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A V V I S O :
a fianco degli interventi troverete delle etichette che identificano alcuni passaggi del dibattito. Per vedere l'elenco delle etichette spostate la freccia del mouse sopra la barra blu verticale "Elenco etichette", qui a sinistra, e poi fate clic.
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Interventi --------> [ nel testo originale, senza modifiche ]<--------
1 From: Corrado Del Bo' <delbo@f...>
Date: Sun Feb 9, 2003 7:48pm
Subject: Si comincia!
Cari tutti,
non appena il discussant Andrea Rossetti avra' inviato i suoi
commenti (il che avverra' al piu' tardi domattina verso le 10), avra'
inizio il seminario on line della Fondazione Bassetti, nel corso del
quale verra' discussa la relazione del professor Giuseppe O. Longo
(Universita' di Trieste) *Progresso e responsabilità: il passaggio
dalla scienza alla tecnologia* (il testo, lo ricordo, e' disponibile
sul sito della Fondazione: <https://www.fondazionebassetti.org/>) .
Da quel momento, e fino alle 16 di sabato 15 febbraio, potrete
inviare i vostri commenti (possibilmente nel corpo del messaggio e
*non* in allegato) scrivendo una email a:
<fgb-forum@yahoogroups.com>
Qualora facciate reply a un messaggio precedente (il che capitera'
sicuramente, trattandosi di una discussione), vi ricordo di
controllare che il vostro messaggio abbia come destinatario il
suddetto indirizzo, in modo che possa arrivare a tutti gli iscritti
al seminario.
Per qualsiasi problema, in quanto coordinatore del seminario, resto
naturalmente a vostra disposizione e vi prego percio' di non esitare
a scrivermi in privato all'indirizzo <delbo@f...>.
Nel ringraziare, a nome della Fondazione, relatore e discussant per
la loro disponibilita', auguro a tutti voi una buona discussione.
Per la Fondazione Bassetti,
Corrado Del Bo'
2 From: Andrea Rossetti <andrea.rossetti@u...>
Date: Mon Feb 10, 2003 7:24am
Subject: primo intervento
*****La conoscenza tecnologica del mondo e il controllo democratico
della scienza.***
Ogni tecnologia sufficientemente avanzata e' indistinguibile dalla
magia. Arthur C. Clarke
0. Io sono un tecnofilo. Sono tecnofilo nel senso che, se potessi,
comprerei anche gli oggetti tecnologici piu' inutili e complicati.
Sono tecnofilo nel senso che credo che la tecnologia abbia permesso,
negli ultimi 100 anni, in occidente, un miglioramento radicale delle
condizioni di vita della maggior parte della popolazione. Entrate in
un qualunque centro commerciale: la maggior parte degli oggetti che
vi troverete erano completamente inaccessibili al mio bisnonno,
bracciante della bassa pianura padana, costretto ad un lavoro
estenuante per 12 ore al giorno, e soggetto ai capricci del padrone
che poteva in ogni momento decidere di non rinnovargli il contratto
ed di fargli fare "San Michele" (ossia il giorno di San Michele,
caricare tutti i suoi poveri oggetti su di un carretto e mettersi a
cercare un nuovo padrone; che difficilmente avrebbe trovato perché il
padrone avrebbe provveduto ad informare gli altri padroni del suo
misfatto, vero o presunto che fosse). La tecnologia, secondo me,
fonda le condizioni essenziali affinché la nostra societa' possa
essere democratica. E' forse un paragone azzardato, ma cosi' come la
democrazia ateniense ha avuto tra i suoi presupposti la schiavitu',
cosi' le moderne forme di governo occidentale hanno tra i loro
presupposti lo sviluppo tecnologico.
Ma essere tecnofili non significa essere ciechi: e' molto probabile
che il nostro attuale modello di sviluppo, di progresso, non sia
esportabile al di fuori dell'occidente; e che, quindi, l'idea di
progresso che noi, oggi, in occidente abbiamo debba modificarsi.
Sono due le tesi di Giuseppe O. Longo che vorrei mettere in evidenza
in questa mia breve e preliminare discussione. La prima e' la
possibilita' dello sviluppo di un intelligenza collettiva. La seconda
che il criterio di maggioranza possa essere uno strumento razionale
per il controllo dell'uso della tecnica.
1. Sinceramente non capisco, ma forse manco solo di immaginazione,
che cosa significhi che la rete e' anticipatrice di una "creatura
planetaria" o che "la rete possa diventare sede di fenomeni inediti
di intelligenza". Sicuramente la rete ha favorito la creazione o
forse, meglio, l'amplificazione di dinamiche sociali che prima non
potevano che avere una dimensione locale. Penso, ovviamente, al
movimento del software open source. I suoi principi fondamentali
erano gia' stati pensati a meta' degli anni '80 da Richard Stallman,
e circolavano da tempo nell'ambiente dei programmatori, ma la Free
Software Foundation (http://www.gnu.org) ha iniziato ad essere un
attore importante nella diffusione del software solo negli anni '90.
La comunita' e la produzione di free software sono cresciute solo con
l'avvento della diffusione della rete a livello planetario, e hanno
rivoluzionato alcune delle idee fondamentali sulla produzione dei
programmi: si e' mostrato che dei dilettanti (ossia, persone che
lavorano non per denaro, ma per il puro piacere di lavorare) sono in
grado di produrre software di qualita' uguale (se non superiore) a
quella di programmatori professionisti (l'esempio paradigmatico e' il
sistema operativo Linux); si e' mostrato che l'aumento del numero dei
programmatori non e' direttamente proporzionale all'aumento del
numero degli errori nel codice sorgente (errori che possono rendere
instabile un programma). La comunita' dell'open source, che conta
ormai migliaia di aderenti in tutto il mondo, agisce, all'interno di
ogni singolo progetto di sviluppo, come un'unica entita'. Ma
l'organizzazione della comunita' dell'open source e' una struttura
completamente esplicita, il cui funzionamento non ha nessuna analogia
biologica specifica (la metafora usata dagli studiosi dei programmi
open source e' quella del bazar, contrapposto alla cattedrale della
produzione commerciale del software; cfr. Eric S. Raymond, La
cattedrale e il bazaar,
http://www.apogeonline.com/openpress/doc/cathedral.html).
2. Il nostro problema e' il fatto che ogni nuova scoperta
scientifica, banalmente, porta con sé usi buoni ed usi cattivi.
Proprio perché la tecnologia e' distaccata dalla ricerca non e'
possibile prevedere le ricadute tecnologie di una particolare
scoperta. Non tutti i casi sono semplici, dal punto di vista morale,
come il caso degli scienziati di Los Alamos.
Inoltre, come rileva nel suo scritto Giuseppe O. Longo, anche i
prodotti tecnologici sono diventati cosi' complessi internamente e
semplici esternamente, che degli utensili, delle protasi, degli
artefatti di ultima generazione alla maggior parte degli utilizzatori
sfugge non solo il funzionamento, ma anche gli scopi e gli usi
essenziali. Si pensi all'esempio della rete Internet: essa puo'
essere sia il mezzo della diffusione del sapere (il mezzo per la
creazione di una Nuova Atlantide globale) sia il mezzo di controllo
sociale totale (si veda il controllo che l'apparato tecnico-giuridico
voluto dal governo inglese impone ai sudditi di sua maesta':
www.statewatch.org/news/2003/jan/11ukteltap.htm); ma qual e'
lo scopo essenziale per il quale e' stata progettata? (un esempio per
chiarire l'idea di scopo essenziale: anche se posso usare un martello
come un'arma, e' chiaro che il martello e' stato progettato come
strumento per piantare chiodi.)
Se, da una parte, siamo tutti d'accordo che la scienza e la
tecnologia sono troppo importanti nella quotidiana vita di ciascuno
di noi per lasciare tutte le decisioni esclusivamente in mano agli
scienziati, l'alternativa proposta da Giuseppe O. Longo non mi
convince fino in fondo. Non mi sembra che l'introduzione di sistemi
di decisione maggioritaria possa in effetti risolvere il problema.
Intendo mostrare due esempi in cui, secondo me, i meccanismi di
decisione maggioritaria sull'uso di tecnologie mature, ha portato, in
un caso, e portera', in un altro, a decisioni fondate su di un
insieme di credenze insufficiente.
2.1. Il primo esempio che vorrei portare, e' il referendum
sull'abolizione del nucleare, approvato in Italia all'indomani
dell'incidente di Chernobyl: il 26 aprile 1986 durante un intervento
di manutenzione ordinaria esplode il reattore numero 4 della centrale
nucleare di Chernobyl. L'8 e il 9 novembre del 1987 si svolge in
Italia il referendum per l'abolizione del nucleare. Il risultato,
sull'onda di quanto successo poco piu' di un anno, prima e' scontato
e quasi plebiscitario: va a votare il 65,1 % degli italiani; l' 80,6
% dice no alla costruzione di centrali nucleari in Italia; il 71,9 %
vota per il divieto di partecipazioni dell'Enel a impianti nucleari
all'estero; il 79,7 dice no ai contributi verso gli enti locali che
ospitano centrali nucleari. Come conseguenza vengono chiuse tutte le
centrali nucleari italiane ed inizia il loro smantellamento (che
durera' circa altri 20 anni, durante i quali continueremo a corre un
rischio di inquinamento radioattivo : cfr. l'articolo della
giornalista Milena Gabanelli, Radioattivita' di stato:
www.report.rai.it/2liv.asp?s=52 )
La centrale di Crey Malville, si trova in Francia, a poche centinaia
di chilometri dal confine con l'Italia (in Francia sono attivi 58
reattori nucleari, funzionanti in 19 diverse localita': Societé
Française d'Énergie Nucléaire, www.sfen.org ). Il reattore di Crey
Malville non e' un semplice reattore raffreddato ad acqua, ma un
"superphenix", ossia e' raffreddato con sodio (qui
http://isnwww.in2p3.fr/reacteurs-hybrides/sfp/superphenix.html, a
cura dell'Institut de Sciences Nucléaires di Grenoble, potete trovare
una spiegazione tecnica di come funzioni un reattore Superphenix).
Dall'angolo di mondo che e' l'Italia, e' paradossale che spesso
usiamo l'energia elettrica importata da impianti nucleari francesi.
La Francia produce il 74% dell'energia elettrica con il nucleare e,
dei 355.874 milioni di kWh prodotti, ne esporta 58.533 milioni. In
Italia, importiamo il 10% del nostro fabbisogno di energia elettrica
dalla Francia.
Secondo gli ecologisti francesi ( www.greenpeace.fr ), un guasto, non
gia' al reattore, ma all'impianto di raffreddamento con la diffusione
nell'ambiente del sodio avrebbe conseguenze disastrose per l'ambiente
e per gli esseri umani. E le Alpi non servirebbero da scudo alla
popolazione del Nord Italia.
2.2. Il secondo esempio che vorrei portare e' diverso. Nel primo
esempio, credo si possa sostenere che il calcolo del rischio
dell'elettore italiano sia stato quantomeno falsato in parte
dall'emotivita', in parte dalla scarsa informazione. Nel secondo
esempio, vorrei mettere in evidenza la difficolta' anche per i
rappresenti legittimamente eletti (e che quindi hanno ben studiato
una questione prima di proporre una sua regolamentazione giuridica),
ad affrontare un problema in modo corretto dal punto di vista
semplicemente metodologico.
Si legge nella relazione sul disegno di legge del Senato n. 1837,
"Norme in materia di procreazione medicalmente assistita": (il cui
testo completo potete trovarlo qui:
www.senato.it/bgt/ShowDoc.asp?leg=14&id=00050708&tipodoc=Ddlpres&modo=PRO
DUZIONE
):
() dopo decenni di ricorso su vasta scala alle pratiche di
fecondazione assistita eterologa, nessuna ricerca empirica ha potuto
mettere in evidenza danni o anche solo problemi apprezzabili, vuoi di
natura fisiologica, vuoi di natura psicologica, a carico dei nati
mediante il ricorso a tali tecniche.
Date queste premesse quale potra' essere secondo voi la proposta?
Ecco la risposta del legislatore:
La facolta' di ricorrere a tecniche di fecondazione assistita di tipo
eterologo e' peraltro consentita nel presente disegno di legge solo
quando essa rappresenti l'unico trattamento possibile, nel rispetto
del principio di gradualita' e di adeguatezza degli interventi
terapeutici nella cura della sterilita'.
La domanda che, penso, ciascuno di noi vorrebbe porgere ai promotori
di questa legge e' questa: perché se nessuna ricerca empirica ha
potuto rilevare l'insorgenza di qualche genere di problemi a bimbi
nati con la fecondazione assistita, essa deve in ogni caso essere
considerata esclusivamente una cura alla sterilita'? (Una domanda che
mi sono sempre posto: perché se un individuo e', "per natura",
sterile deve avere comunque il diritto di trasmettere il proprio
patrimonio genetico? Ma mi rendo conto che questo e' un altro
problema.)
Io sinceramente non so come sia possibile regolare le delicate
questioni bioetica; quello che pero' mi sento tranquillamente di
poter affermare e' che un progetto di legge come il S.1837, dietro
una apparente rispetto della pluralita' della posizioni, veicola una
ben precisa idea di uomo e di societa'.
3. Vorrei concludere riprendendo un'osservazione di Giuseppe Longo
sull'uso del termine 'scienza' e conferma la sua tesi secondo la
quale la scienza tende ad avere sempre piu' spesso venature
messianiche. La parola 'scienza' imperversa nell'Universita': non si
studia piu' "giurisprudenza", ma "scienze giuridiche" o "scienze per
operatori dei servizi giuridici"; e poi: "scienze antropologiche ed
etnologiche", "scienze della formazione", "scienza dalla
comunicazione", "scienza dell'educazione", "scienze e tecniche
psicologiche", "scienze del turismo e comunita' locale". Fino a
quello che hai tempi in cui mi sono laureato io (e, anche se e'
successo nel secolo scorso, non sono passati neppure dieci anni)
sarebbe stato, se non inconcepibile, quanto meno strano: non si
studia piu' "filosofia", ma "scienze filosofiche".
3 From: Giovanni Maria Borrello <borrello@f...>
Date: Mon Feb 10, 2003 2:43pm
Subject: Alcune informazioni
A tutti gli iscritti al Seminario e al Forum on-line "Progresso e
responsabilità..."
-----------------------------------------------------------
Gentile iscritto/a al
Seminario e al Forum on-line su "Progresso e responsabilità: il passaggio
dalla scienza alla tecnologia",
se desidera che i prossimi interventi NON vengano più recapitati nella Sua
casella di posta elettronica, è sufficiente che invii un'email, anche
vuota, a fgb-forum-nomail@yahoogroups.com usando come mittente l'indirizzo
email con cui è iscritto/a.
Fino al 15 febbraio (data di chiusura del Seminario e del Forum) potrà
comunque leggere gli interventi sul Web, all'indirizzo:
<http://groups.yahoo.com/messages/fgb-forum>.
Dopo il 15 febbraio tutti gli interventi saranno pubblicati nel sito della
Fondazione (<https://www.fondazionebassetti.org>).
Tengo a precisarLe che la Sua iscrizione si riferisce soltanto al periodo
di apertura del Seminario e del Forum, dopodiché il Suo indirizzo email
sarà cancellato.
Come già sa, per intervenire alla discussione basta che Lei usi il Suo
programma di posta elettronica o la Sua Web Mail, spedendo l'intervento a:
fgb-forum@yahoogroups.com
(e ricordando di usare come mittente l'indirizzo email con il quale è
iscritto/a)
Il coordinatore del dibattito, Corrado Del Bò, può essere contattato
all'indirizzo delbo@f...
Lei può comunque controllare la Sua iscrizione e personalizzarne il
funzionamento in modo completo e autonomo anche via email:
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Cordiali saluti
Gian Maria Borrello
____________________________________________
Dott. Giovanni Maria Borrello
(Direttore attività Internet della Fondazione Bassetti)
<mailto:borrello@f...>
<https://www.fondazionebassetti.org/borrello.htm>
____________________________________________
4 From: sylvie coyaud <scoyaud@p...>
Date: Mon Feb 10, 2003 11:09pm
Subject: Un quiz per G.O.Longo
A Giuseppe Longo professore, vorrei fare da bastian contrario con un quiz,
e prego Giuseppe Longo romanziere, di non prenderlo troppo sul serio.
Il progresso è più contestato negli ultimi tempi che nei penultimi? O la
sua frase iniziale avrebbe potuto essere scritta in un giorno qualsiasi
degli ultimi quattro secoli (quattro, per convenzione occidentale)?
Nel primo Novecento la scienza era una? La crisi della fisica era condivisa
dalla biologia o dallastronomia? La fede in leggi universali e stabili era
diffusa, o propagata da alcuni, mentre altri, al corrente della storia
della propria disciplina, le usavano come strumenti, comodi ma temporanei?
Meno studenti si iscrivono alle facoltà di scienze teoriche o applicate in
numero assoluto, come percentuale, rispetto a una moltiplicazione
dellofferta? Forse vogliono un lavoro sicuro e redditizio e quello di
ricercatore non lo è?
(A proposito di ricerca pura, applicata, e rispettivi finanziamenti, deve
esserci un errore. La fisica e lastrofisica sono esigenti. LIstituto
nazionale di fisica nucleare si mangia il 70% del budget italiano per la
ricerca. Il telescopio spaziale Hubble è costato due volte il Genoma umano,
e, con la manutenzione, cinquecento volte la pecora Dolly. Al contrario
delle pecore clonate dopo, Hubble II costerà il doppio del primo. Viene sui
dieci miliardi di euro il collisore in cantiere al CERN di Ginevra, che
dovrebbe acchiappare lipotetico bosone di Higgs. Sui cinquanta il progetto
ITER. E neanche un brevetto in vista, accidenti.)
Riprendo col quiz.
Italia a parte, laumento dei finanziamenti statali è dovuto al lobbying
degli scienziati? O anche a guerre calde e fredde che li hanno resi
dipendenti dagli stati, invece che di accademie e università, per cui hanno
imparato a contrattare come altre categorie?
Lintelligenza artificiale è un prodotto - inteso anche come il risultato
di una somma o moltiplicazione - dellintelligenza naturale? Esiste
qualcosa di artificiale? Oppure ogni artefatto è un prodotto della materia
che già si trova in natura (come noi, daltronde)?
Bisogna opporsi allinsegnamento del creazionismo in nome di Darwin? O
perché la scelta di una pratica religiosa è un diritto individuale mentre
le scuole sono collettive? E se sono statali, non conviene che uno stato,
se democratico, eviti di privilegiare la Bibbia, interferendo con la
libertà di culto che riconosce ai cittadini?
Limpresa scientifica non è democratica; quella automobilistica lo è? E
quella artistica? Le teorie e le pratiche scientifiche sono per pochi; e le
altre produzioni intellettuali? Basta la bocca per rifarsi il Parsifal a casa?
E escluso che le innovazioni materiali e concettuali soddisfino desideri
comuni: di sapere, per esempio, o di potere o di libertà? Che i desideri ci
muovano e siano ribelli al principio di Jonas? Lauto uccide 8000 persone
allanno in Italia, ne ferisce 50 mila: secondo lui, ci
rinunciamo?
Perché non provare a pensare che scienza e tecnologia sono del mondo così
come ce lo facciamo, non un mondo a sé con addetti simili a una casta
sacerdotale? Vogliono per sé ciò che vogliamo tutti: più bellezza, più
salute, ricchezza, fama, comfort, mobilità, sicurezza, libertà, piacere
ecc. costi quel che costi, o quasi. O cè gente che non si auspica nulla
del genere?
---
sylvie coyaud
5 From: sylvie coyaud <scoyaud@p...>
Date: Mon Feb 10, 2003 10:57pm
Subject: nota per Andrea Rossetti
At 07.24 10/02/03 +0100, you wrote:
3. Vorrei concludere riprendendo un'osservazione di Giuseppe Longo
>sull'uso del termine 'scienza' e conferma la sua tesi secondo la
>quale la scienza tende ad avere sempre piu' spesso venature
>messianiche.
Se un idraulico si atteggia a messia su questioni che esulano dal
lavandino, non ci bada, vero? Quindi, mi dia retta che potrei essere sua
madre, non ci badi se lo fa un genetista, o qualunque autorità non fondata.
Uno scienziato può essere competente, e autorevole nel suo campo, e una
bestia per tutto il resto: Konrad Lorenz è stato filonazista.
Mi sa che quelle venature sono attribuite alla scienza da chi se limmagina
disincarnata o ha interesse a spacciarla per tale o a vietarne lingresso.
E le sue incarnazioni disoneste ne approfittano.
sylvie c.
---
sylvie coyaud
6 From: Dr. Saro Cola <sarocola@m...>
Date: Mon Feb 11, 2003 0:44am
Subject: Re: primo intervento
>Ma essere tecnofili non significa essere ciechi
No. Ma c'è il rischio di diventarlo...
>e' molto probabile
>che il nostro attuale modello di sviluppo, di progresso, non sia
>esportabile al di fuori dell'occidente; e che, quindi, l'idea di
>progresso che noi, oggi, in occidente abbiamo debba modificarsi.
E' molto probabile. Ma anche senza il 'quindi'. Ci facciamo già benissimo del
male da soli, senza problemi di difficoltà di esportazione.
Non credo proprio che il professor Longo pensasse al fenomeno dell'open
source quando ha parlato di 'creatura planetaria'. Il modello dell'open source
: quello sì che è difficilmente 'esportabile' . Checché ne vogliano pensare i
suoi sostenitori e i suoi elogiatori che ce lo raccontano come il modello di
sviluppo tecnologico futuro, non è affatto scontato che esso porti al 'migliore
dei mondi possibili', così comoe non è affatto inoppugnabile (anzi) che il
modello di sviluppo proprietario (Microsoft, per intenderci) sia destinato a
irrimediabilmente a soccombere perché porta in sè i germi della sconfitta.
Si potrebbero fornire ottimi esempi di come le cose funzionino più che bene
proprio all'interno dei lavori in equipe che comprendono piena segretezza
industriale (modello Venter, per capirci).
