati come buoni in quanto rispondono all'essere proprio dell'umano: soltanto là dove il limite è integrato nella comprensione della finitezza (cioè della sua portata ontologica e metafisica) il possibile assume un senso, cioè sia un significato sia una direzione determinata. Lo svuotamento ontologico ed assiologico della realtà, trasformata in un insieme di elementi manipolabili a piacimento dall'uomo, fa emerge un nuovo disagio esistenziale, quello legato alla mancanza di un senso da riconoscere e da sviluppare.

Come rispondere allora alla domanda sul senso del possibile e l'orizzonte del limite? La prima annotazione, teoretica, è quella di mostrare come sia impossibile l'autoreferenzialità della cultura tecnologica e si debba tornare a pensare ed operare dentro la verità dell'essere. Ma questa soluzione non è operativamente efficace se non si evidenzia anche un altro aspetto, e cioè che il possibile oggi è diventato il surrogato dell'eterno, così come la salute lo è diventata della salvezza: entrambi mostrano come l'uomo sia originariamente aperto all'infinito (ma quale infinito?). Come scriveva Weber, "la vita del singolo individuo civilizzato, inserita nel progresso, nell'infinito, per il suo stesso significato immanente non può avere alcun termine" e mentre "Abramo o un qualsiasi contadino dei tempi antichi moriva 'vecchio e sazio della vita'", l'uomo civilizzato, l'uomo, diremo noi, della tecnologia, può "diventare 'stanco della vita' ma non sazio". Il possibile, privato di qualsiasi senso che non sia la possibilità stessa, finisce infatti con il ricondurci a quello scacco esistenziale descritto acutamente da Sartre come l'unico esito di un progetto di "indiamento" che ha eliminato Dio come fondamento dell'uomo e della realtà.

Il depotenziamento della morale non dipende soltanto dal fatto che molti filosofi hanno abbracciato le tesi del non cognitivismo etico, fondando criteri che appartengono alla tradizione del pensiero analitico e alla stagione del positivismo logico, ma dalla sua insignificanza in un orizzonte che non dà più spazio alle questioni "ultime". L'illusione, coltivata anche da pensatori che amano collocarsi nella tradizione cristiana, di conservare l'autonomia dell'etica senza fare i conti con l'ontologia e la metafisica, si scontra con la mentalità tecnologica come forma di sapere che proclama l'insignificanza del limite e annuncia, con Nietzsche, l'avvento dell'Oltre-uomo.

Quale risposta?

Non è certo ricorrendo alla paura o dilatando gli appelli alla responsabilità che si potrà rispondere alle sfide antropologiche e morali indotte dall'estensione del nostro potere, poiché la risposta è già prevista dalla stessa cultura tecnologica e consiste semplicemente nel promettere che ulteriori incrementi di tecnica e scienza porteranno a sciogliere paure e risolvere conflitti: ancora una volta il possibile diventa normativo. La questione, infatti, non è riconducibile nei termini della condanna o del rifiuto della tecnologia ma è invece, ancora una volta, quella della verità del progetto umano, cioè della verità della propria condizione. La tecnologia, come forma di liberazione, induce una nuova esposizione esistenziale dell'uomo occidentale che si trova ad affrontare un nuovo mal di vivere, quello che emerge dalla difficoltà di comprensione della finitezza e perciò dall'impossibilità di riconoscere un senso (significato e direzione) dei possibili che la tecnologia mette a sua disposizione. Se volessimo, pertanto, abbozzare una qualche conclusione che serva come pista per riprendere in termini sistematici e propositivi la magmatica dinamica culturale che pervade la cultura occidentale, e che abbiamo cercato di esporre nella sua complessità ed ambivalenza, potremmo dire che essa consiste nel segnalare un'assenza che si trasforma veramente in una privazione: l'assenza di domande etiche radicali, che conducono alla privazione della questione metafisica come ambito in cui ritrovare la verità dell'uomo e della sua prassi.

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