Le vere ragioni per sostenere il modello open source sarebbero altre: io dico
che la possibilità di analizzare il sorgente è il primo di questi. Chi ne
capisce l'importanza capisce anche perché è da considerarsi come motivo
primario. La capito molto bene, infatti, anche la stessa Microsoft, che infatti
sta cambiando policy in merito ('disclosure' dei sorgenti). A questo punto,
finiremmo off topic, anzi ci siamo già finiti. Quindi torno nei ranghi.
Riguardo alle fascinazioni generate dalla metafora del 'bazar' come modello
organizzativo... no comment. Basti pensare che, guarda un po, le
organizzazioni sul modello militare e verticistico appaiono vincenti a molti di
coloro che se ne intendono davvero di queste cose. Sono mica paglia migliaia di
anni spesi dall'uomo in analisi strategica del conflitto e nella messa a punto
di organizzazioni strutturate. Quanti esempi si potrebbero fare in proposito...
da Alessando Magno in poi, per non parlare dei Cinesi. Ma lasciamo perdere.
Nella stessa ottica il seguito del ragionamento di Rossetti (internet, il
martello)è di un' ingenuità disarmante (probabilmente finge)
Saro Cola
--
Dr. Saro Cola
ML 1
sarocola@m...
7 From: Giovanni Maria Borrello <borrello@f...>
Date: Tue Feb 11, 2003 10:37am
Subject: Tra scienza e libero arbitrio
A me questo articolo di Scalfari è piaciuto (L'Espresso attualmente in
edicola: n. 7, 13 febbraio 2003, p. 178).
GM Borrello
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Nella versione on-line:
www.espressonline.it/ESW_articolo/0,2393,40490,00.html
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IL VETRO SOFFIATO
Tra scienza e libero arbitrio
Eugenio Scalfari
Domenica 2 febbraio è stato pubblicato sulla "Repubblica" un mio articolo
che prendeva spunto dall'esplosione dello "Shuttle" in rientro dalla sua
missione nello spazio. Nell'articolo si parla del dominio che la tecnologia
esercita sulla conoscenza e dei condizionamenti ai quali quel dominio dà
luogo, anche con riferimento alle cosiddette "guerre tecnologiche" oggi più
che mai di attualità. Molte lettere mi sono arrivate in merito a quanto ho
scritto. Ne pubblico qui una di aperto dissenso che offre l'occasione per
tornare su un tema a mio avviso di grande peso nella storia delle idee e
che definirei nel "rapporto tra la tecnologia e il libero arbitrio".
---
«Mi lasci dire, egregio Scalfari, che ho trovato il suo articolo veramente
deprimente. Ne riporto la frase secondo me centrale. "L'esplosione dello
Shuttle ha colpito in pieno volto le certezze tecnologiche dell'Impero. Da
ieri pesa su tutti noi una nuova insicurezza, un'insicurezza in più tra le
tante che il mondo globale porta con sé. Ma questa è di qualità diversa
dalle altre perché attacca alla radice la struttura mentale sulla quale
abbiamo eretto i miracoli della modernità e alla quale abbiamo sacrificato
gran parte della nostra libertà di scelta e del nostro sentimento morale».
Mi potrebbe spiegare a quale libertà di scelta lei o io o chiunque altro ha
rinunciato a causa di questi miracoli della modernità?
Se lei intende dire che siamo schiavi della televisione, dell'automobile
(ma allora metta dentro corrente elettrica, riscaldamento per le
abitazioni, cure mediche...) fino a che punto tutto ciò interagisce con la
nostra libertà di scelta? Libertà di scelta è anche il fatto che possiamo
liberarcene quando vogliamo; conosco docenti universitari che non hanno
nemmeno la patente o che si sono sempre rifiutati di comprare televisori,
siamo liberi di scegliere se accettare o meno queste tecnologie.
Oppure lei si riferisce al fatto che per inseguire queste diavolerie siamo
disposti a scendere a compromessi con noi stessi? Allora la colpa, sempre
che possa essere definita una colpa, è nella natura umana perché l'uomo ha
sempre cercato di migliorare il suo benessere, dalla preistoria ad oggi e
continuerà a farlo.
Il fatto è che tanta gente ha una sensazione distorta della realtà; per
perfezione tecnologica si intende il livello di precisione e sicurezza; ad
ogni incidente di questo tipo si ripete che la sicurezza assoluta non
esisterà mai, possiamo alzarne il livello con sistemi di controllo
perfezionati, possiamo progettare oggetti che resisteranno a sforzi
quadrupli di quelli che dovranno sopportare normalmente, ma anche questo
non è sinonimo di sicurezza. Oppure lei intendeva dire qualcos'altro quando
ha parlato di libertà sacrificate per la modernità? In particolare mi
potrebbe fare un esempio di "sentimento morale" sacrificato? O forse per
sentimento morale sacrificato posso prendere come caso il suo? Lei parte
dalla morte di sette persone che stavano tornando dalle loro ricerche nello
spazio per parlare del mondo dei potenti contro un mondo dei poveri, del
terrorismo e fare la sua bella ramanzina politica sulle diseguaglianze
sociali e via dicendo. In questo incidente era evidente che il terrorismo
non c'entrava niente, non bisogna essere esperti militari per sapere che
non esistono missili terra-aria in grado di arrivare a quote e velocità da
Shuttle. Lei comunque se ne è proprio fregato e ha usato la morte di queste
persone per tirare fuori la sua bella "morale". Ha usato questo incidente
mortale per fare una ramanzina su temi che su questo episodio non c'entrano
niente. Gente come lei si merita di avere Berlusconi come capo di governo,
Bush presidente degli Stati Uniti, Saddam Hussein in Iraq, persone che
hanno un calibro morale adeguato al suo. Spero di non aver scritto nulla di
realmente offensivo ma che lei abbia capito quanto il suo articolo mi abbia
estremamente indignato».
Edoardo Sassone
---
Egregio signor Sassone,
lei spera di non aver scritto nulla di offensivo, in realtà non è così. Si
rilegga il suo testo e si accorgerà di essere stato molto pesante; la
divergenza dei pensieri non dovrebbe autorizzare l'insulto. Ma veniamo al
merito.
Il discorso sulla tecnologia è molto complesso. Nella storia delle idee
comincia in modo esplicito con Rousseau e poi, passando per Nietzsche e
Heidegger, arriva fino a Severino e a Umberto Galimberti.
Dico questo soltanto per rammentarle che è difficile affrontarlo e
liquidarlo in poche righe e ciò vale per la sua lettera e vale anche per il
mio articolo che dava - evidentemente sbagliando - come cosa nota una tesi
che evidentemente e legittimamente non tutti conoscono.
La tesi in breve è questa: l'idea di sottomettere la natura ai nostri
bisogni fa tutt'uno con una delle pulsioni più importanti della natura
umana, la pulsione verso la conoscenza. Di qui il mito di Prometeo che ruba
il fuoco agli dei o di Odisseo che varca le Colonne d'Ercole. La libertà di
scelta a questo punto non è ancora in questione.
Diventa invece una questione essenziale nel momento in cui la tecnologia,
per accumulazioni successive che cambiano la qualità del rapporto con
l'uomo, diventa da strumento dell'uomo a padrone dell'uomo. L'uomo cioè
degrada a strumento della tecnologia la quale gli impone comportamenti che
sfuggono alla stessa conoscenza individuale e si pongono inconsapevolmente
al servizio dello sviluppo tecnologico in quanto tale e indipendentemente
da finalità.
La storia della scoperta della scissione dell'atomo, della costruzione
della bomba atomica e del suo uso possono esemplificare molto bene questo
percorso. Da una teoria puramente conoscitiva come quella della relatività
generale di Einstein si arriva alla scissione dell'atomo e di qui alle
successive e tremende applicazioni indotte dal Potere in quanto tale.
Nonostante l'opposizione degli scienziati che erano arrivati a quelle
scoperte ma che si dichiararono quasi unanimemente contro la loro
applicazione, l'applicazione ci fu e fu pagata dalle centinaia di migliaia
di morti di Hiroshima e Nagasaki.
Lei potrà obiettare che anche in quel caso la libera scelta (di Truman) fu
all'origine di quanto avvenne. Certo, il dito che spinge il bottone è
sempre umano. Ma le opzioni tecnologiche condizionano quel dito e ne
determinano gli effetti. Questo è il senso che sta dietro al problema. Si
può ovviamente dissentire e sostenere l'autonomia della conoscenza.
Ma anche la conoscenza risulta sempre più guidata dalle opzioni che la
tecnologia le propone: lo scienziato che indaga sulla natura non affronta
il suo viaggio conoscitivo privo di pre-giudizi; ha in testa fin
dall'inizio una tesi che gli è stata offerta dalle scoperte precedenti, ne
cerca sperimentalmente la conferma e inevitabilmente la conferma la trova
nella soggettività della sua ricerca. Ne risulta che la teoria e le
successive applicazioni sono guidate da finalità pregiudiziali le quali si
trasmettono come ulteriori opzioni alle ricerche successive.
Anche questa mia lunga risposta è probabilmente insufficiente a rendere
chiaro il meccanismo attraverso il quale l'accumulazione di tecnologia ha
invertito il rapporto tra libero arbitrio e servo arbitrio; ma spero almeno
che le abbia insinuato il dubbio che io non sia propriamente un imbecille
come lei mi ritiene.
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8 From: Giovanni Maria Borrello <borrello@f...>
Date: Tue Feb 11, 2003 10:46am
Subject: Re: Re: primo intervento
A: Dr. Saro Cola, via Forum FGB
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Scusi l'ardire, ma... Lei dove lavora?
GM Borrello
9 From: Andrea Rossetti <andrea.rossetti@u...>
Date: Tue Feb 11, 2003 2:00pm
Subject: Re: nota per Andrea Rossetti
At 22:57 +0100 10-02-2003, sylvie coyaud ha scritto:
>Se un idraulico si atteggia a messia su questioni che esulano dal
>lavandino, non ci bada, vero? Quindi, mi dia retta che potrei essere sua
>madre, non ci badi se lo fa un genetista, o qualunque autorità non fondata.
>Uno scienziato può essere competente, e autorevole nel suo campo, e una
>bestia per tutto il resto: Konrad Lorenz è stato filonazista.
e' un problema di credibilita': se il mio idraulico vede la madonna
piangere in oltrepo', la gente si mette a ridere e tira avanti. se la
madonna la vede un professore di fisica le cose cambiano e non poco:
finisce su qualche giornale come "oggi", lo chiamano pure ad alcune
trasmissioni pseudo-scienfiche come "misteri", e, se e' fortunato, lo
invitano al " mauriziocostanzoscio' ", . l'essere uno scienziato gli
fornisce una sorta di aura di infallibita', cio' che dice (*tutto*
cio' che dice) acquista il marchio della scientificita' (il messaggio
implicito e' "mi dia rette che sono uno scienziato - e so quello che
dico" :)
AR
10 From: marta mura <marta_mura@y...>
Date: Tue Feb 11, 2003 2:55pm
Subject: re:primo intervento
premetto che sono ancora studente,
navigo nella mia inesperienza,
quindi prendete quello che scriverò come il pensiero
di chi non ha ancora un bagaglio culturale ardito come
il vostro...
tecnologia, inevitabile ormai scinderla dalla nostra
vita quotidiana, è ipocrita chi non ammette di esserne
"succube" almeno in parte. per me il problema si
riconduce a questioni di responsabilità. mi viene in
mente "mezzanotte e cinque a Bohpal", saggio - romanzo
sull'esplosione, nel dicembre ottantaquattro, della
fabbrica più tecnolgica del momento, quella che
produceva Sevin, pesticida per la terra. l'esplosione
è stata causata sostanzialmente da "un taglio di
costi", fu annunciata ben tre anni prima, ma nessuno
volle badarci. ora, che l'Italia ha il rifiutato il
nucleare e che la Francia ce lo propini sotto il naso,
è sicuramente qualcosa di inquietante. ma cosa avremmo
dovuto fare? fare finta di niente, tanto il rischio
c'è comunque? forse era il caso che si riconsiderasse
il problema energia e cercare alternative, più pulite,
meno pericolose. perchè non lo si fa? semplicemente
non conviene. sono anni che gli ingenieri del Mobil
girano l'Europa dimostrando che il motore delle auto
potenzialmente funziona persino ad acqua e noi ci
troviamo ancora a giocare alle targhe alterne durante
la settimana. mi rifiuto di credere che la tecnologia
di oggi non sia in grado di produrre senza
danneggiare. il problema lo ripeto, è una questione di
costi e di menefreghismo generale. purtroppo, gli
effetti che si producono con l'inquinamento ecc..
all'uomo medio appaiono lontani quindi, "non è
necessario porsi il problema". "chi se ne frega se tra
duecento anni ci sarà un aumento del livello del mare
tale da comportare danni enormi, tanto non esisterò
più... " la nostra civiltà si ritiene civile, e poi si
fa fatica a buttare il rifiuto nel cestino della
spazzatura. a Milano, la raccolta differenziata dei
rifiuti è stata un insuccesso enorme, perchè erano più
i costi relativi alla divisione dei rifiuti fatta dai
cittadini in modo sbagliato che i costi per il
riciclo. è l'educazione che è sbagliata. questo perchè
noi siamo la generazione dell'usa e getta, tipica del
nuovo ragionamento tecnologico.
ecco perchè , secondo
me la decisione maggioritaria non può essere
accolta.ci hanno abituato all'irresponsabilità.
per quanto riguarda la scienza, io nella mia modesta
opinione credo sia inscindibile dalla tecnologia nel
senso che ne' è alla base. se oggi si studiano
"scienze giuridiche" è più vero che dire "studio
giurisprudenza", in fondo io, più studio e più mi
rendo conto di non sapere, se mi laureerò non per
questo avrò finito di dovere apprendere. per ora
studiamo le basi, così come il cardiologo che ti
impianta il cuore d'acciaio deve prima averne capito
il funzionamento, e soprattutto deve saperlo fare
manualmente prima di operare guardando lo schermo del
televisore. prima la base, poi la tecnolgia. spero di
essere stata chiara...
due precisazioni:
credo che l'inseminazione eterologa venga considerata
solo come cura per la sterilità perchè è una questione
etica. il nostro Paese, evidentemente, non si ritiene
ancora "pronto" per questo tipo di pratiche ( ricordo
che la componente cattolica è ancora uno dei paletti
della nostra società). poi che questo sia discutibile
o meno, è un'altro discorso.
ancora, mi riesce difficile credere che la tecnolgia
sia alla base della democrazia. il tutto sta nel
chiedersi, forse, cosa sia la democrazia stessa.
per quanto riguarda infine Lorenz, cito la teoria del
Martello ( o quella della televisione di Macluhann, è
lo stesso..), non importa se Lorenz sia filonazista.
onestamente, quando ho letto il suo libro pensando a
un filonazista, piuttosto l'ho letto pensando allo
scopritore dell'imprinting. sta a noi fare dei
pensieri altrui qualcosa di utile per fare lavorare il
nostro di cervello, e quindi renderci coscienza
critica. anche Nietzche ( si scrive così?) ha dato
l'ispirazione a Hitler, eppure ciò non toglie che sia
stato un grande filosofo...
ciò che facciamo degli strumenti che abbiamo, secondo
me, dipende solo da noi.
mi scuso per la mia ingenuità ( o ignoranza, come
chiamarla si voglia)..
11 From: longo@u...
Date: Tue Feb 11, 2003 6:23pm
Subject: seminario FGB
cari amici in rete,
ecco una prima risposta alle osservazioni di andrea rossetti: gli dò la
precedenza perché è il discussore ufficiale, ma ringrazio tutti quanti sono
intervenuti e nei prossimi giorni risponderò anche a loro
con viva cordialità
giuseppe o longo
Forum Fondazione Bassetti
11 febbraio 2003
Prima risposta ad Andrea Rossetti
La perentoria dichiarazione iniziale di Andrea Rossetti ('Io sono un
tecnofilo') ha il merito di chiarire bene la sua posizione. Come il suo
bisnonno, anche mia nonna e prima di lei i suoi avi per molte generazioni
hanno vissuto una vita grama rispetto a quella che ci è concessa oggi. Ma
osservo che:
1) In un sistema complesso ogni variabile, anche la più benefica, oltre una
certa soglia diventa tossica (le soglie di tossicità delle diverse
variabili sono difficili da individuare, ma il sistema le conosce bene e le
rivela con il suo comportamento: come diceva Goethe, la natura è più
geniale del mio genio, e anche senza conoscere o usare le equazioni della
meccanica il sistema universo sa benissimo raggiungere con precisione il
suo stato successivo). Quindi anche la tecnologia, oltre una certa soglia,
diventa tossica e di questa sua tossicità molti (specie filosofi, ma non
solo) hanno parlato in modo eloquente: forse, si può obbiettare, il loro
parlare di tossicità tecnologica è un effetto perverso proprio di quella
tossicità, ma il fatto resta (come di chi parlasse male del vino si
dicesse: non ascoltatelo, tanto è ubriaco).
2) Le condizioni di vita vanno giudicate evitando gli anacronismi e le
semplificazioni eccessive: il giudizio che diamo noi delle condizioni di
vita dei nonni si basa sul presupposto
che noi conosciamo le loro condizioni come conosciamo le nostre, con la
stessa evidenza.
E' difficile in realtà giudicare come un altro vive in prima persona la
propria situazione (inoltre la situazione è cointessuta e contestuale e non
può essere ridotta alle sue singole componenti: ricchezza, benessere
materiale, soddisfazioni sessuali, gratificazioni nel lavoro, stato di
salute...). La rassegnazione dei nonni davanti alle carestie, alla
mortalità infantile, alle malattie, al freddo, alla fatica fisica ecc
potrebbe indicare un diverso atteggiamento di fondo nei confronti di una
condizione umana che avvertivano quasi come fatale.
Quindi noi giudichiamo la loro situazione con i nostri parametri,
approfittando dell'inevitabile dissimmetria dovuta alla freccia del tempo.
Essi accettavano come "dati di fatto" molte situazioni che noi sappiamo
essere modificabili e di fatto essere state modificate nel corso del tempo.
Per noi quelle situazioni sarebbero intollerabili, proprio perché noi
veniamo dopo di loro. (Si pensi agli uomini di un prossimo futuro, come
potrebbero giudicare miserevoli le nostre condizioni, e per motivi che noi
neppure ci sogniamo, e viceversa come gli uomini delle caverne non
s'immaginavano neppure che potessero esistere l'acqua corrente o le
finestre coi vetri).
Insomma i nonni non conoscevano la nostra situazione, ed è proprio il
confronto che dà il senso dello star bene o dello star male (gli uomini non
vogliono guadagnare molto, vogliono guadagnare più del loro vicino di
casa). Solo un confronto consente di misurare la differenza: forse i nostri
nonni si sentivano già fortunati rispetto ai loro nonni, ma non potevano
confrontarsi con noi.
Nota: queste generalizzazioni (noi, i nostri antenati o nonni, la gente, si
crede, crediamo... ) sono insopportabili, fuorvianti, assurde ecc, ma non
vedo come le si possa evitare se non rendendo il discorso tanto pesante e
contorto da risultare ridicolo oltre che inefficace. Chiedo dunque scusa
delle semplificazioni brutali, dei colpi d'ascia e della scarsa cautela. Ma
questo vale più o meno per tutti quando si usa la lingua naturale (e non
vogliamo certo introdurre un formalismo per esclamare con Leibinz
calculemus!).
Il rapporto tra tecnologia e democrazia è molto delicato: la scienza si è
sempre dichiarata democratica, ma nell'articolo ho cercato di argomentare
come di fatto non lo sia. Oggi è la tecnologia che si propone come base
della democrazia: certo l'accesso ai dispositivi e strumenti tecnici è più
facile che l'accesso a una scienza che diventa sempre più astrusa e
specialistica. Ma questa è democrazia? Il rapporto tra democrazia,
paternalismo, istruzione, laissez-faire ecc. è troppo complesso, e non mi
sento di affrontarlo. Forse la democrazia ateniese è stata un unicum
storico e non possiamo illuderci di riprodurla solo perché usiamo la stessa
parola... Forse la schiavitù non ne è stato il presupposto ma solo
l'antecedente storico... Forse la tecnologia non porterà affatto a uno
sviluppo della democrazia, ma a una delega rappresentativa ancora più
spinta, addirittura oligrachica o tirannica, mediata dalla delega alle
macchine di molte nostre attività e responsabilità...
Forse è proprio la libertà di comunicazione e di informazione che la
tecnologia consente ad essere la peggior nemica della democrazia, perché
offre, con la libera palestra delle opinioni, un eccellente sostituto
all'azione... E poi quando la democrazia è usata per prendere qualche
decisione a maggioranza si pretende che la decisione sia anche razionale!
Forse democrazioa e razionalità fanno a pugni: in genere le persone non
sono razionali.
Il nostro tempo, rispetto a un passato anche recente, si caratterizza per
una smodata propensione alle previsioni più che alle commemorazioni: arte
difficile, ma utile in tempi di grande accelerazione. I tecnofili (e i loro
cantori) ci presentano un futuro invariabilmente migliore del presente
(tanto che in questo presente non ci vuol vivere nessuno, e si tende a
bruciare la vita in un'attessa spasmodica di un futuro che diventa subito
passato, bruciandosi anch'esso). Che questa visione migliorativa sia una
tendenza umana lo conferma il venditore di almanacchi leopardiano: 'credete
voi che l'anno prossimo sarà migliore del passato?' 'illustrissimo sì, e di
molto' (parafraso, non ho il testo sotto mano). E' in questa costante
tensione verso il miglioramento progressivo si manifesta l'aspetto
miracolistico e mitopoietico della tecnologia: cadute le ideologie terrene
e ultraterrene, bisogna pure che qualcuno ci prometta qualcosa e ci illuda,
pena l'angoscia.
Ecco che, se gli scienziati sono troppo cauti e non vogliono rilasciare
indulgenti promesse (ma oggi tendono a farlo, anche per fare quattrini),
volgiamo loro le spalle e corriamo dai tecnologi, oppure dai cartomanti,
dai ciarlatani, dagli imbonitori (il programma 'mi manda Rai3' è un
campionario delle conseguenze tragicomiche di questa tendenza).
Veniamo ora all'intelligenza collettiva o connettiva della Rete. Si tratta
di un fenomeno assai più vasto, sfumato e sfuggente di quanto non sia il
fenomeno del software 'open source' (come ha intuito Saro Cola). Per
chiarire (sempre a colpi d'ascia): ritengo che l'intelligenza sia un
fenomeno sistemico e diacronico, cioè che nasca, si sviluppi e si manifesti
in un sistema articolato, costituito da varie componenti in grado di
comunicare tra loro e con altri sistemi; inoltre ha uno sviluppo storico
(evolutivo) che si sovrappone allo sviluppo storico del suo sistema
supporto. Sono proprio queste caratteristiche diacroniche e sistemiche
dell'intelligenza umana (si fa per approssimare: di che uomo? ecc) che
costituiscono la base per le critiche più interessanti all'intelligenza
artificiale di tipo funzionalistico, che nella sua versione forte,
considera la macchina intelligente di per sé, in autonomia rispetto al
programmatore e quindi al resto del mondo (non si può parlare
d'intelligenza della macchina se non con riferimento al sistema
macchina-programmatore-resto del mondo, come non si può parlare
d'intelligenza del cervello, ma solo del complesso cervello-titolare del
cervello-mondo).
Se si accetta questo punto di vista (io l'accetto), allora non vi è luogo
più plausibile della Rete per la nascita di un'intelligenza basata sui
processi sistemici ed evolutivi della comunicazione: con in più la
caratteristica che alcune delle sue componenti (gli esseri umani) sono già
di per sé intelligenti. I modi e le forme di questa intelligenza emergente
sono per ora oggetto di congettura. Del resto questa tendenza alla
formazione di un'intelligenza connettiva fa parte di quel grande processo
di simbiosi tra l'uomo e la tecnologia di cui ormai parecchi si occupano e
che ci offre molti episodi di emergenza funzionale. Per offrire un
parallelo: Marvin Minsky ha tentato di dimostrare (con abilità, ma
riuscendovi solo in parte) che l'intelligenza potrebbe scaturire
dall'interazione comunicativa gerarchica e organizzata tra componenti non
intelligenti (se poi qualche componente, come nella Rete, fosse già di per
sé intelligente, forse ciò aumenterebbe le probabilità di riuscita).
Quanto all'uso 'improprio' della tecnologia: oggi i dispositivi tecnologici
non sono semplici strumenti o macchine ben definite, sono veri e propri
sistemi articolati e tentacolari, che spesso interagiscono in modo fine con
altri sistemi (naturali o costruiti), co-evolvendosi con quelli (vedi i
prodotti delle biotecnologie). Dunque la complessità sistemica ed evolutiva
è una caratteristica di questi dispositivi. Ciò comporta che la nozione di
'progettazione finalistica' indirizzata a un uso perda un po' della sua
evidenza. Se il fine del martello è abbastanza chiaro (bisognerebbe vederne
però le forme e gli usi storici o preistorici, anche se sono quasi certo
che i martelli hanno piantato più chiodi di quanto non abbiano ammaccato
crani), meno chiaro è il fine della radio. E anche qui l'analisi storica ci
può aiutare. Marconi l'aveva costruita senza avere in mente, all'inizio, un
uso specifico: solo in corso d'opera definì quest'uso e immaginò il suo
apparecchio come un 'telegrafo senza fili'.
Ma il suo inconveniente era che chiunque avesse un ricevitore poteva
sentire la conversazione tra i due interlocutori: questo grave 'difetto'
fece pronosticare ad alcuni esperti che la radio non avrebbe mai avuto una
grande diffusione. La storia dimostrò che il fine progettuale era
inadeguato alle caratteristiche del dispositivo, e la radio s'impose come
mezzo di diffusione 'circolare'. La complessità dei sistemi tecnologici ha
un peso cospicuo sulla loro progettabilità d'uso: gli usi possono essere
molteplici e diversi da quelli voluti (è una sorta di ex-attamento). Ciò
vale pin particolare per un sistema complesso e poliedrico come Internet, i
cui usi sono difficili da prescrivere (e da proscrivere). Nell'interazione
con la società che l'adotta, una tecnologia sviluppa tutte le sue
potenzialità, che dunque si vedono solo a posteriori. E ciò nel bene e nel
male (con riferimento a un insieme di valori particolari): chi predica che
la televisione è una cattiva maestra e che bisognerebbe usarla 'meglio'
forse non ha capito che "questa è la televisione, baby: signori, la
televisione è questa (spazzatura), e gli usi 'nobili' sono minoritari"
(purtroppo, dico io e non solo io, ma non lo dicono tutti).
Un'osservazione a proposito delle decisioni maggioritarie. Andrea Rossetti
lamenta che certe decisioni vengono prese sulla base dell'emotività e con
un bagaglio di informazione troppo scarso. Quanto al bagaglio:
l'informazione è infinita e le decisioni vanno prese in tempi finiti
(spesso brevi). Perciò a un certo punto la raccolta delle informazioni va
troncata: quando, a che punto, chi lo decide? E poi l'informazione sta
nell'orecchio del ricevente, non nella bocca dell'emittente: ciascuno
interpreta la 'stessa' informazione a suo modo (in base alle sue capacità,
conoscenze, storia personale, convinzioni ideologiche, scopi, interessi...
ma anche supponendo in tutti una buona fede totale e assoluta le
interpretazioni possono differire e di fatto differiscono). Perciò ciascuno
sulla base delle 'stesse' informazioni prende decisioni che possono
differire dalle decisioni degli altri. Ciò accade anche fra i tecnici più
preparati e onesti. Se si aggiunge che il sistema società è molto complesso
e variegato, si capisce che l'applicazione del metodo maggioritario porti
di sicuro a decisioni discutibili (ma quando si dice 'discutibili' si
sottindende un soggetto capace o in diritto di metterle in discussione: si
faccia il nome di questo soggetto). E quale sarebbe l'alternativa? La
delega ai tecnici, agli esperti: che proprio perché sono tali darebbero
alla soluzione un'impronta esclusivamente (e forse tragicamente) tecnica.
Quanto all'emozione: le emozioni sono un fatto e come tutti i fatti vanno
accettate e introdotte nel quadro, altrimenti il quadro s'impoverisce
troppo e fornisce un 'modello di gente' assolutamente lontano dalla gente.
Del resto senza emozioni il mondo sarebbe ben diverso da quello che è,
forse meno attraente... certo più monotono.
E' vero: di fronte a certi episodi è forte la tentazione di esclamare: come
sarebbe bella la società se non ci fossero le persone (l'università senza
gli studenti, gli ospedali senza i pazienti...)! Ma v'immaginate la noia di
aver a che fare con i giocatori razionali di von Neumann o con i
calcolatori leibinziani?
Mi cito:
«Nello stesso momento molti uomini e molte donne camminano, mangiano
qualcosa, bevono, parlano. Alcuni, pochi vista l'ora, fanno l'amore o
dormono, altri sono a letto ammalati, parecchi sono al mare dove nuotano,
si bagnano o semplicemente prendono il sole. Altri ancora sono in macchina
o in autobus, o salgono in treno, vendono o comprano qualcosa, leggono
libri o giornali, s'incontrano per strada e si salutano, fermandosi a
scambiare qualche parola o impegni di prossime visite e telefonate,
esplicano insomma una vasta e differenziata attività, difficile da
esprimere con una formula riassuntiva e altrettanto difficile forse da
giustificare razionalmente, un'attività in gran parte gratuita e superflua,
che fornisce benefici e soddisfazioni marginali e certo non proporzionati
all'impegno profuso, ma che non si potrebbe interrompere e neppure ridurre
di tanto se non con grave nocumento di qualcosa di imponderabile ma
sostanziale. Questo qualcosa si potrebbe, senza esagerare troppo,
identificare con la natura umana, o meglio con il funzionamento
dell'umanità. Come se questa complicata ed eterogenea macchina, l'umanità,
per produrre quel po' che produce, avesse bisogno di sperperare una gran
quantità di energia in una sorta di attrito fatto di piccole azioni
ripetute, di chiacchiere, di futili contese, di cavilli, di letture
inutili, di scritture ancora più inutili, una sorta di pulviscolo
sonnolento e disordinato che inviluppasse una gracile ossatura navigante
verso un dubitoso e generico progresso. Ma se, animato dalle migliori
intenzioni, un rivoluzionario ingegnere sociale tentasse di aumentare il
rendimento della macchina eliminando in tutto o in parte quel polverino di
azioni in apparenza inutili per conservare solo le più pratiche, le più
solide, quelle capaci di aumentare il valore di qualche grandezza
importante, la ricchezza, per esempio, o il prodotto nazionale lordo, o
l'erogazione di energia elettrica, o altro di ben tangibile, la macchina,
pur accelerando a dismisura il suo movimento, perderebbe, con l'attrito, il
suo carattere più profondamente umano, quello appunto di girare a vuoto,
per mettersi a girare a vuoto in un senso molto più sinistro e spaventoso,
nel senso cioè dell'efficienza meccanica. Strappata al regno del disordine
ed entrata in quello dell'esattezza, la macchina compirebbe progressi molto
più rapidi, ma verso una meta disumana, nella quale solo l'ingegnere
sociale si riconoscerebbe. Tutto ciò ha forse a che fare con la natura del
nostro corpo, fatto di carne, di sangue, di grassi, e composto in massima
parte di acqua: un corpo semiliquido, sfuggente, deteriorabile, un corpo
insomma impreciso, anzi casuale, nella forma e nelle funzioni. Un corpo che
può concepire l'esattezza e aspirarvi soltanto con la fantasia più inesatta
perché, nella pratica, questa famosa e vagheggiata esattezza, esattezza
comunque concepita da un cervello sfumato e assai poco esatto, si stempera
pur sempre in una serie di gesti sfocati, di parole imprecise, di atti
involontari, nella tranquillizzante palude di una relatività senza contorni
e senza drammi.»
Chiudo con un'osservazione sulle centrali francesi (che riprende quanto ha
scritto Marta Mura): è vero che a due passi da noi ci sono centrali
nucleari che in caso d'incidente potrebbero danneggiare anche noi. Quindi,
si dice, tanto valeva fare le nostre senza dover comprare l'energia dai
Galli! Con lo stesso argomento, visto che l'aria delle città è inquinata,
tanto vale che i cittadini fumino cinquanta sigarette al giorno (mentre chi
vive in campagna è meglio che non fumi). Con questo ragionamento ogni
centrale nucleare autorizza la costruzione di altre centrali lì accanto,
tanto ormai il danno è fatto... mentre dove non ce ne sono non bisogna
assolutamente costruirne perché il rischio d'incidente, di fatto, non è
nullo.
Ma i rischi si sommano, e non c'è solo il rischio calcolato (ammesso che il
calcolo dei rischi abbia qualche senso pratico), c'è anche la percezione
del rischio, che è il fattore più importante in vista delle decisioni (ma
accanto al rischio, per dare un quadro completo che giustifica anche gli
aspetti emotivi, bisogna tener conto anche delle conseguenze del rischio,
sia materiali sia psicologiche...).
Quanto al calcolo del rischio: supponiamo che la probablità di un incidente
grave (lasciando da parte le conseguenze) sia di un miliardesimo. In
termini pratici, ciò significa che se costruiamo un miliardo di centrali di
quel tipo, c'è una probabilità assai elevata (diciamo prossima a uno) che
prima o poi una di esse abbia un incidente grave. Bene, rassicurati da
questo calcolo, cominciamo a costruire le nostre centrali: costruiamo la
prima, poi la seconda... la prima entra in funzione e dopo un po'
l'incidente grave si presenta propio nella prima centrale che abbiamo
costruito. A posteriori il calcolo del rischio subisce un ridimensionamento
drastico... Chi mi trova un difetto in questo ragionamento?
Per oggi basta, un cordiale saluto a tutti.
Giuseppe O. Longo
12 From: sylvie coyaud <scoyaud@p...>
Date: Tue Feb 11, 2003 5:03pm
Subject: Re: Dr Saro Cola sul modello Venter
At 23.44 10/02/03 +0000, you wrote:
Caro Dott. Cola, lei scrive:
>non è affatto inoppugnabile (anzi) che il modello di sviluppo proprietario
>(Microsoft, per intenderci) sia destinato a irrimediabilmente a soccombere
>perché porta in sè i germi della sconfitta. Si potrebbero fornire ottimi
>esempi di come le cose funzionino più che bene proprio all'interno dei
>lavori in equipe che comprendono piena segretezza industriale (modello
>Venter, per capirci).
Con fondi di Wall Street e della P/E, Craig Venter ha fondato nel 1998
Celera Inc. che avrebbe venduto informazioni genetiche su abbonamento, e ha
dimostrato nel 2001 che il suo metodo era adatto a sequenziare grandi
genomi (il suo in particolare). Sul piano scientifico è andata bene, su
quello finanziario male ed è stato licenziato all'inizio del 2002. Pochi
mesi dopo, sul modello di TIGR da lui fondato nel 1992, ha creato TCAG, un
istituto no-profit che fa ricerca per conto di enti pubblici, l'IBEA, idem,
e la fondazione Craig Venter dedita all'outreach.
Non capisco a quale "modello Venter" lei si riferisca. Mi spiega? Grazie
mille,
Sylvie Coyaud
13 From: Alessandra Grazia <agrazia@o...>
Date: Tue Feb 11, 2003 9:05pm
Subject: Retroazione positiva
Mi sembra proficuo il concetto di "retroazione positiva" che si incontra più
volte nel testo del Professor Longo. Purtroppo non mi riesce di comprenderlo in
modo soddisfacente nelle sue implicazioni.
Mi rivolgo quindi al Professor Longo per chiedergli se potrebbe per cortesia
fornirmene una spiegazione (nel Suo testo non l'ho trovata).
Grazie da...
Alessandra Grazia
~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~
Dr.ssa Alessandra Grazia
~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~
14 From: sylvie coyaud <scoyaud@p...>
Date: Tue Feb 11, 2003 8:45pm
Subject: Re: nota per Andrea Rossetti
At 14.00 11/02/03 +0100, you wrote:
>At 22:57 +0100 10-02-2003, sylvie coyaud ha scritto:
>
> >Se un idraulico si atteggia a messia su questioni che esulano dal
> >lavandino, non ci bada, vero? Quindi, mi dia retta che potrei essere sua
> >madre, non ci badi se lo fa un genetista, o qualunque autorità non fondata.
> >Uno scienziato può essere competente, e autorevole nel suo campo, e una
> >bestia per tutto il resto: Konrad Lorenz è stato filonazista.
>
>e' un problema di credibilita': se il mio idraulico vede la madonna
>piangere in oltrepo', la gente si mette a ridere e tira avanti. se la
>madonna la vede un professore di fisica le cose cambiano e non poco:
>finisce su qualche giornale come "oggi", lo chiamano pure ad alcune
>trasmissioni pseudo-scienfiche come "misteri", e, se e' fortunato, lo
>invitano al " mauriziocostanzoscio' ", . l'essere uno scienziato gli
>fornisce una sorta di aura di infallibita', cio' che dice (*tutto*
>cio' che dice) acquista il marchio della scientificita' (il messaggio
>implicito e' "mi dia rette che sono uno scienziato - e so quello che
>dico" :)
Giusto: mi vien in mente Di Bella e Bruno Vespa che ne vantava i miracoli.
Però siamo noi dei media a prendere, e far prendere, lucciole per lanterne,
no? Per mestiere, dovremmo praticare l'incredulità (come i ricercatori,
d'altronde).
15 From: guido1936@i...
Date: Tue Feb 11, 2003 10:50pm
Subject: Sui sistemi complessi
Alcune novità provenienti da qualche "minoranza" della scienza vengono di
fatto ignorate dalla cosiddetta scienza ufficiale. Nei sistemi complessi, ad
ogni biforcazione-instabilità il sistema prende "a caso" una via anzichè
un'altra: ma perchè a caso?? E' solo il nostro sottofondo filosofico che conia
questa espressione: sarebbe più logico dire che il sistema "sceglie". La
"novità" è che la mente non è più solo legata a un sistema nervoso, ma, come
già teorizzato da Gregory Bateson, si manifesta ovunque, non appena sia
presente una certa complessità: con un pizzico di libero arbitrio. Oltre al
tramonto del dominio del pensiero cartesiano, questo potrebbe significare una
sorta di animismo.
16 From: Giorgio Schiavon <giorgioschiavon@h...>
Date: Tue Feb 11, 2003 10:54pm
Subject: Pensieri in libertà.
Ritengo che il progresso scientifico, quale mero accrescimento del sapere, non
possa essere considerato nè buono nè cattivo. La scienza in quanto tale non può
essere altro che un potenziale astratto. E' l'uso che se ne fa che può
apparire buono o malvagio, giusto o ingiusto. Ma tali valutazioni non sono
altro che frutto di interpretazioni partigiane. Ciò che è bene per alcuni non
necessariamente dev'essere considerato positivo da altri. Tutto si basa su
scale di valori convenzionali che possono assumere gradazioni variabili a
seconda del punto di osservazione e del contesto sociale, ambientale e
temporale in cui si verifichino. E' qui che allora possiamo parlare di
democrazia collegata alla tecnologia? Ma la democrazia cos'è? Il governo
esercitato dal popolo? E nello specifico è la possibilità di allargare al
popolo i frutti e le meraviglie della scienza tradotti in tecnologia?!?! come
il telofonino UMTS? o la macchina a tutti? o , (con tutti il rispetto per chi è
morto nello svolgimento del proprio compito, compito che non dimentichiamolo è
conseguenza di una scelta consapevole), l'esibizione di "grandeur" di nazioni
che spacciano l'esplorazione dello spazio come un "grande passo per l'umanità",
grande passo che, giusto per ribadire il concetto di relatività tra buono e
cattivo, può invece essere letto quale sperimentazione di strumenti bellici e
di controllo e non, come invece pare si tenti contrabbandarlo, filantropica
ricerca a favore dell'umanità, su cui invece la possibile ricaduta positiva si
ottiene soltanto di riflesso o per esigenze di budget. Fin qui allora possiamo
tranquillamente affermare che, quanto meno nel mondo occidentale, la tecnologia
sia democratica, ma allargando l'ottica ad una panorama globale è palese come
la ineguale distribuzione delle risorse tecnologiche dimostri che
nell'esperienza fattuale la tecnologia è elitaria e tuttaltro che democratica.
Scienza come entità astratta e tecnologia come fatto concreto, esistono in
rapporto simbiotico e alimentandosi recipropocamente producono progresso la cui
valutazione di ordine etico e morale può essere riferita solo ed esclusivamente
al suo utilizzo. Mi appare ipocrita ipotizzare che la scienza, in un ottica
evolutiva (sia essa globale o individuale) in cui si evidenzia che lo scopo
ultimo è il profitto in senso lato, possa essersi sviluppata dagli albori del
genere umano e possa continuare in futuro, in assenza di un suo sfruttamento
tecnologico a favore di chi vi abbia investito risorse. La pura filantropia non
può essere sprone sufficiente all'evoluzione in quanto l'impiego di risorse
comporta necessariamente costi che richiedono un ritorno in termini di altre e
superiori risorse che consntano nuovi investimenti nell'ottica di una continua
evoluzione della specie.
Mi pare inoltre che interpretare il progresso e valutarlo soltanto alla luce
delle ultime eclatanti innovazioni possa esser riduttivo, la sua valutazione
e le aspettative al riguardo vanno rapportatate alle condizioni di volta prese
in esame, credo che in termini di profitto per il genere umano non possa
esservi una grande differenza, per esempio tra la scoperta del fuoco nella
presitoria e la penicillina nell'era moderna, entrambe hanno migliorato
notevolmente la qualità di vita preesitente alla loro scoperta.: Lo stesso
dicasi per la relatività ambientale e individuale, il progresso intellettivo e
scientifico dello scolaro non è meno importante della grande scoperta
scientifica in termini di evoluzione, in quanto ciò non è altro che il primo
tassello di una miriade di altri che costituiscono la piramide del progresso in
senso lato. L'umanità progredisce soltanto in quanto vi sia una generale spinta
avanti, che mi pare connaturata nell'indole umana, in cui ognuno sulla scorta
delle risorse di cui dispone, apporta il proprio contributo.
17 From: Giuseppe Belleri <bellegi@i...>
Date: Tue Feb 11, 2003 11:03pm
Subject: Commento a G.O. Longo
Applicazione alla medicina di alcune delle tesi
"forti" dell'analisi di Longo |
Torna all'inizio |
Vorrei tentare di applicare alcune delle tesi "forti" dell'analisi del prof.
Longo alla medicina, area che conosco meglio per professione.
Mi pare che il problema sia tentare di attivare meccanismi di
stabilizzazione a feed-bacck negativo laddove prevalgono di gran lunga i
circuiti di retroazione positiva che rischiano di sovraccaricare il sistema
in modo pericoloso, facendo deviare una delle sue variabili oltre la
sostenibilità fino a toccare le soglie di allarme ecologico, se non i
livelli tossici.
La medicina, in questo senso, è davvero l'esempio emblematico di come la
tecnoscienza riesca ad entrare in inter-retroazione di amplificazione con le
istanze sociali e le aspettative della gente, anche grazie ad un'operazione
di occultamento sitematico dei propri limiti. Non c'e' niente di più
provvisorio e scientificamente "debole", dal punto di vista dei suoi
fondamenti concettuali, come la medicina eppure, forse proprio per cio',
l'aura di scientificità assoluta le viene attribuita naturalmente e in modo
elettivo. Come dice Daniel Callahan la legge ferrea che muove medici e
pazienti in modo sinergico e' qualla del "fare di più". Quale migliore
dimostrazione della pervasività dei meccanismi di retraozione positiva! Sia
che i risultati pratici siano discreti, sia che le attese della gente vadano
deluse, sia che sforzi immani producano effetti sproporzionalmente modesti,
tutti chiedono in coro e a gran voce che si faccia sempre e comunque di più,
costi quel che costi!
E' un dato di fatto che ogni successo, tipo la sconfitta di una malattia
acuta o l'allungamento della vita media, generi effetti contro-intuitivi, ad
esempio una nuova malatia cronica che, a sua volta, richiedera' altre cure,
altri interventi sanitari, altre urgenze per complicazioni etc.. Alcuni
esempi empirici: la spesa sanitaria che nei decenni e' crescitua in maniera
spropositata rispetto al PIL, l'allungamento delle liste d'attesa che viene
"curato" aumentando dell'offerta che genera ricorsivamente altra domanda, la
continua richiesta di maggiori fondi per ogni settore, il susseguirsi di
campagne sociali e mediatiche per il finanziamento alle inizative di
ricerca, le proteste per l'introduzione dei ticket, meccanismi di
retroazione negativa rispetto ad una spesa cresciuta a dismisura nell'ultimo
biennio (il parametro andato fuori controllo che mette in crisi gli
equilibri) etc.. Da pochi mesi se n'e' andato Ivan Illich, che quasi
trent'anni fa' aveva preconizzato l'avvento della nemesi medica: nell'ultimo
decennio la vendetta si è lentamente scatenata tra gli operatori sanitari ed
ha un nome moderno: burn-out.
In sostanza la spinta propulsiva del mercato sanitario privato-assicurativo
USA detta le regole del gioco - tramite l'automatico riallinealemnto delle
polize in risposta all'aumento dei costi, formidabile volano di retroazione
positiva - e i sistemi europei, a finanziamento fiscale-solidaristico, non
riescono a tenere il passo inarrestabile della tecnoscienza di punta. La
medicina quindi e' l'esempio emblematico di come diversi attori sociali
coinvolti nel net-work (ricerca di base, tecnologia della saluta, industria,
sistema finanziario-assicurativo, sistema professionale, media etc..) si
saldino e si rafforzino vicendevolmente nella spirale della crescita
illimitata (e nella speculare negazione dei limiti) a cui timidamente si
oppone una sparuta minoranza professionale in nome dell'etica e della
deontologia.
In sostanza l'amplificazione della deviazione trova un supporto sociale
nella dinamica di reciproco infleunzamento e di sinregia di interessi dei
vari sotto-sistemi, a cui ho fatto riferimento sopra, e purtroppo la
politica può solo fungere da mediatore dei conflitti e degli squilibri che
insorgono tra i diversi protagonisti (quando non vi partecipa in prima
persona e attivamente). Servirebbe un congegno di retroazione negativa,
altrettanto articolato e pervasivo, che punti a ripristinare e mantenese una
etero-omeostasi del siatem, ma temo che la soluzione prospettata dal prof.
Longo (il controllo democratico sulle decisioni degli esperti, già
propugnato a suo tempo da Illich e da Feyerabend, abbinato all'etica della
responsabilità) possa rivelarsi fragile.
Grazie per l'attenzione
G.Belleri
Flero (BS)
18 From: Dr. Saro Cola <sarocola@m...>
Date: Wed Feb 12, 2003 1:49am
Subject: Re: Re: primo intervento
Sono chimico
--
Dr. Saro Cola
ML 1
sarocola@m...
19 From: Dr. Saro Cola <sarocola@m...>
Date: Wed Feb 12, 2003 2:02am
Subject: Re: Re: Dr Saro Cola sul modello Venter
Signora,
grazie a lei
E' molto attenta ai fenotipi. Non se ne faccia distrarre.
Il senso della mia frase era chiaro, riferendomi a un modello che è appunto
quello che ho detto : proprietario. Agli antipodi degli innocenti radical chic
che enfatizzano i benefici dell'intelligenza collettiva vulgata versio .
Sul piano scientifico Celera ha dato, come lei ha detto, risultati
ineguagliabili. Sul piano finanziario il discorso è più complesso da come lei
lo ha rappresentato.
--
Dr. Saro Cola
ML 1
sarocola@m...
20 From: Margherita Bologna <marghe@i...>
Date: Wed Feb 12, 2003 2:25pm
Subject: Domanda per Andrea Rossetti
Quando Lei si chiede se il criterio di maggioranza piò essere uno strumento
"razionale" per il controllo dell'uso della tecnica che significato
attribuisce a questo termine?
In quanto filosofo (del diritto) condivide l'analisi del concetto di
razionalità esplicata nella breve citazione del libro del prof. Gargani Crisi
della ragione che il prof. Longo riporta nella sua relazione? (paragrafo:di
fronte alla tecnologia)
dott.ssa Margherita Bologna
21 From: marlenedicostanzo@t...
Date: Wed Feb 12, 2003 2:27pm
Subject: progresso e retroazione
Se ho capito bene il saggio del prof. Longo è ispirato dalla preoccupazione
che le implicazioni del progresso tecnico scientifico sfuggano alla
responsabilità
dell?uomo. Che cioè la retroazione positiva che alimenta il progresso conduca
alla fine ad un processo autodistruttivo. Un po? come se un regolatore che
controlla la velocità di un motore, invece di diminuire l?immissione di
combustibile quando il motore aumenta di velocità, la aumentasse.
Vorrei però osservare che il concetto di progresso non è esogeno alla cultura
che produce il progresso. Diciamo che uno stato B è progredito rispetto
ad uno stato A se nello stato B si verificano situazioni che la nostra
percezione
stima migliori di quelle che abbiamo nello stato A; per es. migliori chances
di vita, teorie scientifiche maggiormente esplicative e così via. Ovviamente
la valutazione dell?utilità marginale dello stato B rispetto allo stato,
non può essere determinata autoreferenzialmente dal sapere degli esperti
della tecnoscienza, ma dipende dal come l?opinione comune percepisce il
mutamento. Ad esempio mentre i biotecnologi reputano senz?altro un progresso
gli ogm, per gran parte dell?opinione pubblica, visto che non ne percepisce
l?utilità immediata (non hanno costi inferiori, sul piano organolettico
non presentano particolari vantaggi anzi) viene enfatizzato il possibile,
anche se improbabile, rischio.
Comunque se lo stato B viene percepito come un progresso, si determina un
modo nuovo di percepire il mutamento. L?uomo con una prospettiva media di
vita di 80 anni guarda ai progressi della medicina in modo diverso di quello
con una prospettiva media di 50 anni. E? come se la nostra macchina a
retroazione
positiva venisse tarata in modo nuovo.
Il problema è che la velocità con cui la tecnoscienza opera molte volte
non consente e la verifica del progresso e l?adeguamento della prospettiva
con cui guardiamo ad esso. Il talidomide insegna.
Che fare allora? Forse, come il prof. Longo altre volte ha detto, che la
tecnoscienza ci dia il tempo di adeguare le nostre percezioni ai suo mutamenti.
Ma è realistico?
22 From: marta mura <marta_mura@y...>
Date: Wed Feb 12, 2003 2:58pm
Subject: Re: progresso e retroazione
--- marlenedicostanzo@t... ha scritto: > Se ho
capito bene il saggio del prof. Longo è
> ispirato dalla preoccupazione
> che le implicazioni del progresso tecnico
> scientifico sfuggano alla responsabilità
> dell?uomo. Che cioè la retroazione positiva che
> alimenta il progresso conduca
> alla fine ad un processo autodistruttivo. Un po?
> come se un regolatore che
> controlla la velocità di un motore, invece di
> diminuire l?immissione di
> combustibile quando il motore aumenta di velocità,
> la aumentasse.
> Vorrei però osservare che il concetto di progresso
> non è esogeno alla cultura
> che produce il progresso. Diciamo che uno stato B è
> progredito rispetto
> ad uno stato A se nello stato B si verificano
> situazioni che la nostra percezione
> stima migliori di quelle che abbiamo nello stato A;
> per es. migliori chances
> di vita, teorie scientifiche maggiormente
> esplicative e così via. Ovviamente
> la valutazione dell?utilità marginale dello stato B
> rispetto allo stato,
> non può essere determinata autoreferenzialmente dal
> sapere degli esperti
> della tecnoscienza, ma dipende dal come l?opinione
> comune percepisce il
> mutamento. Ad esempio mentre i biotecnologi reputano
> senz?altro un progresso
> gli ogm, per gran parte dell?opinione pubblica,
> visto che non ne percepisce
> l?utilità immediata (non hanno costi inferiori, sul
> piano organolettico
> non presentano particolari vantaggi anzi) viene
> enfatizzato il possibile,
> anche se improbabile, rischio.
> Comunque se lo stato B viene percepito come un
> progresso, si determina un
> modo nuovo di percepire il mutamento. L?uomo con una
> prospettiva media di
> vita di 80 anni guarda ai progressi della medicina
> in modo diverso di quello
> con una prospettiva media di 50 anni. E? come se la
> nostra macchina a retroazione
> positiva venisse tarata in modo nuovo.
> Il problema è che la velocità con cui la
> tecnoscienza opera molte volte
> non consente e la verifica del progresso e
> l?adeguamento della prospettiva
> con cui guardiamo ad esso. Il talidomide insegna.
> Che fare allora? Forse, come il prof. Longo altre
> volte ha detto, che la
> tecnoscienza ci dia il tempo di adeguare le nostre
> percezioni ai suo mutamenti.
> Ma è realistico?
tento di riflettere su quanto detto:
per me dovrebbe essere realistico.
es. la sigaretta: fino a dieci anni fa, l'effetto
negativo della sigaretta non era nacora ben
conosciuto, tant'è che una volta ho visto un
documentario degli anni settanta in cui si cercava di
dissuadere dal fumare per ragioni del tutto opinabili
sulle conseguenze del fumo. tutto è stato detto,
tranne la possibilità del cancro ( dimostrazione che
ancora non se ne conoscevanpo bene gli effetti). oggi,
decine di persone in America fanno causa alla Philip
Morris per i tumori contratti a causa delle sigarette,
perchè, al tempo, non si conoscevano ancora quegli
effetti devastanti che si conoscono oggi, e vincono.
spuntano gli OMG. è logico che, date le esperienze
passate, che la persona media diffida. prima ci
vengono propinati i prodotti, poi ad un certo punto
qualcuno mette in dubbio l'innoquità di tali. l'uomo
medio a questo punto pretende chiarezza e quindi non
si fida. non è questione secondo me, di percepire
l'utilità o meno del prodotto tecnologico, ma il porsi
il dubbio della salutarità di quello che mangiamo.
condivido l'dea della graduale distuzione dell'uomo,
ribadisco che per me è un continuo regresso. se da una
parte, infatti crediamo di vivere meglio, dall'altra
stiamo distruggendo l'ambiente in cui viviamo, e le
conseguenze le stiamo pagando tutt'ora (camminare per
le strade di Milano durante l'ora di punta per 10
minuti, equivale a fumarsi 20 pacchetti di sigarette.
spesso la gente comune, rimanda la polemica perchè il
"rischio", o il "pericolo" sono diluiti nel tempo,
quindi non si ritengono immediatamente coinvolti. es.
io fumo, pur sapendo che ho il rischio di cancro, ma
poichè il rischio è rimandato a un lontano futuro
continuo a farlo. se mi venisse il cancro, mi pentirei
amaramente della scelta stupida che ho fatto e
probabilmente pagherei oro per tornare indietro. lo
stesso ragionamento va visto in funzione delle
conseguenze di una tecnologia che sballa completamente
i ritmi biologici. ed a questi non si sfugge. quindi.
ben consapevoli di tutto ciò, perchè non si mettono in
atto politiche che ci salvaguardino meglio, invece di
scoprire l'acqua calda a distanza di tempo?
23 From: sylvie coyaud <scoyaud@p...>
Date: Wed Feb 12, 2003 6:06pm
Subject: Re: Re: Dr Saro Cola sul modello Venter
At 01.02 12/02/03 +0000, you wrote:
>Signora,
>
> grazie a lei
>
>E' molto attenta ai fenotipi. Non se ne faccia distrarre.
Difficile: non so lei, ma io nella vita incontro solo fenotipi.
s.c.
>Il senso della mia frase era chiaro, riferendomi a un modello che è
>appunto quello che ho detto : proprietario. Agli antipodi degli innocenti
>radical chic che enfatizzano i benefici dell'intelligenza collettiva
>vulgata versio .
> Sul piano scientifico Celera ha dato, come lei ha detto,
> risultati ineguagliabili. Sul piano finanziario il discorso è più
> complesso da come lei lo ha rappresentato.
In che senso?
24 From: sarmont@m...
Date: Wed Feb 12, 2003 6:29pm
Subject: democrazia della scienza
=======
Non possono essere i rappresentanti di quelle
componenti: non possono essere i ricercatori a pretendere di
conservare la ricerca, o gli innovatori l'innovazione tecnologica. La
decisione spetterebbe alla politica, intesa come attività di
mediazione tra le varie istanze sociali.
(Longo, Relazione)
=======
-- Non serve molto che mi dichiari d'accordo col professor Longo. E' - credo -
piu' utile che indichi i punti di disaccordo.
Voglio pero' subito dire che mi sembra molto valida la sua affernazione "se la
scienza non vuole aver nulla a che fare con il resto del mondo (cosa di cui si
puo' dubitare) e' il resto del mondo che vuole aver a che fare con la scienza."
(Relazione)
Uno dei punti di disaccordo riguarda invece la presunta antidemocraticita'
della scienza. Si deve distinguere - a me pare - tra mezzi e fini. I fini
potranno anche essere quelli di raggiungere una Verita' (ma in realta' io non
lo credo), ma la tensione verso una Verita' non esclude che i metodi siano
tutt' altro che dogmatici. La scienza e' democratica come metodo - o se non
altro dovrebbe esserlo.
Del resto anche Longo giunge ad affermare che "se i singoli non possono
ripetere gli esperimenti compiuti nei grandi laboratori, li possono ripetere
altri grandi laboratori. La democrazia a questo livello garantisce un certo
controllo dei risultati."
Un secondo punto su cui non mi trovo concorde e' ....... ma piu' che un
argomento riguarda una forma di atteggiamento. E' mia impressione (dalla
lettura della sua Relazione pper questo seminario) che Longo sia dibattuto tra
un malcelato fascino che la tecnologia esercita su di lui e il rifiuto della
stessa. Una sorta di odio-amore.
Volevo chiedergli la sua opinione anche su quest' ultima mia impressione.
Con molti cordiali saluti e complimenti per il bel seminario.
- alphonse vajo -
------------------------
25 From: longo@u...
Date: Wed Feb 12, 2003 7:21pm
Subject:
12 febbraio 2003
cari amici in rete
A Marta Mura vorrei confermare che secondo molti tecnologi (almeno
nell'industria informatica e microelettronica) i limiti posti alle
innovazioni sono di natura economica più che tenica. E sono limiti
economici interni all'azienda (costi di ricerca e sviluppo e costi di
commercializzazione) oppure esterni (costi legati alla perturbazione del
sistema esistente). Per cui molte tecnologie mature o fattibili sotto
ilprofilo tecnico non vengono lanciate per motivi economici. Ma i limiti
economici sono pur sempre limiti. Forse il "menefreghismo" e la miopia sono
caratteristiche ereditarie del genere umano (Dante: "perché l'uom in cui
pensier sovra pensier rampolla di sé dilunga il segno, perché la foga l'un
dell'altro insolla", cioè chi pensa troppo e si preoccupa finisce che non
fa nulla: e, oggi soprattutto, fare è più importante che riflettere). Il
genere umano sta distruggendo a grande velocità le altre specie viventi,
anzi è autore di una delle più grandi estinzioni di massa che si conoscano.
Non per questo la vita scomparirà: il biota si assesterà su altri livelli
di equilibrio, ma può darsi che il nuovo equilibrio non contempli più l
presenza di questo catastrofico Homo sapiens. Del resto sono scomparsi i
dinosauri, che per centinaia di milioni di anni avevano dominato tutte le
nicchie biologiche...
La spazzatura che produciamo non rientra nei cicli della natura: il nostro
"riciclo" è un surrogato di quei cicli, ma spesso fallisce percé è
sostenuto da motivazioni econoichepiù che ecologiche, cioè di equilibrio
sistemico: i rifiuti sono diventati un affare colossale, specie per la
"criminalità organizzata". E' sensazione diffusa che ovunque l'uomo
penetri, introducendo la sua azione finalistica cosciente, sostenuta da una
tecnologia sempre più potente, si producano dei guasti sistemici. Sugli
sconquassi provocati da questo tipo di intervento Gregory Bateson ha
scritto pagine fondamentali, che ho avuto il privilegio di tradurre (Verso
un'ecologia della mente, Mente e natura, Dove gi angeli esitano, Un'unità
sacra, tutti per Adelphi, Milano). E' la finalità cosciente dell'uomo
(basata su un'epistemologia sbagliata secondo Bateson) che apre alcuni
cicli chiusi della natura e che (attraversol'attiuvazioen dei circuiti di
retroazione positiva) tende a far crescere oltre ogni limite il valore di
alcune variabili (di cui il denaro è la quintessenza) rendendole pericolose
per la salute e l'integrità del sistema. E' vero peraltro che la lettura di
Bateson, che raccomando a tutti, resta il privilegio di pochi e non so
quanto le sue idee potrebbero cambiare il mondo anche se tutti le
conoscessero...
Vorre ringraziare Giuseppe Belleri per la sua lucida e sintetica
descrizionedi un caso emblematico d'intreccio di retroazioni positive in un
sistema complesso e di enorme importanza come quello della medicina, tra i
più significativi perché, in varia misura, riguarda tutti.
Pur sostenendolo, sono io stesso convinto - lo dichiaro con franchezza -
che il controllo democratico delle decisioni sia uno strumento farraginoso
e inefficace: molto meglio sarebbe un monarca illuminato (ma illuminato da
chi? per chi non crede in una divinità trascendente si prospetta un ricorso
all'infinito?...). Stiamo toccando i limiti della democrazia? Ci stiamo
rendendo conto che la democrazia, oltre un certo limite di popolazione e
una certa sogli adi complessità della società somiglia a un caos
ingovernabile in cui si manifestano proprietà e fenomeni emergenti di tipo
sinergetico? In cui "ordinatori" o attrattori eterogenei e inediti prendono
il posto delle decisioni meditate di un tempo (se mai ci furono)? Heidegger
diceva che da questo destino (la tecnologia, che snatura l'uomo) solo un
Dio ci può salvare. Io, forse più cinico, dico che solo una catastrofe
economica ci può salvare dalla catastrofe tout court. Dovrebbero mancare i
soldi: la gran macchina dell'apparato rallenterebbe subito, e avremmo il
tempo e il modo di pensare. Molte cose che oggi ci sembrano gratuite
riacquisterebbero il loro valore in termini di fatica, dilavoro investito,
di risorse naturali... (a questo proposito la mia posizione è molto
distante da quella tecnofila di Rossetti).
Il fisico inglese Ernest Rutherford ricevette la visita di colleghi
tedeschi che gli chiesero come avesse fatto, con le poche risorse che
aveva, a conseguire risultati tanto brillanti. Rispose: "Ci sono venuti a
mancare i soldi, allora abbiamo cominciato a pensare..."
(Qualcuno potrebbe ribattere con sarcasmo: vista la riduzione dei
finanziamenti che si prospettano, chissà quali meravigliosi risultati
conseguiranno i nostri ricercatori!...)
Per Alessandra Grazia ecco una brevissima nota sulla retroazione: La
retroazione (feedback) è uno dei concetti fondamentali della cibernetica e
si applica a una classe vastissima di sistemi, caratterizzati dalla
presenza di un "anello di retroazione". Si consideri un sistema che operi
una trasformazione su una certa variabile: la variabile su cui il sistema
agisce si chiama ingresso, la variabile trasformata si chiama uscita.
L'anello di retroazione riporta all'ingresso informazioni sull'uscita:
quindi l'ingresso è costituito dalla variabile da trasformare più i dati
sull'esito della trasformazione avvenuta in precedenza. Se questi dati
facilitano o accelerano la trasformazione nella direzione dei risultati
precedenti, la retroazione si chiama positiva. Se si oppongono alla
trasformazione, la retroazione si chiama negativa. Nel primo caso un
aumento dell'uscita provoca un aumento dell'ingresso, che a sua volta
provoca un aumento dell'uscita: il comportamento del sistema è divergente,
cioè si ha un'espansione verso l'infinito. Oppure una diminuzione
dell'uscita provoca una diminuzione dell'ingresso, che a sua volta provoca
una diminuzione dell'uscita e si ha una riduzione progressiva
dell'attività. La crescita indefinita si presenta nelle reazioni a catena,
nell'esplosione demografica, nell'inflazione, nella proliferazione delle
cellule cancerose. Poiché un sistema non può sostenere una crescita oltre
una certa soglia, questo tipo di retroazione positiva porta al collasso del
sistema. L'altro caso di retroazione positiva, che porta al blocco del
sistema, si ha per esempio nella depressione economica. Anche in questo
caso il sistema entra in una crisi che comporta l'annullamento delle sue
attività. Perché il sistema non giunga al collasso o alla morte, la
retroazione positiva dev'essere controbilanciata da uno o più meccanismi di
retroazione negativa. La retroazione negativa infatti porta (benché non
sempre) il sistema all'equilibrio. Tutti i sistemi di regolazione (di
temperatura, di velocità, di direzione e così via) sono basati su questo
tipo di retroazione, in cui un aumento dell'ingresso provoca una
diminuzione dell'uscita, che a sua volta provoca una diminuzione
dell'ingresso; invece una diminuzione dell'ingresso provoca un aumento
dell'uscita, che provoca un aumento dell'ingresso: in sostanza un aumento
dell'ingresso provoca, dopo un certo tempo, una diminuzione dell'ingresso e
una diminuzione dell'ingresso provoca, dopo un certo tempo, un suo aumento.
Si tratta di un tipico meccanismo di controllo: il sistema si porta via via
all'equilibrio stabile, oppure oscilla intorno a un punto di equilibrio
senza mai fermarvisi (si pensi al termostato, che fa oscillare la
temperatura di un ambiente intorno al valore di riferimento fissato).
Gregory Bateson riconobbe la presenza della retroazione positiva
(interazione simmetrica) e di quella negativa (interazione complementare)
in certi meccanismi sociali. Se per esempio il comportamento aggressivo di
una componente sociale A provoca aggressività in un'altra componente B e
l'aggressività di B scatena ulteriore aggressività in A, questa interazione
simmetrica (retroazione positiva), attraverso un crescendo di aggressività,
può portare al collasso della società. Se invece l'aggressività di A
provoca in B un atteggiamento di sottomissione e la sottomissione di B
provoca un calo di aggressività in A (interazione complementare, cioè
retroazione negativa), la crisi può essere superata e la società si riporta
in equilibrio.
Quanto scritto da Giuseppe Belleri mi sembra un'ottima illustrazione di
questi concetti (ripresi anche nelle primissime righe del contributo di
Marlene Di Costanzo).
A Marlene Di Costanzo direi che bisogna distinguere tra un fenomeno o
sistema e lapercezione ch ene abbiamo. La posizione generale dicerti
meccanismi di retroazione positiva è positiva (scusi il bisticcio) anche
quando il sistema che ne è sede si avvia al collasso (chi abbia fretta vede
nell'aumento contintuo della velocità della sua macchina un fatto positivo
anche se il motore sta per scoppiare - del resto è un motore a scoppio). E'
vero che la percezione che abbiamo dei fenomeni dipende dalla nostra storia
precedente e collocazione temporale (secndo auqnto ho scritto ieri
all'inizio dell amia glossa al commento di Rossetti), ma è anche vero che
questa nuova "taratura" della macchina a retaroazione riguarda poco o punto
il processo "in sé" (scusi questo abuso di realismo).
Come nota anche lei nelle ultime righe del suo contributo, uno degli
inconvenienti più gravi a questo riguardo è la diversa velocità con cui si
sviluppano la tencologia, la nostra capacità di adattamento e le interfacce
tra uomo e tecnologia (si tratta di direttrici evolutive spaiate, veda il
primo paragrafo dell'articolo). Insomma il simbionte Homo technologicus
fatica ad armonizzare le proprie componenti eterogenee e l'una rischia di
soffocare l'altra. Gli antichi meccanismi del corpo (fisiopsicologici)
sofforno per il contatto, anzi l'invasione, della tecnologia: la tecnologia
è sempr eun filtro, nel senso che potenzia (o addirittura rivela) certe
capacità, ma ne indebolisce o sopprime altre, che magari sentiamo
intimamente nostre e indispensabili.
Ma la tecnoscienza è disposta a darci il tempo di cui avremmo bisogno per
adattarci? O magari per rifiutarla? Ne dubito, proprio per l'accelerazione
(da retroazione positiva) che animal'innovazione: è proprio
quest'accelerazione che a volte dà l'impressione che la tecnologia sia una
componente autonoma o quasi del sistema complessivo, e questa autonomia
percepita preoccupa molto chi vede nella tecnologia una minaccia
all'identità dell'uomo.
Ma l'identità dell'uomo è un concetto quanto maiproblematico e forse
fallace: da sempre l'homo sapiens, ibridandosi con le vari componenti
dell'ambiente (animali, piante, virus) e con gli strumenti che via via
costruiva è venuto modificandosi. Oggi questa modificazione (in passato
poco più che latente) è quanto mai manifesta: basti pensare che i bambini
che hanno un'esposizioneprolungata e precoce all aTv o al computer tendono
a sviluppare connessioni cerebrali diverse dai bambini abituati all
alettura e scrittura o ad altri svaghi. Anche se la plasticità
cerebralepermane a lungo, dove può portare tutto ciò?
Certo porterà a unuomo diverso da noi (o meglio a un "simbionte" diverso),
che giudicherà il suo presente (il nostro futuro) in modo diverso da noi.
Non dobbiamo perciò cedere alla tentazione di giudicare coi nostri
parametri e metri di giudizio ciò che sperimenterà questa creatura del
futuro (copme non dobbiamo commettere l'ingenuità di giudicare col nostro
metro ciò che provavano i nostri avi). Tutto ciò non mi esime tuttavia dal
credere che il simbinte futuro soffrirà come e più di noi per il
progressivo disadattamento tra biologia e tecnologia (ci sono molti segni
che la nostra è una civiltà che soffre: per esempio negli Stati Unitipare
che il 56 % della popolazione ricorra agli psicofarmaci...).
Forse il corpo (Marta Mura) coi suoi ritmi ci salverà dalla trasformazione
totale (anche se non so bene come possa configurarsi questa trasformazione
totale, sembra una battuta di Joneso)? Se il corpo continuerà a
rappresentare un baluardo di resistenza contro l'invasine della tecnologia,
contro la riduzione a codice, se le sue esigenze ancestrale opporranno un
ostacolo inbvalicabile... Ma quale saràil prezzo dapagare in termini di
sofferenza? O sono tutte metafore? Preoccupazioni fuori luogo? E in questa
prospettiva, l'adeguamento psicofisico che invochiamo non sarebbe piuttosto
dannoso che vantaggioso, perché curerebbe i sintomi e non la patologia:
creerebbe una vsata zona di anestesia in cui la tecnologia potrebbe
finalmente insinuarsi senza resistenze...
A proposito dello scambio tra Sylvie Coyaoud e Andrea Rossetti: appena uno
vince un oremio Nobel (specie in fisica o in biologia) lo si intervista ad
ogni piè sospinto su tuttii temi possibili immaginabili. Il sistema delle
credenze fideistiche è forte, ma più forte ancora è il sistema delle
autocredenze narcisistiche: il Nobel si lascia intervistare e, titillato,
rilascia le sue pillole di saggezza a tutto campo, manifestando un
godimento epidermico e interiore molto simile all'orgasmo trattenuto. Un
po' come sto facendo io, pontificando come un oracolo (cerco di prepararmi
al Nobel...)
Giusta la distinzione che fa Sylvie Coyoaud tra scienza e sue incarnazioni:
purtroppo anch'io incontro sempre fenotipi. La scienza è lontana e
inaccessibile, simostra solo per i suoi ministri, che si lasciano toccare e
guardare: un po' come Dio, che manda avanti i sacerdoti...
A Guido direi che trovo giusta la sua osservazione, ma non la spinge fino
in fondo. Proprioperché un sistema abbastanza complesso è una mente nel
senso di Bateson (vedi anche Internet e la sua possibile intelligenza
connettiva) esso può "decidere" quale strada imboccare. Ma proprio perché
il sistema-mente è complesso possiamo descriverlo in vari modi e a vari
livelli. Un sistema complesso non può essere esaurito con una sola
descrizione (quella "vera"), che privilegi un determinato livello, ma è
suscettibile di più descrizioni a diversi livelli di finezza. Queste
descrizioni sono tra lor complementari e talvolta in parte anche
contraddittorie. Non si è autorizzati a dire che una descrizione è più vera
di un'altra, semmai, a seconda dei nostri scopi del momento, di volta in
volta una descrizione è più "adeguata" di altre. Allora a un livello di
descrizione il sistema imbocca una strada "a caso" e a un altro livello di
descrizione "decide" la propria strada.
Del restola nozione di "caso" è tra le più ingarbugliate e oscure: pensi
alla meccanica quantistica, dove la domanda fondamentale è: il caso è un
modo per dichiarare (o nascondere) la nostra ignoranza dei "veri"
meccanismi, oppure i "veri" meccanismi sono soggetti al caso? La meccanica
quantistica propende per la seconda ipotesi, che tuttavia alla nostra mente
sembra difficile da digerire: siamo irrimediabili realisti (come Einstein,
scusate...).
Adesso vado a casa: il seguito a domani, grazie a tutti.
Giuseppe O. Longo
26 From: Andrea Rossetti <andrea.rossetti@u...>
Date: Wed Feb 12, 2003 7:58pm
Subject: Re: seminario FGB
inizio ringraziando il professor Longo per la lunga risposta e tutti
gli altri per gli interventi e l'attenzione che stanno prestando alle
mie parole.
Giuseppe Longo, come di consueto, fornisce una serie formidabile di
spunti di riflessione. Io mi concentrero' sui due che ritengo piu'
importanti: l'idea di progresso e l'idea di intelligenza legata alla
rete.
At 18:23 +0100 11-02-2003, longo@u... ha scritto:
>Insomma i nonni non conoscevano la nostra situazione, ed è proprio il
>confronto che dà il senso dello star bene o dello star male (gli uomini non
>vogliono guadagnare molto, vogliono guadagnare più del loro vicino di
>casa). Solo un confronto consente di misurare la differenza: forse i nostri
>nonni si sentivano già fortunati rispetto ai loro nonni, ma non potevano
>confrontarsi con noi.
ovviamente, sono d'accordo con lei e con l'intervento di marlene di
costanzo che mi pare sostenere una tesi simile: l'idea di progresso
e' un'idea relativa e valutativa. lo stato di cose B e' un progesso
rispetto allo stato di cose A, se A e' "meglio" B; il "meglio" e'
relativo ad una serie di valori e di criteri che definiscono una
particolare visione del mondo. detto questo, non riesco proprio a
credere che il mio bisnonno, che pure aveva sicuramente un sistema di
valori e credenze diverso dal mio (e che, forse, ha anche avuto una
vita felice), possa considerare la societa' in cui lui e' nato,
migliore della mia: abbiamo praticamente debellato la fame, la
mortalita' infantile, l'analfabetismo, allungato la speranza di vita
e migliorato la qualita' della vecchiaia.
il problema attuale, secondo me, e' che, molto probabilmente, il
nostro modello di sviluppo (tecnico, ma anche etico), *purtroppo*,
non e' esportabile, *purtroppo*, si fonda su pratiche spesso immorali
nei confronti dei non occidentali. credo che, nel futuro, dovremo
renderci conto che, per il bene di tutti, il progresso tecnologico
non puo' essere disgiunto un progresso dell'estensione dei diritti
fondamentali (e probabilmente dalla tematizzazione di diritti delle
generazioni future).
>Ecco che, se gli scienziati sono troppo cauti e non vogliono rilasciare
>indulgenti promesse (ma oggi tendono a farlo, anche per fare quattrini),
>volgiamo loro le spalle e corriamo dai tecnologi, oppure dai cartomanti,
>dai ciarlatani, dagli imbonitori (il programma 'mi manda Rai3' è un
>campionario delle conseguenze tragicomiche di questa tendenza).
l'accostamento di tecnologi e cartomanti di pare davvero ingeneroso:
io credo che, nella maggior parte casi, ingegneri, scienziati, gli
innovatori in senso piu' lato, cerchino davvero di rendere il mondo
un posto migliore (buona fede che, invece, non si deve accordare ai
maghi nessuna specie). anche se, altrettanto spesso, non tutti siamo
d'accordo su come sia un mondo migliore.
>Veniamo ora all'intelligenza collettiva o connettiva della Rete.
>>>>>zip<<<<
mi ostino a non capire :) questo non significa ridurre l'intelligenza
a un insieme di relazioni organizzate indipendente dal supporto
fisico? l'idea che l'intelligenza sia un insieme di relazioni
organizzate non implica che l'intelligenza esclusivamente sia
algoritmica? (questo implicherebbe che anche l'intelligenza degli
essere umani e' algoritmica?) poiche' intelligenza dipende anche
dalla corporeita', allora un'intelligenza che si sviluppasse su di un
"supporto" diverso dal corpo umano, non ci sarebbe completamente
aliena?
chiudo con questa raffica di domande (che spero non spazientiscano il
prof. Longo :) : non voglio annoiare troppo coloro che hanno avuto la
bonta' di leggere sino a qui :)
a domani, AR
--
ø¤º°`°º¤ø,¸¸,ø¤º°`°º¤ø, ,ø¤º°`°º¤ø,¸¸,ø¤º°`°º¤ø,
dr. Andrea Rossetti
SWIF co-ordinator
SWIF - Sito Web Italiano Filosofia
Periodico elettronico - registrazione n. ISSN 1126-4780
Rubrica di recensioni: http://www.swif.uniba.it/lei/recensioni/index.htm
27 From: Leone Montagnini <leonemontagnini@k...>
Date: Wed Feb 12, 2003 8:10pm
Subject: Per una critica delle tecnologie dell'informazione
Tecnofobi o tecnofili, o forse ancor meglio - riprendendo le
fortunateespressioni di Eco - apocalittici o integrati. Mi ha sempre colpito
che si tratta di due atteggiamenti mentali che sembrano scontrarsi in
maniera totale, senza compromessi e, mi sembra, questo si registra tutto
sommato anche nelle discussioni che finora si sono avute in questo forum.
Paradigmatico in questo senso è l'articolo di Scalfari che ci ha proposto
Giovanni Maria Borrello, dove si assiste ad
una posizione classicamente apocalittica di Scalfaro che ha destato l'ira
del suo meno noto interlocutore "integrato".
Tra l'altro nella mia esperienza personale ho conosciuto molti acerrimi
nemici del nuovo tecnologico che si sono poi convertiti ad un autentico
tecnoentusiasmo. Negli anni 80 prendevo simpaticamente in giro un mio caro
amico perché si ostinava ad
usare la matita (di quelle con la gomma sull'altro estremo) invece del
computer per scrivere: così almeno posso cancellare, diceva. Poi ha scoperto
che col word processor cancellare era ancora più semplcie edè diventato un
altro. Adesso senza la
mail è un uomo morto! Personalmente preferirei però che si trovasse una
mediazione: la possibilità di criticare le tecnologie senza essere accusati
di esserne dei detrattori per partito preso.
Ringrazio Marta Mura per aver preso le difese di chi, come me, votò per il
sì contro le centrali atomiche. Ritengo estremamente importante
l'accostamento della questione nucleare all'episodio di Bohpal, e per
l'indicazione dell'aspetto dei costi di produzione dell'energia. Il rischio
si può contenere, ma purtroppo aumenta i costi del chilowattora. Attualmente
abbiamo le centrali sulle alpi, in caso contrario ne avremmo avuta una alle
porte della più grande città italiana, Roma. Immaginate che avrebbe
significato evacuare in tempi rapidi 3 milioni di persone. Purtroppo però
temo che, oggi, non avendo centrali nucleari dislocate sul nostro
territorio, abbiamo consequentemente anche pochi tecnici attivi sul
territorio a compiere icontrolli sistematici sulle scorie che qualcuno
potrebbe gettare in discariche abusive.
Non so se in questo modo finisco per passare per quel "critico progressista
del progresso" cui fa riferimento Giuseppe O. Longo nell'introduzione della
sua relazione, ma ritengo che sarebbe utile si formasse una posizione
intermedia di consapevole critica della tecnica.
Ritengo che di un tipo di critica di questo tipo, senza eccessi, ma seria e
puntuale, siano esempio le molte riflessioni, ricerche, iniziative circa le
tematiche ambientali, dove possediamo molte serie analisi - in sociologia,
economia, ecologia, geologia ecc. - che rappresentano un esempio effettivo
di scienza e tecnologia effettivamente applicate per retroagire (retroazione
negativa) in maniera tale che si possano riuscire a gestire in maniera meno
traumatica le ricadute negative delle attività economiche umane
(si ricordi che tutti i settori economici inquinano: agricoltura, industria
e terziario; nonché il consumo). Ciò non garantisce dalle catastrofi ma,
come suol dirsi, aiuta.
Ritengo però che quel che è stato fatto per i rischi legati alle tecnologie
della materia e dell'energia, non sia stato fatto a sufficienza per le
tecnologie dell'informazione e che sarebbe necessario esercitare il pensiero
critico su di esse molto più di quanto sia stato fatto fino ad oggi.
Le cose che da anni scrive Giuseppe O. Longo, mi sembra, rispondono a questa
esigenza di un pensiero critico sulle tecnologie e in particolare su quelle
dell'informazione (tra le quali includo in qualche modo anche la biologia
molecolare).
Molte delle cose che ho letto nella sua relazione sono vivaci e stimolanti,
ma mi lasciano dubbioso. Vorrei soffermarmi solo su un aspetto tra i tanti
nient'affatto banali che egli toccca.
Egli nota una mutazione epistemologica che starebbe avvenendo dalla metà del
Novecento e che riguarda alcuni settori trainanti della tecnologia. Ma c'è
una cosa che nel suo discorso mi lascia fortemente perplesso:
In particolare egli scrive che "a cominciare dalla metà del Novecento, la
tecnologia ha assunto una velocità tale da non permettere, spesso, neppure
le sistemazioni e le spiegazioni scientifiche a posteriori" "non esiste una
teoria del software, [...] di Internet, [...] dell'ingegneria genetica."
"Delegando, come stiamo facendo, l'uso della nostra razionalità agli
strumenti, acceleriamo la scomparsa della scienza a favore della tecnica.
D'altra parte questa delega appare inevitabile. Dal declino della scienza
così come la conosciamo naturalmente non seguirebbe la scomparsa
dell'attività mentale e conoscitiva: essa potrebbe assumere forme inedite,
legate soprattutto allo sviluppo tecnologico."
Si noti qui si tratta di una problematica che rappresenta oggi, a mio
parere, un'importante frontiera della ricerca epistemologica, e l'insistenza
di Longo su questo punto ha un grande merito.
Sono d'accordo in gran parte con la sua diagnosi, ma ho difficoltà a
condividere il suo ottimismo.
Creatura planetaria, intelligenza collettiva, laisser faire,
liberismo |
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In particolare a me sembra che la teoria della
creatura planetaria, avanzata nei termini in cui ne parla Longo credo tra i
primi da Pierre Levy in Francia, non sia altro che l'applicazione al mondo
dell'informazione della logica del laisser faire e della mano invisibile di
Smith. E il liberismo è un'ottima ideologia soprattutto per chi occupa
posizioni di predominio.
Francamente il quadro prospetatto da Giuseppe O. Longo di una scienza che si
estingue di fronte a una tecnologia che se ne va per conto suo mi preoccupa
molto e da molti anni. Diciamo da anni che stiamo vivendo nella "società
dell'informazione" ma, ironia della sorte, fuori del contesto strettamente
tecnico, non abbiamo nessuno straccio di definizione affidabile del concetto
di informazione, che anche lontanamente paragonabile a quelli di energia,
massa, materia, quantità di moto, carica elettrica ecc.
elaborati nel quadro della scienza tipica della fase che precede la seconda
guerra mondiale. Questo io lo ritengo un serio problema.
Credo che la scienza sia necessaria. Quando guido la macchina in situazioni
di routine è meglio inserire il pilota automatico ipotalamico. Questo è
vero: esso agisce in maniera istintiva e precisa, rapida, come un bravo
esecutore. Ma di fronte a situazioni impreviste è la corteccia cerebrale che
deve prendere il comando e scattano meccanismi endocrini che portano la
coscienza al livello massimo.
Giustamente Andrea Rossetti nota che ormai la parola scienza sta dappertutto
nelle università. La facolta di pedagogia è diventata di scienze
dell'informazione, quella di lettere di scienze umanistiche, addirittura
l'Ospedale S.Camillo di Roma ha cambiato il nome ai vecchi reparti di
cardiologia: ora si chiamano di Istituto di Cardioscienze. Ma non penso che
questo sia
segno di vitalità da parte della scienza: il fatto che la "Scienza" lasci il
posto alle "scienzE" è un segno della mutazione epistemologica di cui sopra;
indica che la scienza tende sempre più a tecnicizzarsi, che vince la
profezia di Weber sul trionfo del pensiero strumentale ed ho paura che così
facendo perdiamo tutti anche quella capacità critica (accanto pure ad un
sano
conservatorismo, non lo nego) che sono tipiche della scienza e di cui
avremmo bisogno oggi più che mai.
28 From: marta mura <marta_mura@y...>
Date: Wed Feb 12, 2003 8:45pm
Subject: Re: (unknown)
una riflessione personale che non c'entra nulla:
prof. Longo, la ammiro molto, perchè con il suo ultimo
intervento,di ognuno dei partecipanti ha saputo
cogliere l'aspetto positivo, nonostante le numerose
critiche, e nonostante la discussione si facesse
sempre più animata...
29 From: Alessandra Grazia <agrazia@o...>
Date: Wed Feb 12, 2003 9:38pm
Subject: Re: democrazia della scienza
----- Original Message -----
From: sarmont@m...
Date: Wed, 12 Feb 2003 12:29:16 -0500
To: <fgb-forum@yahoogroups.com>
Subject: [fgb-forum] democrazia della scienza
> Un secondo punto su cui non mi trovo concorde e' ....... ma piu' che un
argomento riguarda una forma di atteggiamento. E' mia impressione (dalla
lettura della sua Relazione pper questo seminario) che Longo sia dibattuto tra
un malcelato fascino che la tecnologia esercita su di lui e il rifiuto della
stessa. Una sorta di odio-amore.
>
Volevo dirlo io, mi sono state rubate le parole di bocca.
:)
Anche a me interessa l'opinione del Prof. Longo su questa osservazione che lo
riguarda.
~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~
Dr.ssa Alessandra Grazia
~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~
30 From: Giuseppe Belleri <bellegi@i...>
Date: Wed Feb 12, 2003 11:26pm
Subject: Re: (unknown)
> ----- Original Message -----
> From: <longo@u...>
> Dovrebbero mancare i
> soldi: la gran macchina dell'apparato rallenterebbe subito, e avremmo il
> tempo e il modo di pensare. Molte cose che oggi ci sembrano gratuite
> riacquisterebbero il loro valore in termini di fatica, di lavoro
investito,
> di risorse naturali... (a questo proposito la mia posizione è molto
> distante da quella tecnofila di Rossetti).
> Il fisico inglese Ernest Rutherford ricevette la visita di colleghi
> tedeschi che gli chiesero come avesse fatto, con le poche risorse che
> aveva, a conseguire risultati tanto brillanti. Rispose: "Ci sono venuti a
> mancare i soldi, allora abbiamo cominciato a pensare..."
Penso anch'io che una possibile fonte di retroazione negativa possa venire
dalla triste scienza, anche se una drastico rallentamento della macchina
economica potrebbe avere altri effetti negativi in altri punti del sistema,
soprattutto a livello di anelli deboli. La sostenibilità econ-eco-logica
della produzione mi pare pero' uno slogan che per ora resta confinato nei
discorsi degli ecologisti, per il semplice e solido argomento che senza il
continuo aumento della produzione mancherebbe la materia prima per la
re-distribuzione della ricchezza a favore dei meno fortunati. La nostra
economia è imbrigliata in una fittissima rete di inter-retroazioni di
interessi che paralizzano vie d'uscita alternative rispetto alla soluzione
classica del "sempre di più". Riprendo l'esempio del traffico da lei più
volte citato: che senso ha incentivare ulteriormente, con misure
"ecologiche", il mercato automobilistico quando strade, parcheggi e
autostrade sono perennemente intasate al limite del collasso? La retroazione
negativa logica - il ridimensionamento del parco automobilistico
circolante - è tuttavia impraticabile per una congerie di circostanze e
potenziali effetti. Una drastica riduzione delle immatricolazioni avrebbe
pesanti conseguenze sull'occupazione, che ridurrebbe la domanda interna, che
farebbe ulteriormente contrarre i consumi in una spirale perversa verso
l'implosione del sistema, foriera di altra disoccupazione, povertà, crisi
sociale etc.. Probabilmente le retroazioni più efficace potrebbero arrivare
in modo imprevisto da sviluppi tecnologici in settori che oggi non possiamo
valutare con precisione, ad esempio dall'ipotesi di economia all'idrogeno
avanzata da Rifkin, che ha tuttavia un retrogusto da albero della cuccagna o
di paese di bengodi. Sarebbe una ristrutturazione epocale, in senso
democratico e re-distributivo, dell'attuale cornice "entropica" del sistema.
Certo che svanirebbero d'incanto le guerre "giuste" e umanitarie,
finalizzate in realtà a mettere le mani sul petrolio. Che ne pensano, in
proposito, il Prof. Longo e Sylvie Coyaoud?
> Si tratta di un tipico meccanismo di controllo: il sistema si porta via
via
> all'equilibrio stabile, oppure oscilla intorno a un punto di equilibrio
> senza mai fermarvisi (si pensi al termostato, che fa oscillare la
> temperatura di un ambiente intorno al valore di riferimento fissato).
> Gregory Bateson riconobbe la presenza della retroazione positiva
> (interazione simmetrica) e di quella negativa (interazione complementare)
> in certi meccanismi sociali. Se per esempio il comportamento aggressivo di
> una componente sociale A provoca aggressività in un'altra componente B e
> l'aggressività di B scatena ulteriore aggressività in A, questa
interazione
> simmetrica (retroazione positiva), attraverso un crescendo di
aggressività,
> può portare al collasso della società. Se invece l'aggressività di A
> provoca in B un atteggiamento di sottomissione e la sottomissione di B
> provoca un calo di aggressività in A (interazione complementare, cioè
> retroazione negativa), la crisi può essere superata e la società si
riporta
> in equilibrio.
In questi mesi abbiamo assistito ad una notevole conferma empirica delle
ipotesi batesoniane di "cibernetica sociale" e all'emergere di una nuova
forma di interazione, accanto a quella complementare e simmetrica, che
chiamerei a complementarietà inversa. Nel senso che alle minacce di guerra
di B hanno corrisposto atti di collaborazione-sottomissione di S. Tuttavia
l'aggressività del primo non è affatto calata, come vuole la teoria, ma si è
sempre più acuita, abbracciando la logica del sempre di più, del rilancio
continuo, del gioco "ti ho beccato figlio di p.." à la Berne, della vendetta
a tutti i costi in stile favola di Esopo "il lupo e l'agnello". Fin'ora le
retroazioni negative della vecchia e infida Europa hanno trattenuto
l'esplosione di aggressività a lungo covata. Ora aspettiamo le prossime
mosse. A proposito, qual'e' il ruolo e la sensibilità verso il principio di
responsabilità dei pianificatori tecno-bellici che hanno orchestrato la
prossima tempesta di ordigni intelligenti nel Golfo? Personalmente sogno
questo genere di finale a sorpresa: S convoca una conferenza stampa
mostrando alle TV di tutto il mondo gli arsenali di armi di distruzione di
massa e chidendo pubblicamente scusa alla comunità internazionale - dopo
tutto l'hanno fatto in tanti negli ultimi anni e sono stati sempre
perdonati - per l'inganno perpetrato da alcuni apparati deviati dello stato
e delle forze armate, prontamente arrestati e assicurati alla giustizia.
> Il sistema delle
> credenze fideistiche è forte, ma più forte ancora è il sistema delle
> autocredenze narcisistiche: il Nobel si lascia intervistare e, titillato,
> rilascia le sue pillole di saggezza a tutto campo, manifestando un
> godimento epidermico e interiore molto simile all'orgasmo trattenuto. Un
> po' come sto facendo io, pontificando come un oracolo (cerco di prepararmi
> al Nobel...)
> Giusta la distinzione che fa Sylvie Coyoaud tra scienza e sue
incarnazioni:
> purtroppo anch'io incontro sempre fenotipi. La scienza è lontana e
> inaccessibile, simostra solo per i suoi ministri, che si lasciano toccare
e
> guardare: un po' come Dio, che manda avanti i sacerdoti...
L'exploit dei raeliani: un sorprendente esempio di connubio tra
tecnologia e sopran
naturale |
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Sempre la recentre cronaca bio-giornalistica ci ha fornito un sorprendente
esempio di connubio tra tecnologia e soprannaturale: l'explout dei raeliani
che sono riusciti a coniugare manipolazione genetica ed escatologia,
businness biotecnologico e fede nell'immortalità. Quale migliore esempio di
a-teoria della tecnica (riproduttiva) e di plateale sorpasso-divaricazione
tra scienza classica ed uso "cieco" delle tecnologie in stile scatola nera?
Ce' solo un piccolo particolare.
Può bastare il semplice trasferimento di un nucleo per creare un vero
clone-copia? La croni-storia socioculturale della persona è un semplice
epifenomeno delle vicende biologiche, come vorrebbe il determinismo
genetico? In realtà vi è un legame stretto tra varietà biologica e storia,
nel senso che solo i percorsi bio-grafici conferiscono identità ed autonomia
ad ogni organismo. Bio-logia e bio-grafia non sono affatto antitetiche ma
sono due facce della stessa medaglia. La clonazione del patrimonio genetico
non equivale ad un omologa riproduzione dell'identità personale, perché
nessun essere può sfuggire (o replicare) una traiettoria di vita contingente
ed irripetibile.
Per realizzare una copia perfetta sia dell'identità genetica sia di quella
personale servirebbe, in parallelo alla clonazione, una CRON-azione vale a
dire una ripetizione per filo e per segno dello sviluppo individuale, una
replica in tutto e per tutto delle condizioni ecologiche di crescita, delle
interazioni organismo-ambiente, delle scelte di vita, dei valori, delle
preferenze personali etc...
Buona notte
G.Belleri
31 From: vittorio bertolini <vittorio.bertolini@t...>
Date: Wed Feb 13, 2003 0:50am
Subject: diacronia scienza e tecnica
Nel discorso del prof. Longo emerge la diacronia, che col tempo si accentua
sempre di più, fra scienza e tecnica. In particolare che la tecnica progredisce
più rapidamente della scienza. Lasciando da parte, considerazione irrilevante,
che senza la tecnica la ricerca scientifica non potrebbe sussistere, osservo
solo che gran parte della storia ci insegna che la sistemazione scientifica è
sempre avvenuta dopo. La geometria euclidea è nata dopo che gli agrimensori
egiziani avevano già imparato a triangolare i campi dopo le piene del Nilo, e
venendo a tempi più recenti Carnot ha fondato la termodinamica quando la
macchina a vapore di Watt era già in funzione, e con la teoria delle onde
elettromagnetiche del tempo la radio di Marconi non avrebbe dovuto funzionare.
La stessa realizzazione della pila atomica di Fermi, che è il paradigma di una
applicazione tecnica derivata dalla scienza, presenta alcuni elementi di
empirismo. Se perciò è un dato che spesso la ricerca scientifica è una
sistemazione ex post dei risultati delle invenzioni tecnologiche il problema si
presenta del come giustificare una tecnica dalle conseguenze intrinsecamente
imprevedibili. In questa situazione lo stesso concetto di responsabilità si
appanna. Non credo però che questo ci autorizzi a pensare che dalla tecnica ci
debba salvare un dio. Frankestein e Mabuse fanno parte della storia della
letteratura e non della tecnica, mentre tutti i casi in cui la tecnica si è
dimostrata contro l'uomo la colpa è da addebitare o alla cattiva politica o
alla cattiva economia. Auschwitz è il prodotto del nazismo e non della tecnica,
così come Chernobyl è stata la conseguenza del fallimento dell'economia
sovietica. Smith ci ha insegnato che il nostro pane quotidiano lo dobbiamo più
all'interesse del fornaio che al suo buon cuore. Così se la nostra tecnica sarà
pro o contro l'uomo dipenderà dal sistema politico ed economico in cui scienza
e tecnica sono chiamati ad operare.
32 From: Domenico Lanfranchi <dolanf@l...>
Date: Thu Feb 13, 2003 1:07am
Subject: Adelante con juicio
I miei saluti a tutti i partecipanti al forum e le mie scuse perchè non
scriverò nulla di originale, ma mi limiterò a richiamare alla memoria
qualcosa che tutti sappiamo.
1. In generale l'operare ha preceduto il sapere.
I paleoantropologi ci dicono che l'homo abilis ha preceduto l'homo
sapiens, qualcuno arriva a dire che l'abnorme sviluppo del cervello
degli ominidi sarebbe dipeso dal fatto che l'acquisizione della
stazione eretta avrebbe reso disponibile la mano per compiti
operativi diversi dal puro sostegno; la conoscenza nasce per
tentativo ed errore, solo dopo millenni di esperienze l'umanità arriva
a qualche generalizzazione, cui negli ultimi secoli si è ritenuto di
poter dare il nome di scienza. Pur con tutti i suoi progressi però la
scienza non è nemmeno in grado di dirci a priori che cosa è
commestibile e che cosa non lo è: ci sono voluti più di dieci anni di
studi e tre casi di avvelenamento mortale per riconoscere che un
fungo ritenuto commestibile dalla notte dei tempi è invece tossico
(tricholoma equestre, cfr. Ordinanza Min. della Salute 20/08/2002;
ma gli esempi si potrebbero moltiplicare).
2. La scienza ha sempre seguito la tecnica (almeno fino a qualche
secolo fa): che si trattasse della conservazione dei cibi o del lancio
delle frecce, delle erbe medicinali o della rotazione agricola, la
spiegazione scientifica è arrivata molto tempo (secoli o millenni)
dopo che le relative tecniche si erano affermate.
3. Anche la scienza moderna dipende al suo nascere dallo sviluppo
tecnico, la tecnica infatti le fornisce non solo gli strumenti per
effettuare le misure e compiere gli esperimenti, ma anche i modelli
esplicativi per interpretare la realtà (andrebbe rivalutata la lezione
di Vico sul "verum ipsum factum").
4. Ben presto si matura l'esigenza di una scienza che ci permetta
di formulare a priori giudizi che estendano le nostre conoscenze o
che si estendano al di là delle nostre attuali conoscenze. Si
vagheggia una scienza che ci affranchi una volta per tutte dalla
sequenza "tentativo-errore", che ci consenta di scartare gli errori
prima ancora di commetterli.
5. Tale scienza oggi non c'è se non molto grossolanamente, la
scienza attuale ci consente di scartare alcuni errori (per lo più sulla
base dell'esperienza, non so quanto a priori), ma non certo tutti.
Qualcuno forse crede che in passato una scienza simile ci sia
stata ed allora immagina che certi problemi di divaricazione tra
scienza e tecnica siano solo problemi di oggi, mentre sono
problemi di sempre; oggi tali problemi sono più avvertiti per il livello
cui è giunto il progresso tecnologico e scientifico.
"Adelante con juicio": cerchiamo di analizzare a fondo
gli errori per tentare di evitare quelli irreparabili |
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6. Che fare? "Adelante con juicio" diceva Ferrer a Pedro nel
tumulto di San Martino. Siccome tutto sommato continuiamo a
procedere per tentativo ed errore, cerchiamo di analizzare a fondo
gli errori per cercare di evitare di commettere quelli irreparabili.
7. Qualche domanda su scienza e democrazia: se invece che
dall'Inquisizione Galilei fosse stato condannato da un'assemblea
popolare, la condanna sarebbe stata democratica? se
un'associazione neotolemaica rivendicasse l'insegnamento della
teoria geocentrica nelle scuole con pari dignità rispetto a quella
eliocentrica, possiamo rifiutarglielo? e se un referendum popolare
dichiarasse efficace la cura Di Bella?
Saluti a tutti
Domenico Lanfranchi
33 From: marlenedicostanzo@t...
Date: Thu Feb 13, 2003 9:39am
Subject: postilla a Bertolini
su Auschwitz ha influito maggiormente la tecnologia della Farben Chemie
(la ditta che produceva i gas) o il discorso di rettorato di Heidegger.
Forse dobbiamo pregare un dio che ci salvi dagli Heidegger?
34 From: Massimiano Bucchi <mbucchi@g...>
Date: Thu Feb 13, 2003 9:55am
Subject: Re: Progresso e responsabilità: il passaggio dalla scienza alla
tecnologia
Trovo che il paper di Longo contenga diversi spunti interessanti.
Come sociologo non saprei valutare (e sinceramente non mi interessa più di
tanto) se effettivamente siamo in presenza di una transizione dalla scienza
alla tecnologia.
Credo che il dato sociologico fondamentale sia invece una trasformazione in
termini di immagine pubblica della scienza e di strategie discorsive
disponibili.
Che scienza, tecnologia (nonché politica, società e cultura) siano state
intimamente legate sia dai tempi di Hobbes e Boyle è sostenuto da molti
storici della scienza (per esempio Shapin e Shaffer, 1985). Ciò che è
cambiato radicalmente è la possibilità di sostenere pubblicamente, da parte
degli scienziati (ma non solo) la separazione di queste sfere.
Scienza, tecnologia e politica: una sorta di gioco delle tre
carte |
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A lungo gli scienziati hanno fatto una sorta di gioco delle tre carte (sia
detto, vi prego, sine ira ac studio, poiché ho profonda ripulsa dei critici
della scienza per partito preso), incassando al tavolo della tecnologia (o
a quello della politica) e spendendo su quello della scienza 'pura',
'neutrale' e 'disinteressata'.
Per vari motivi, non ultimo il ruolo dei media e dell'opinione pubblica
(che a mio modo di vedere però ha radici storiche e sostanza più profonda
per essere ridotto all'avvento di internet) questo gioco non è più
possibile. Di qui varie conseguenze di questi anni in termini di crisi di
legittimità e dello stesso concetto di responsabilità.
Finché il discorso 'separatorio' era argomentabile, infatti, la scienza
poteva presentarsi coem sostanzialmente irresponsabile.
Scienza: la responsabilità non può più essere spostata
"altrove" |
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Oggi, di fronte all'inestricabile connubio pubblico tra scienza,
tecnologia, politica ed economia la responsabilità non può più essere
spostata altrove.
35 From: Matteo Merzagora <merzagora@l...>
Date: Thu Feb 13, 2003 11:54am
Subject: Re: Progresso e responsabilità : il passaggio dalla scienza alla
tecnologia
Stimolato dall'intervento di Bucchi, vorrei contribuire riportando un passo
dall'introduzione de "Il golem tecnologico", di Harry Collins e Trevor
Pinch, Edizioni di Comunità, 1998, con prefazione dello stesso Bucchi
(ricordo che il libro è una seconda puntata, il primo si intitolava "Il
Golem" e fu pubblicato da Dedalo nel 1995).
Ovviamente tutti i partecipanti a questo Forum conoscono il lavoro di
Collins e Pinch, ma ricordare le cose buone è sempre un piacere. I due
Golem sono una lettura illuminante, perché gli autori, in tutte le loro
considerazioni, cercano di far riferimento a delle realtà: non certo LA
realtà, ma almeno delle realtà. E' già molto, ed è una delle cose belle del
modo di fare (termine più ricco, ma più sfortunato, rispetto a "metodo")
della scienza.
"Mentre gli esperti di tecnologia sognano di raggiungere la perfezione
propria della scienza, è proprio sull'affidabilità della tecnologia
quotidiana che si fa spesso affidamento per dimostrare la durevole
infallibilità della scienza: i razzi vanno sulla luna, gli aeroplani volano
a 10 000 metri di altezza e lo stesso programma di videoscrittura con cui
questo libro è stato composto sembra essere un tributo alla irrevocabilità
delle teorie utilizzate nella sua progettazione. Ma c'è anche qualcosa di
poco chiaro in questo ragionamento. [...] Se è vero che la tecnologia è il
sostegno della scienza, perché i fallimenti della tecnologia, quali la
fusione del nocciolo a Chernobyl o l'esplosione della navetta spaziale
americana, non sono considerati fallimenti della scienza? Dalla discussione
sull'affidabilità della tecnologia deriva una clausola di "sconfitta non
ammessa": Chernobyl e lo Shuttle possono servire a verificare la scienza se
funzionano correttamente, ma non possono danneggiarla se non funzionano. La
clausola si rafforza ulteriormente in quanto i fallimenti della tecnologia
sono presentati come fallimenti dell'organizzazione umana, e non della scienza.
Scienza e tecnologia: la responsabilità viene passata da una
parte all'altra come la proverbiale patata bollente |
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Quando la scienza sembra poco sicura, la tecnologia è citata in sua difesa,
e quando la tecnologia sembra poco sicura, la scienza è chiamata in
soccorso; la responsabilità viene passata da una parte all'altra come la
proverbiale patata bollente. Se poi la patata cade, si dice sempre che sono
gli esseri umani ad averla fatta cadere."
Matteo Merzagora
36 From: Margherita Bologna <marghe@i...>
Date: Thu Feb 13, 2003 12:07pm
Subject: Caro prof. Longo
(ho il piacere di conoscerla in quanto sono romagnola ed ho frequentato un
luogo chiamato Sissa). Inutile dire che sono daccordo con buona parte
della sua relazione.
Vorrei fare invece una breve osservazione sul punto in cui Lei
afferma che la scienza tradizionale, rappresentata in particolare dalla
fisica, ha subito un indebolimento in seguito alle scoperte fatte dalla
meccanica quantistica A questo proposito Lei osserva che in conseguenza
di ciò la scienza non può più perseguire lideale di una descrizione del
mondo sempre più precisa e il grande sogno dellOccidente di spiegare o di
ricostruire il mondo per via razionale o formale non si è avverrato.
E conclude questa parte dicendo:E un po come se lattività scientifica e
la spiegazione razionale si stessero avviando al tramonto e cedessero il
passo ad una ragione pratica robusta e tracotante.
Fine della scienza, dunque? O inizio di un nuovo paradigma
filosofico-scientifico non più fondato sulla separazione cartesiana tra
res cogitans e res extensa sulla quale poggia la visione della scienza
che si va esaurendo? Forse il limite di questo paradigma sta proprio nel
fatto di pensare che la mente, la res cogitans possa ordinare la
molteplicità della natura (res extensa) dal di fuori, senza appartenervi,
in quanto ragione disincarnata.
Le premesse per un cambiamento dei nostri schemi concettuali sono contenute
nelle conclusioni alle quali è giunta la scienza attraverso un suo processo
interno. Si potrebbe prendere lavvio proprio dalla constatazione che più
ci inoltriamo nelle profondità del mondo di cui facciamo parte più ci
troviamo di fronte, come Lei dice, a massicce dosi di incertezza e
disordine.
Non è più possibile pensare il "soggetto" e l'
"oggetto" secondo i presupposti della separatezza cartesiana |
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Se cè la disponibilità a rivedere quella verità provvisoria
della quale una scienza non dogmatica e conservatrice ma fedele ad un
atteggiamento euristico è portatrice, è proprio la meccanica quantistica
che ci permette di capire che non è più possibile pensare il soggetto e
loggetto secondo i presupposti della separatezza cartesiana.
Ora sappiamo che il mondo fisico e la nostra storia biologica non sono
regolati dalla causalità deterministica ma dalla probabilità, dalla
possibilità evolutiva e non dalla necessità. Dalla storia, quindi e dal
fluire irreversibile del tempo.
Daltra parte le neuroscienze (mi riferisco a Francisco Varela e ad Antonio
Damasio) ci hanno mostrato che siamo un corpo che pensa ed in questa mente
incorporata le emozioni ed i sentimenti, che erano stati banditi dalla
ricerca scientifica in un secolo iperrazionale, hanno invece una funzione
regolativi della razionalità stessa. Già perché la logica e la conoscenza
hanno necessità di essere temprate dalle esperienze che abbiamo acquisito
nel mondo reale. Essere logici e razionali non è di per sé una garanzia di
essere in grado di prendere la migliore delle decisioni per noi e per gli
altri.
La nostra collocazione all'interno della natura: siamo parte di
questa e non ne siamo solo ordinatori |
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E poi senza emozioni si depaupera la stessa abilità di ragionare. E allora
perché dire che il corpo è uno strumento? Se lo concepiamo solo come res
extensa, come una macchina, sarà facile addizionargli tutte le protesi
possibili e immaginabili. Ma diciamo sono stanco e non ho un corpo
stanco ed il linguaggio ci testimonia questa nostra imprescindibile unità.
Se prendiamo atto di questi presupposti forse le novità future potrebbero
scaturire non solo dalla simbiosi tra umano e tecnologico ma anche dalla
riconsiderazione della nostra collocazione allinterno della natura di cui
siamo parte e non solo ordinatori. A meno che la tecnoscienza nella quale
siamo immersi non ci abbia già interamente trasformati.
Grazie per lascolto
Margherita Bologna
37 From: Giovanni Maria Borrello <borrello@f...>
Date: Thu Feb 13, 2003 5:28pm
Subject: Re: progresso e retroazione
Marta MURA wrote:
>ben consapevoli di tutto ciò, perchè non si mettono in
>atto politiche che ci salvaguardino meglio, invece di
>scoprire l'acqua calda a distanza di tempo?
Compriamo mai un ombrello in un giorno di sole?
38 From: Giovanni Maria Borrello <borrello@f...>
Date: Thu Feb 13, 2003 5:34pm
Subject: Un sottile strato di muschio
Giuseppe O. LONGO wrote:
>Il genere umano sta distruggendo a grande velocità le altre specie viventi,
>anzi è autore di una delle più grandi estinzioni di massa che si conoscano.
>Non per questo la vita scomparirà: il biota si assesterà su altri livelli
>di equilibrio, ma può darsi che il nuovo equilibrio non contempli più l
>presenza di questo catastrofico Homo sapiens. Del resto sono scomparsi i
>dinosauri, che per centinaia di milioni di anni avevano dominato tutte le
>nicchie biologiche...
I greci parlavano di "hybris" quando qualcuno decideva che poteva essere
lui, e non gli dei, a controllare la propria vita, o il tempo, o qualcosa
di altrettanto impossibile da controllare.
E, ancora, qualcuno ci ha convinto che, visto che la maggior parte delle
religioni hanno perso il loro fascino, ci siamo improvvisamente trasformati
in dei. Che siamo diventati i padroni del pianeta e i custodi dello "status
quo".
A proposito della sicumera e della presunzione dell'homo sapiens, sentite
un po' che cosa dice quel pazzoide iconoclasta di Kary Mullis (Nobel per la
Chimica nel 1993: ha inventato la più diffusa tecnica di replicazione del Dna):
«Mi ricordo una vignetta. Un uomo delle caverne sta dando in escandescenze
di fronte alla sua grotta, fissando la luce di un lampo e puntando un dito
accusatore contro il proprio compagno e il fuoco che arde all'imboccatura
della caverna. "Non si era mai visto niente del genere, finché non hai
cominciato a fare quella roba".
(...)
Oggi viviamo in un'epoca interglaciale, una vacanza per l' "homo sapiens".
Possiamo sederci fuori dalla caverna su una poltrona da giardino, o
tagliare il prato invece di spalare la neve.
(...)
Noi siamo un sottile strato di muschio su un masso voluminoso. Siamo un
piccolo fenomeno biologico che produce parole, pensieri, bambini, ma non
arriviamo neanche a solleticare le piante dei piedi al pianeta. Picconiamo
e scaviamo la sua superficie più esterna, e la dividiamo in quadratini a
nostro uso e consumo. Guardiamo le stelle, e pensiamo che anche quelle
siano lì per noi. Nonostante l'immensità di ciò che abbiamo di fronte,
continuiamo a farci su noi stessi le idee più bizzarre.
(...)
Anche con tutti gli strumenti di cui disponiamo, lunghi tubi piazzati sulle
montagne, e un telescopio Hubble nello spazio, siamo ciechi alla miriade di
complesse energie che ruotano, vibrano e pulsano intorno a noi giorno e
notte, anno dopo anno, millennio dopo millennio. Il comportamento più
adeguato per un essere umano è quello di sentirsi fortunato di essere vivo,
umile di fronte all'immensità del tutto. Magari facendosi una birra.»
E, riguardo alla Scienza e al suo edipico rapporto con i soldi e con i media:
«Le leggi scientifiche non sono credenze: per il semplice fatto di essere
dimostrabili. Quando esperimenti realizzati nel nostro secolo hanno
dimostrato che le leggi di Newton sulla gravitazione universale non erano
sufficientemente accurate, esse sono state cambiate, nonostante la buona
reputazione di Newton e il fatto che è sepolto a Cambridge.»
(questo richiama alla mente anche il discorso su Scienza e Democrazia...)
E poi:
«La relatività si adatta di più alla realtà. E' così che funziona la
scienza da almeno quattro secoli, ed è grazie alla scienza --non alla
religione e alla politica-- che anche gente come voi o me può possedere
cose per cui solo un secolo fa i re avrebbero fatto la guerra.»
(discorso dei nonni... v. precedenti interventi di ROSSETTI, LONGO e ALTRI,
anche se lì si parlava di tecnica... ma ormai sappiamo che l'una o l'altra
pari sono)
E continua:
«Il metodo scientifico non dovrebbe essere preso alla leggera.
Le mura della torre di avorio della scienza sono crollate quando i
burocrati si sono resi conto che era possibile ottenere denari e posti di
lavoro gestendo e promuovendo la ricerca.
(...)
Gli scienziati hanno dimostrato di non essere solo un branco di pazzoidi
che non avevano niente a che vedere con il mondo. Non erano --e non sono
mai stati-- dei tizi assolutamente inutili che se ne stanno nei loro
laboratori a giocare con i regoli calcolatori. Sono bastati alcuni di loro,
con qualche strumento e una valida motivazione, per fare una bomba che
avrebbe instillato il timor di Dio nel cuore di Attila.
Nella società del dopoguerra, sarebbe stata la scienza a determinare
l'equilibrio dei poteri. E i governi hanno cominciato a investirci seriamente.
(...)
I fondi disponibili sono molto contesi. Ma quello che dovremmo chiederci è:
"Che cosa state facendo --che sia utile a noi-- con in nostri soldi?"
(...)
Seguite il rivolo di denaro che scorre dalle vostre tasche ai laboratori, e
vedrete che passa attraverso i politici che hanno bisogno di voi, e i
gruppi di interesse che vi indottrinano attraverso i mezzi di comunicazione.
(...)
La gente crede a queste e a molte altre cose non perché ne abbia le prove,
ma perché è ingenua: si tratta di convinzioni basate sulla fede. Ma qui non
si tratta di questioni trascendentali che hanno a che vedere con un credo.
E' difficile indagare su alcuni di questi problemi, perché non è agevole
fare esperimenti con la vita quotidiana delle persone, ma si tratta
comunque di affermazioni che possono essere confermate o smentite. In caso
contrario gli scienziati non avrebbero motivo di occuparsene.»
E --ma in modo intenzionalmente ironico e provocatorio-- a proposito della
debolezza scientifica della medicina (v. primo intervento di BELLERI):
«Newton non avrebbe permesso che qualcuno arrivasse alla Royal Society a
parlare di grassi saturi e attacchi di cuore, perché queste teorie, come
molte delle sciocchezze dalle quali veniamo quotidianamente travolti sono
solo ipotesi, in attesa di ulteriori studi che probabilmente non saranno
mai realizzati.»
Infine, naturalmente ce n'è anche gli scienziati come casta sacerdotale:
«Gli scienziati che fanno affermazioni categoriche su futuri disastri
ecologici e sostengono che gli uomini sono responsabili di tutti i
cambiamenti in corso sono fortemente sospetti. Dovete sapere che intenzioni
hanno. E dovete riuscirci da soli: ognuno per sé, come sempre. Ringraziate
la sorte che non abbiano cambiato vesti né abitudini: continuano a
indossare abiti bianchi, come sacerdoti, e a evitare i lavori pesanti. In
questo modo è più facile identificarli.»
:-)
(Kary Mullis, "Ballando nudi nel campo della mente", Baldini & Castoldi,
2000, Milano, pp. 222)
Date un'occhiata PERO' anche a cosa ne disse Yurij Castelfranchi nella
recensione che fece per il Manifesto: è citata nelle News del 10 gennaio
2001 (in fondo), nel sito della Fondazione Bassetti, in
<https://www.fondazionebassetti.org/02/archivio-news/news06-doc.htm#010110>)
Gian Maria Borrello
39 From: marta mura <marta_mura@y...>
Date: Thu Feb 13, 2003 6:18pm
Subject: Re: progresso e retroazione
--- Giovanni Maria Borrello
<borrello@f...> ha scritto: > Marta
MURA wrote:
>
> >ben consapevoli di tutto ciò, perchè non si
> mettono in
> >atto politiche che ci salvaguardino meglio, invece
> di
> >scoprire l'acqua calda a distanza di tempo?
>
> Compriamo mai un ombrello in un giorno di sole?
>
dopo due volte che ho preso l'acqua, io l'ombrello ce
l'ho sempre dietro, anche se al meteo mi dicono che
non pioverà, ed anche se la mia borsa pesa di
più...:-)
40 From: longo@u...
Date: Thu Feb 13, 2003 6:27pm
Subject: terza replica
13 febbraio 2003
cari amici del seminario,
vorrei concludere la mia replica a Guido. La questione del libero arbitrio
è spinosa quanto quella del "caso" e anch'essa è legata all'opposizione
determinismo/casualità. Secondo alcuni il libero arbitrio è una sensazione
soggettiva, derivante dall'ignoranza di molte delle condizioni che stanno
alla base della decisione presa. Chi conoscesse a fondo tutte le
circostanze sarebbe costretto a una scelta deterministica. E' chiaro che la
locuzione "tutte le circostanze" invoca un'onniscienza che possiamo solo
attribuire a entità superumane. Dunque di fatto il libero arbitrio
esisterebbe (non esisterebbe per Dio, che, vista la sua onniscienza,
sarebbe obbligato alle scelte che fa: ma qui si entra in un campo molto
sdrucciolevole...). Un osservatore A che osservi B prendere una decisione
ma conosca più circostanze di quante ne conosca B potrebbe dichiarare che
la scelta di B è "obbligata" da quelle circostanze che B ignora. Ma a sua
volta un osservatore C che osservi A e B e conosca più circostanze di A
potrebbe concludere che A ha torto e che B sta davveroesercitando il suo
libero arbitrio... Così argomentando il libero arbitrio, che per tradizione
fa parte del territorio etico o morale, si trasferirebbe nel territorio
empirico-conoscitivo. Le nozioni di responsabilità, di colpa, di peccato,
di redenzione e via elencando, che sono intimamente legate al libero
arbitrio, si collocherebbero in una prospettiva diversa (si ricordi
Socrate: chi conosce il bene non può non farlo; e il codice afferma che
l'ignoranza della legge non cancella la colpa...). E' forse una forma di
riduzionismo della morale alla cognizione?
Quanto all'animismo cui accenna Guido alla fine, non ho ben capito la sua
osservazione: vorrei che me la chiarisse.
A Schiavon farei notare che la sua opinione sulla neutralità
dell'accrescimento del sapere (che costituirebbe solo una "potenza" o
potenzialità) urta contro molte opinioni correnti, in particolare contro
molte delle posizioni implicite o esplicite espresse dai partecipanti a
questo seminario (ai quali tutti va il mio rinngraziamento perché mi
offrono un'esperienza davvero bella!). In particolare mi riferisco
all'intervento di Massimiano Bucchi, che offre un quadro sintetico ma
incisivo della transizione tra la separabilità e la non-separabilità di
scienza, tecnologia e "altro" (politica ecc) (tutto ciò sa molto di
meccanica quantistica, dove alla fine fine si scopre che ogni fenomeno pare
inseparabile da ogni altro e che solo la nostra volonterosa tassonomia
elencatoria introduce nelmondo separazioni, confini e barriere...). Secondo
l'ideologia progressista, di tutto si può parlar male (ma solo a
posteriori, sì, purtroppo, come sottolinea Marta Mura, una volta accertati
gli effetti negativi, ma, come osserva Giovanni Maria Borrello, chi compera
un ombrello quando c'è il sole?...), ma non si può parlar male
dell'accumulo del sapere, che di per sé è sempre e comunque positivo.
Peccato però che questo sapere non possa fare a meno di interagire con una
realtà ben più materiale e, in particolare, accoppiarsi fortemente con la
tecnologia (e sono grato ad Alphonse vajo per aver sottolineato il
passaggio della relazione in cui sotolineo questo legame inscindibile anche
se forse, ancora, asimmetrico.
Conoscere e agire sono due facce della stessa medaglia, il legame tra
informazione e supporto è primario e inscindibile, non esiste conoscenza
(scienza) disincarnata (vedi Sylvie Coyaud), e in senso molto lato. Nella
fase di acquisizione del sapere la tecnologia ha avuto e ha una funzione
importante (e col tempo forse sempre più importante), e qui concordo con
Vittorio Bertolini: separare la scienza dala tecnica è un'operazione
mentale (ma serve anche a moltiplicare i saperi, gli specialismi, le
cattedre: quindi ha anche dei risvolti pratici cospicui...). Tanto che
anche i saperi che sembrano più astratti sono in effetti tributari degli
strumenti: basta pensare all'influenza che ha avuto il calcolatore sulla
matematica. Solo un manipolo di idealisti ritiene che la matematica sia una
creatura iperurania, immutabile, incorruttibile e via -ibilando. In effetti
il calcolatore sta modificando la nozione di dimostrazione euclidea! Cioè
sta modificando quello che pareva il pilastro intangibile della costruzione
matematica...
Quando il sapere è in fase di accumulo dunque la tecnologia è
importantissima (del resto, se vogliamo essere cinici, anche il nostro
corpo è una sorta di "macchina da sapere" e non se ne può fare a meno, per
ora almeno). Quando poi le conoscenze sono lì, accumulate nei cervelli, nei
libri, nelle formule, nelle memorie elettroniche, ecco che sprigiona una
tensione, una pressione, una "volontà" di uscire nel mondo e incorporarsi,
brama di uscire: allora solleticato da abili dita prorompe e si trasforma
in strumenti, in prodotti, aiutato in ciò sempre più, e condizionato, dal
tintinnare delle monete (vedi Schiavon). E' una caricatura molto riduttiva
di un quadro ben più complicato, come molti dei contributi testimoniano (in
particolare di Vittorio Bertolini e di Domenico lanfranchi, ma anche di
altri).
Il punto che vorrei sottolineare è che sta venendo meno una sorta di
paradigma (a forti tinte ideologiche, vedi anche Domenico Lanfranchi,
specie il punto 5) basato su una tradizione filosofica risalente a Platone,
per il quale la razionalità teorica è superiore alla conoscenza empirica
(vedi Cartesio e i suoi figli e nipoti). L'intelligenza che ci consente di
dimostrare un teorema è superiore a quella che ci consente di attraversare
una strada piena di traffico o di mangiare per molti decenni senza
infilarci quasi mai la forchetta in un occhio invece che in bocca. Credo
che questo pregiudizio sia dovuto alla consapevolezza dell'attività di tipo
razionale (fare un teorema richiede l'intervento della corteccia), mentrele
attività di tipo corporeo sono "cablate" molto in profondità e sono quasi
inconsapevoli. Siamo molto più fieri della nostra cpacità argomentativa che
della nostra (ovvia) destrezza demabulativa (tranne casi atletici
eccezionali, su cui molti fanno pesanti ironie: tutto muscoli e niente
cervello...). Questa preminenza ha portato a identificare l'attività
scientifica con una sorta di angelica e disincarnata produzione
teorico-astratta, meglio se simbolico-matematica. E' questa concezione che
secondo me sta tramontando, sta cedendo il posto a una maggior
consapevolezza dell'"intelligenza del corpo", a una rivalutazione esplicita
della tecnologia (tecnologia che è coeva alla nascita dell'uomo, mentre la
scienza "astratta" è una creatura molto tarda). In questo senso, come
sottolinea Massimiliano Bucchi, è una questione anche di "strategie
discorsive", cioè di immagine, di rappresentazione pubblica.
Per inciso: è vero che la geometria nasce dalla pratica degli agrimensori
egizi, ma il salto di qualità dovuto ai Greci, il valore aggiunto fornito
da Euclide e f.lli è tale che la matematica comincia a diventare altro che
una stenografia o una tabella di ricette mensurali. Basta leggere qualche
volume di analisi matematica (diciamo di Bourbaki) per rendersi conto che
da un certomomento in poi il formalismo procede per la sua strada come una
macchina (semi)automatica che ad alcuni procura veri brividi di piacere
intellettuale (sì, ci sono le endomorfine da matematica...). E' anche
chiaro che questo tentativo di astrarre l'attività scientifica (penso alla
fisica-matematica) da tutto il resto (dal corpo) è destinato la fallimento,
tuttavia a lungo l'uomo ha accarezzato la possibilità di fornire una
descrizione linguistica (astratta) totale del mondo e l'impresa
dell'intelligenza artificiale funzionalistica è, in questo senso, il
culmine del tentativo: il "fallimento" delle sue pretese, dovuto forse a
una mancanza di chiarezza nella formulazione dei fini, ha ulteriormente
indebolito la pretesa di tradurre il mondo in linguaggio formale.
Sollecitato dal punto 7 di Lanfranchi, apro una parentesi sulla democrazia:
sono sempre più incerto, le mie idee sulla democrazia sono sempre più
confuse, non so come rimediare a questo sgretolamento progressivo non di
certezze (non credo di aver mai avuto certezze, men che meno sulla
democrazia) ma di capacità empiriche d'uso e di riconoscimento... Chi mi
aiuta?
Altra parentesi (sempre il punto 7): la teoria geocentrica non è
"sbagliata", le sfere armillari con la terra al centro sono macchine
meravigliose che riproducono con grande precisione i moti degli astri
intorno a noi; è solo più complicata, perché l'assunzione del sole come
punto di riferimento (origine delle coordinate) semplifica di molto
calcoli, rappresntazioni e così via.
Il caso Di Bella: che cosa significa dire che la "cura Di Bella" (o
qulunque altra terapia) è efficace? Efficace rispetto a quale parametro
(guarigione clinica accertata coi mezzi diagnostici del 2003; mantenimento
dello stato di salute per un'ora, un giorno, un mese, un anno, un
decennio...; miglioramento delle condizioni psicologiche del paziente,
stato di serenità nel momento del trapasso inevitabile, alleviamento dei
dolori... ecc)? Sulla nozione di efficacia in medicina si dovrebbe
riflettere molto. Prego esplicitamente tutti i miei interlocutori di non
prendere questa come una difesa del metodo Di Bella, ma come un invito a
una riflessione che superi i luoghi comuni, le frasi fatte, la virtus
dormitiva, i presupposti dogmatici. In fondo il problema, formidabile, di
ogni medico è: che cosa posso fare per il "mio" paziente?
Non posso che concordare con Giuseppe Belleri sulla sua disincantata
analisi dei guai che provocherebbe un'inversione volontaria e repentina
delle tendenze del nostro sistema economico e produttivo. Come concordo
perfettamente con l'insufficienza del codice genetico nella costruzione di
un individuo: ci vorrebbe proprio la cron-azione (bello!) per riprodurre o
replicare un essere vivente (anche molto meno complesso di un umano): ma il
fascino della semplificazione riduzionistica si allea con i persistenti
sogni demiurgici dell'uomo. Dopo aver creato un Dio onnipotente e creatore,
l'uomo occidentale (religione monoteista giudeo-cristiana) ha tentato di
adeguarsi alla sua creatura prentendendo di essere lui stesso creatore di
sé stesso... Insomma, un bel guazzabuglio. E l'ingegneria genetica più di
qualunque altra tecnologia o bricolage (non scienza nel senso classico,
teorico, greco-platonico) sembra autorizzare questi sogni. C'è una
provincia del post-umano abitata non da fenotipi bensì da codici larvali e
fantasmatici.
La domanda che Marlene Di Costanzo rivolge a Vittorio Bertolini è cruciale
e si presta 1) a un'osservazione banale ma doverosa: le cause degli eventi
sono sempre molteplici (se non nei modelli semplificati della scienza):
quindi Heidegger e la tecnologia ma anche la genetica e la storia
dell'umanità... e 2) a un'altra autocitazione (scusate l'incontinenza):
... spuntavano già come pallide ombre le foto che avrei visto di lì a
qualche mese a casa di Sasha, frugando nella sezione proibita dell'immensa
biblioteca di suo padre, le foto in bianco e nero della vergogna, le
montagne di occhiali, o meglio di filiformi montature con le stanghette
d'acciaio ricurve, ben visibili quelle prossime all'obbiettivo, con le loro
tonde orbite vuote, confondendosi invece quelle lontane in un groviglio
come di granchi ammassati in una convulsa agitazione di chele e di zampe
fermata dall'istantanea, raccolti i granchi a palate su qualche fredda
spiaggia del Baltico per essere cotti e mangiati e poi invece lasciati a
imputridire sotto un pallido sole o nella neve già macchiata dalle liquide
deiezioni brunastre della marcescenza, e in altre foto i forni, ma non per
la cottura dei granchi bensì per la cremazione consunzione incinerazione
dei cadaveri introdotti con operosa ininterrotta alacrità nelle bocche
semicircolari chiuse da rugginosi sportelli, forni e sportelli e condutture
per l'afflusso del combustibile costruiti da collaudate ditte del Terzo
Reich, perché bisogna pure che qualcuno li abbia costruiti, quei forni, e
collocati nelle armature di mattoni e calcina, dopo aver vinto un regolare
appalto con offerte segrete, presentando progetti conformi alle specifiche
richieste, capacità calorica e velocità di smaltimento e facilità di
asportazione delle ceneri e delle parti incombuste e tutto, e vincere
l'appalto significava assicurarsi una fortuna in marchi, vedi come tutto si
trasforma in denaro, anche la carne macerata dai digiuni, levigata dai
colpi, consumata, piallata, battuta, sforzata fino a ridurla a una
sfilacciatura, a un guscio, a un cartone buono appunto da ardere in quei
bassi e ridicoli forni, tanto più orribili in quanto bassi e tanto più
tremendi in quanto ridicoli, con quei tozzi camini che per mesi e mesi
avevano eruttato giorno e notte torridi miasmi su tutta la circostante
pianura coperta di neve e di larici, neve e larici che non avevano impedito
nulla di nulla, come se una legge obbligasse o almeno consentisse di far
finire tante vite in quei forni, o meglio i segnacoli ultimi di tante vite,
dopo il passaggio per le camere, corpi fra corpi, montagne di membra
coperte di viscidi escrementi, e nel guardare quelle foto si faceva strada
per la prima volta il senso dell'infamia dell'abiezione della gioiosa
crudeltà del genere cui mi trovavo ad appartenere.
Sulla democraticità della scienza, Alphonse Vajo ha ragione: ma quello che
intendo dire è che se il metodo scientifico, in linea di principio, è
democratico perché non si nega a nessuno, tuttavia in pratica pochi possono
praticare la scienza, così come pochi possono praticare l'atletica:
occorrono muscoli, allenamento, scarpette e giubbini adatti, e non tutti
posseggono questo corredo. Tutti possiamo fare scienza a livello di
dilettanti, ma qui si parla d'altro. La situazione diventa ancora più
asimmetrica quando la scienza esce dalla portata dell'individuo per
riguardare gruppi e squadre ben attrezzati e finanziati. E' un'ulteriore
forma di delega tecnologica e specialistica, che mette ancora di più in
crisi la nozione ingenua di democrazia.
Ringrazio Marta Mura per la sua generosità: ma la generosità è dei miei
interlocutori che mi offrono tanti spunti e tante occasioni per correggere
e precisare i miei troppi e troppo vaghi pensieri. Alessandra Grazia si
allea ad Alphonse Vajo chiedendomi di precisare il mio atteggiamento verso
la tecnologia: poiché, com'è stato colto, è un atteggiamento ancipite se
non addirittura ambiguo, non mi è facile rispondere. Di fronte a un oggetto
così multiforme e con radici così profonde in tanti aspetti della nostra
cultura e società è difficile assumere un atteggiamento unitario, coerente
e immutabile. Inoltre la mia inveterata abitudine all'analisi (cui ha
contribuito anche la mia attività di ricerca) m'impedisce di prendere
posizioni nette, perché subito vedo le obiezioni possibili. Non ho saltato
nessuna tappa del tirocinio scientifico e della pratica di ricerca, ma
proprio perché la conosco dall'interno non posso fermarmi alla razionalità:
sento il bisogno di andare oltre, senza preoccuparmi troppo delle critiche
di chi si sente già arrivato e sta bene nella casa del rigore scientifico.
E cerco di essere tollerante: non amo le crociate, le chiese, le sette, i
dogmi, i partiti, il paternalismo, gli anatemi, i proclami e i manifesti,
insomma non amo l'assolutismo, neanche quello che si fa scudo della
ragione: e anche questa è una lezione che ho appreso dalla scienza. Credo
che ciascuno abbia il diritto di cercare la propria strada, la propria
felicità o pienezza, nei modi che meglio crede, vivendo anche nel paradosso
e nella contraddizione. Perché il paradosso e la contraddizione vengono poi
superati dal traguardo finale, dalla "livella" che pareggia comunque i
conti per tutti. E' una posizione individualista, la mia, nella quale
tuttavia non mi rinchiudo: sono sempre disposto a comunicare, a dialogare,
a rimettermi in discussione. E sono pronto a offrire agli altri ciò che ho
conquistato, sia pure a fatica, ciò che ho appreso, sia pure in via
provvisoria, ciò che ho scritto, sia pure con sofferenza e trepidazione.
Insomma, sì: odio e amore. La tecnologia rappresenta per l'uomo un "doppio
vincolo" alla Bateson analogo al dilemma senza uscita di fronte al quale si
sono trovate le culture tradizionali nei confronti della cultura
occidentale: farsi fagocitare accettando una trasformazione snaturante
richiesta dall'adattamento ai nuovi schemi, oppure resistere, mantenendo la
propria natura, cosa che potrebbe portare alla morte per inedia culturale
in seno a un più ampio sistema ostile e incompatibile?
Così l'uomo di fronte alla tecnologia: adattarsi ad essa (cioè
all'evoluzione bioculturale) subendo un inevitabile snaturamento? Oppure
resistere (e poi, a che livello: di singolo, di città, di comunità, di
nazione, di specie?) e "morire" per l'inevitabile avanzata del progresso
tecnologico alimentata dal denaro e dal mercato?
E quando dico "inevitabile" non sono ottimista, come ritiene l'amico Leone
Montagnini, anzi inclino un po' al pessimismo (prevale forse un tantino
l'odio sull'amore, ma si sa che fra i due c'è un confine labilissimo...).
In molti miei scritti mi sono chiesto in modo esplicito perché molti umani
s'ingegnino con tanto accanimento a costruire qualcosa che li trascende, li
trasforma in altro e forse li assoggetterà a sé. Non ho risposte. Forse
sentiamo che la nostra fine (castigo?) è imminente (residuo delle leggende
bibliche prometeiche della mia infanzia) e desideriamo trasformarci in
macchine per sopravvivere in qualche modo (ma non saremo certo "noi" a
sopravvivere). Forse è una semplice deriva evolutiva: come si è passati
dagli organismi unicellulari ai metazoi, così ora si sta passando alla
creatura planetaria (molti mi hanno nominato Pierre Levy, ma non ho ancora
avuto il tempo di leggerlo). Sono scenari pieni di fatalità, nei quali non
c'è molto posto per il volontariato o per la solidarietà: anzi, conviene
chiudere gli occhi per non soffrire (chi ancora soffre).
Anch'io sono preoccupato dal possibile tramonto della scienza che conosco e
che ho coltivato, ma tento un'impresa impassibile e impossibile: di
individuare i segni e le forme della cognizione prossima ventura, quando la
nostra ibridazione con le macchine sarà ancora più spinta. Quand'ero
studente, lo studio di una funzione poteva richiedere anche qualche ora
(massimi, minimi, flessi, comportamento asintotico, discontinuità...): ora
basta impostare i dati e premere un tasto e la nostra protesi mentale ci
fornisce una risposta in pochi icrosecondi: che cosa si perde, che cosa si
guadagna, che cosa significa tutto ciò? La macchina è lì, non possiamo
disinventarla. Prima le macchinette per fare le quattro operazioni hanno
"liberato" i ragazzini dalla noisa delle tabelline, poi i programmi più
raffinati hanno liberato i ragazzoni dallo studio dell'analisi... Li hanno
liberati perché possano fare... che cosa? Forse perché possano costruire
macchine che liliberino dai professori... Certo è che i miei studenti non
"sentono" più la necessità di una dimostrazione rigorosa... Insomma vorrei
tentare di separare l'osservazione di certe tendenze dalla valutazione di
queste tendenze.
Parentesi (Andrea Rossetti e Leone Montagnini): non solo la parola
"scienza" ha invaso le università (concediamo qualcosa alla vanità e al
senso di inferiorità che i colleghi delle discipline umanistiche provano
nei confronti delle scienze esatte...) ma ha invaso ben altro: quando sento
alla radio o allaTv che un prodotto è stato "scientificamente testato" un
odio mi assale che si trasforma in rigurgiti impotenti di bile... Povera
scienza (o scienze, a scelta)!
Parentesi: l'amico di Montagnini che scriveva con la matita è diventato un
bell'esempio di simbinte tecnologico! Ma il simbionte è dentro di noi, non
aspetta altro che la possibilità di manifestarsi gioiosamente e
barbaricamente!
Ringrazio Andrea Rossetti per le sue repliche: sono d'accordo che il nostro
"modello" di sviluppo non sia esportabile, ma credo che sia anche poco
"sostenibile" perché si basa su una divaricazione quasi programmatica tra
etica-estetica ed economia-tecnologia. E' lo scollamento tra questi aspetti
che sta alla radice di molti disadattamenti (crisi): individuale,urbano,
ambientale. L'estensione dei diritti fondamentali pone un problema
formidabile: quali sono questi diritti? Estendere a tutti i terrestri i
diritti di consumare (che parola tremenda!) quanto gli Stati Uniti
significherebbe la morte sicura dell'umanità. Ma, si obietterà, anche gli
altri hanno diritto di godere dell'abbondanza di cui abbiamo goduto e
godiamo noi. No: non esiste un teorema del genere, che assicuri un
benessere materiale crescente per un numero crescente e pìotenzialmente
illimitato di persone. La storia è irreversibile è caratterizzata dalla
freccia del tempo: chi è arrivato prima a sedersi al tavolo dell'abbondanza
è stato fortunato. Chi tardi arriva male alloggia. Le generazioni future
hanno torto perché sono assenti. Può darsi che la cuccagna finisca, chi ha
avuto ha avuto, ora spegniamo le luci e ce ne andiamo.
Come sono cinico! Ma la storia è ancora più cinica. Forse il nostro
benessere è solo una fluttuazione statistica destinata a riassorbirsi:
mettendoci in quest'ottica sapremo affrontare meglio la penuria che forse
ci colpirà...
L'accostamento tra tecnologi e cartomanti era fatto considerando le
aspettative dell'utente: volevo dire che pur di farsi cullare da attese
miracolistiche molti ricorrono senza andar troppo per il sottile a chi
promette i miracoli: quanti venditori e piazzisti imbrogliano il prossimo
pur non essendo cartomanti! Tecnologi e cartomanti: non conosco
direttamente questi ultimi, ma conosco molti dei primi. Non sempre lavorano
per il "bene" dell'umanità. Spesso seguono l'impulso ormonale alla ricerca
e all'innovazione e il miglioramento del mondo non li tocca. A volte
seguono solo l'impulso ormonale al profitto. Non tutti sono così, certo,
conosco uomini (e donne) esemplari per generosità e senso etico anche fra i
tecnologi.
Intelligenza connettiva: no, non mi pare, almeno non è questa la mia
intenzione, che considerare l'intelligenza come un fenomeno comunicativo
comporti ridurla a un insieme di algoritmi. In effetti non mi pare di aver
parlato di "un insieme di relazioni organizzate", espressione che può dare
un'impressione algoritmica, finitistica e discreta. La difficoltà, credo,
sta nella definizione di intelligenza, che non è data (e forse non si può
dare) in termini precisi. Sono convinto, ma non lo posso dimostrare, che
ogni forma d'intelligenza è legata al suo supporto e alla sua storia.
Questo legame è molto intimo per l'intelligenza umana, che non si può
trasferire (come pretende il funzionalismo) su un altro supporto senza
perdere molte delle sue caratteristiche (per esempio il fondamentale legame
tra il corpo e il resto del mondo). In altri casi questo legame è più
debole: posso trasferire un'intelligenza di tipo algoritmico (ammesso che
esista) da un calcolatore a un altro senza che ciò comporti gravi
distorsioni. Sono convinto anche che l'intelligenza umana nonsia del tutto
algoritmica (e non mi si chieda: che cos'altro potrebbe essere? perché la
risposta viene implicitamente richiesta in termini algoritmici).
L'ipotetica intelligenza di Internet sarebbe certo condizionata dal
supporto, ma la presenza nel supporto delle componenti umane le impedirebbe
di essere del tutto algoritmica: certo, sarebbe aliena, ma non
"completamente" se questo avverbio significa l'impossibilità di interazine
comunicativa. Del resto anche con quelle macchine stupidissime che sono i
calcolatori attuali noi riusciamo a comunicare nonostante la grande
differenza delle nostre "intelligenze". So di essermi spiegato male, ma su
richiesta posso rinviare a un po' di bibliografia.
Grazie a Matteo Merzagora per averci richiamato a Collins e Pinch.
Considero il loro un contributo importante: hanno saputo portare chiarezza
nel delicato rapporto tra scienza, tecnologia e vita quotidiana mettendone
in luce le complessità, mentre tanti lo intorbidano cercando di
semplificarlo.
Sono ancora in debito:
- esplicitamente con Sylvie Coyaud (i suoi quiz!...), con Margherita
Bologna e con Giovanni Maria Borrello
- e implicitamente con tutti: non salderò mai questo debito...
Parentesi (finale per oggi): mi scuso per la prolissità, per gli errori di
battitura e per le stupidaggini. Non tutto è da imputare al mio Macintosh.
41 From: vittorio bertolini <vittorio.bertolini@t...>
Date: Thu Feb 13, 2003 6:29pm
Subject: riflessionwe su merzagora
Nessuno, nemmeno il tecnofilo Rossetti, crede la scienza e la tecnologia
siano fallibili. Non c'è scienziato oggi che voglia rifarsi alla teoria del
flogisto. E il disastro di Chernobyl, anche se prima facie è un errore
tecnologico, è più da addebitare alla mancanza di controllo del rischio. Nel
medesimo periodo si è verificato qualcosa di analogo a Long Island e le
conseguenze sono state infinitamente inferiori. Credo però che il prof. Longo
non si voglia riferire tanto alla scienza normale o alla tecnologia normale,
nel senso di Kuhn, il cui buon funzionamento dipendono dal sistema
socio-economico in cui operano. Sono le nuove tecnologie della vita, comprese
quelle informatiche che simulano alcune facoltà umana (sul supplemeto scienze
del corriere di questa settimana vi è la notizia che in una università amricana
è in progetto un umanoide che riesce a capire alcuni sentimenti umani, la
tristezza ecc.). Siamo di fronte perciò a una una svolta nel percorso
dell'evoluzione umana. Ed è su questo che si misura la responsabilità dello
scienziato. E visto che domani è San Valentino, può darsi che il nuovo golem
abbia la forma accattivante di .....
.
42 From: Giuseppe Belleri <bellegi@i...>
Date: Thu Feb 13, 2003 7:46pm
Subject: Re: Caro prof. Longo
----- Original Message -----
From: "Matteo Merzagora" <merzagora@l...>
Stimolato dall'intervento di Bucchi, vorrei contribuire riportando un passo
dall'introduzione de "Il golem tecnologico", di Harry Collins e Trevor
Pinch, Edizioni di Comunità, 1998...omissis...
"Ma c'è anche qualcosa di poco chiaro in questo ragionamento. [...]
Se è vero che la tecnologia è il
sostegno della scienza, perché i fallimenti della tecnologia, quali la
fusione del nocciolo a Chernobyl o l'esplosione della navetta spaziale
americana, non sono considerati fallimenti della scienza? Dalla discussione
sull'affidabilità della tecnologia deriva una clausola di "sconfitta non
ammessa": Chernobyl e lo Shuttle possono servire a verificare la scienza se
funzionano correttamente, ma non possono danneggiarla se non funzionano. La
clausola si rafforza ulteriormente in quanto i fallimenti della tecnologia
sono presentati come fallimenti dell'organizzazione umana, e non della
scienza.
Quando la scienza sembra poco sicura, la tecnologia è citata in sua difesa,
e quando la tecnologia sembra poco sicura, la scienza è chiamata in
soccorso; la responsabilità viene passata da una parte all'altra come la
proverbiale patata bollente. Se poi la patata cade, si dice sempre che sono
gli esseri umani ad averla fatta cadere."
--------
Mi pare che dagli interventi di Lanfranchi, Bertolini e da questa citazione
emerga con nettezza l'antica e perenne divaricazione tra tecnica-pragmatica
fallibile e scienza teorico-astratta tendenzialmente inconfutabile.
L'atteggiamento nei confronti dell'errore mi pare la cartina di tornasole di
tale distinzione culturale. E' chiaro che per una scienza "esatta",
incontrovertibile, onni-scente e potente, acontestuale e astorica,
deterministica, ispirata agli ideali di certezza, prevedibilità e controllo
ordinato dei fenomeni, l'errore è semplicemente inammissibile se non
impensabile. E', appunto, nient'altro che un'accidente, un'evento fortuito,
un caso, un'eccezione alla regola, frutto di distrazione e indolenza umana.
D'altra parte se non si ha una precisa teoria sul funzionamento di un
artefatto umano o di un sistema complesso - come una navicella spaziale -
come si può prevedere che tutto andrà sempre liscio come l'olio,
o in alternativa il disastro?
Quindi l'errore e il limite sono semplicemente da mettere nel
conto delle possibilità, data la provvisorietà dei nostri modelli
semplificati del mondo. Semplicemente la tecnica ammette e sfrutta l'errore,
senza scandalizzarsi troppo e facendone, al contrario, tesoro e
insegnamento, esattamente com'e' accaduto per millenni a coloro che erano
costretti ad esercitavare un sapere pratico-indiziario, nelle foreste e nei
deserti, per adattarsi e sopravvivere! In questo senso la tecnica è assai
meno supponente e presuntuosa della scienza "esatta", che per difendere
un'immagine aulica di se' ricostruisce a postriori la propria storia di progresso
lineare, espellendo ed esorcizzando incertezze, caos e contingenze.
Non e' un caso, infine, che ai medici tocchi pagare un conto così salato
per aver scotomizzato da troppi anni i propri errori-limiti,
baldanzosamente occultati nell'ottimistica convinzione che l'aura di scienza
"esatta" li avrebbe per sempre celati alla vista dei diretti interessati.
Nell'odierna "persecuzione" giudiziaria dell'errore medico - autentica
pandemia
che dilaga nell'occidente - si svela un altro aspetto della nemesi medica.
Cordiali saluti a tutti
G.Belleri
Flero (BS)
43 From: Corrado Del Bo' <delbo@f...>
Date: Thu Feb 13, 2003 8:21pm
Subject: Re: terza replica
On 13 Feb 2003 at 18:27, longo@u... wrote:
> Sollecitato dal punto 7 di Lanfranchi, apro una
> parentesi sulla democrazia: sono sempre più incerto, le mie idee sulla
> democrazia sono sempre più confuse, non so come rimediare a questo
> sgretolamento progressivo non di certezze (non credo di aver mai avuto
> certezze, men che meno sulla democrazia) ma di capacità empiriche
> d'uso e di riconoscimento... Chi mi aiuta?
(...)
> Sulla democraticità della scienza, Alphonse Vajo ha ragione: ma quello
> che intendo dire è che se il metodo scientifico, in linea di
> principio, è democratico perché non si nega a nessuno, tuttavia in
> pratica pochi possono praticare la scienza, così come pochi possono
> praticare l'atletica: occorrono muscoli, allenamento, scarpette e
> giubbini adatti, e non tutti posseggono questo corredo. Tutti possiamo
> fare scienza a livello di dilettanti, ma qui si parla d'altro. La
> situazione diventa ancora più asimmetrica quando la scienza esce dalla
> portata dell'individuo per riguardare gruppi e squadre ben attrezzati
> e finanziati. E' un'ulteriore forma di delega tecnologica e
> specialistica, che mette ancora di più in crisi la nozione ingenua di
> democrazia.
Abbandono per qualche minuto il ruolo di conduttore (che non conduce,
perche' vi conducete benissimo da soli:-)) per porre l'accento su due
punti relativi alla democrazia, in parte peraltro gia' sfiorati.
1 Parlare di democrazia oggi equivale a parlare di democrazie
liberali. Quando parliamo di democrazia, del resto, infiliamo nei
nostri discorsi qualcosa di piu' di quelle che sono le
caratteristiche definienti la democrazia, ovvero un particolare
metodo di decisione (la regola di maggioranza) e un particolare
soggetto decisore (il popolo o qualcosa di simile). Facciamo infatti
spesso riferimento a valori che sono, in senso stretto, liberali
(liberta', divisione dei poteri, stato di diritto e cosi' via). Siamo
giustificati certo a farlo dalla nostra storia, di cittadini e
cittadine di regimi liberaldemocratici. Ma la questione della
democraticita' di qualcosa (nello specifico, della scienza) e'
allora, per cosi' dire, la questione della sua liberaldemocraticita'.
E, forse, dei due termini che formano il lemma *liberaldemocrazia* e'
il primo piu' che il secondo a informare le nostre preoccupazioni
democratiche.
Scienza e democrazia: in che senso chiedersi se la scienza è
democratica |
Torna all'inizio |
2 Quando ci chiediamo se la scienza e' democratica, non sono sicuro
che sia in gioco la questione delle modalita' del suo funzionamento
interno (come produce i suoi risultati e come li verifica/falsifica).
Mi sembra piuttosto che il punto rilevante sia la questione di come
la scienza e gli scienziati si integrano all'interno del sistema
liberaldemocratico (come si rapportano agli altri poteri - politici,
economici, ecc. -, come condividono i risultati, come sono
incastonati all'interno del sistema e via dicendo). Esattamente come
la liberaldemocraticita' di un esercito non la misuriamo dal metodo
con cui le decisioni operative vengono prese, ma dal grado di
fedelta' alle istituzioni.
Corrado Del Bo'
44 From: Alessandra Grazia <agrazia@o...>
Date: Thu Feb 13, 2003 9:09pm
Subject: Re: (unknown)
Scusatemi se questo non è un intervento di contenuti, ma devo proprio dirlo:
questo forum è bellissimo! E' entusiasmante, intelligente! Insomma... va bene,
vengo al dunque :)
Professor Longo: grazie!
(a dispetto del bisticcio col mio cognome :)
Il Suo intervento in cui ha risposto alla mia domanda sulla retroazione rivela
una capacità di ascolto e un'umiltà scientifica invidiabili. Il discorso
sull'"odio e amore" nei confronti della tecnologia una spontaneità nel parlare
di sé che... ce ne fossero di accademici come Lei!
Alessandra Grazia
ps - che cos'è la citazione con cui si chiudeva il suo primo intervento e
l'altra di quello odierno?
~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~
Dr.ssa Alessandra Grazia
~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~
45 From: guido1936@i...
Date: Thu Feb 13, 2003 9:53pm
Subject: Perchè "animismo"?
Ringrazio con molta cordialità e gratitudine il Professor Longo per le
spiegazioni che ha fornito su "caso" e "libero arbitrio" per quanto riguarda i
sistemi complessi. A proposito del mio accenno all'"animismo", non so se
riuscirò a spiegarmi: intendevo dire che, se gran parte delle entità (i
cosiddetti sistemi complessi, fra cui gli esseri viventi e molti raggruppamenti
degli stessi) sono dotate di mente, o sono menti, le possiamo considerare
"animate" o - mi perdoni l'espressione impropria - dotate di anima. Del resto
era il pensiero di gran parte delle culture umane. Forse è vero che
le tradizioni medio-orientali e poi il cartesianesimo hanno "tolto l'anima al
mondo" (Hillmann). Guido
46 From: Leone Montagnini <leonemontagnini@k...>
Date: Fri Feb 14, 2003 1:39am
Subject: Sul genere prossimo e la differenza specifica
Roma, 14 gennaio 2003
"Tutti gli ateniesi infatti e gli stranieri colà residenti non avevano
passatempo più gradito che parlare e sentir parlare" (Atti 17, 21). Non è
facile, 20 secoli dopo, riuscire ancora a trovare la gioia del dialogo e mi
condivido i sentimenti di chi trovano bello questo forum.
"Non il Dio di Heidegger, ma solo una catastrofe economica ci
potrà salvare": il pessimismo di Longo |
Torna all'inizio |
Non avevo letto la prima risposta del caro prof. Longo quando ho parlato di
un suo ottimismo. Infatti lì ci diceva: "il biota si assesterà su altri
livelli di equilibrio, ma può darsi che il nuovo equilibrio non contempli
più la presenza di questo catastrofico Homo sapiens". "Io, forse più cinico
[di Heidegger che implorava un Dio che ci potrà salvare], dico che solo una
catastrofe economica ci può salvare dalla catastrofe tout court. Dovrebbero
mancare i soldi: la gran macchina dell'apparato rallenterebbe subito, e
avremmo il tempo e il modo di pensare. Molte cose che oggi ci sembrano
gratuite riacquisterebbero il loro valore in termini di fatica, di lavoro
investito, di risorse naturali". Questo è il Rousseau che auspicava il
ritorno alla natura, ben sapendo che la proposta era ben poco proponibile
già ai giorni suoi (e ripiegò sul Contrat social e sull'Emile due progetti
per correggere l'uomo che la civiltà corrompe).
Se l'avessi letta prima forse non avrei parlato di ottimismo tecnologico, ma
forse è stato meglio così. Perché tutto sommato, mi sembra e naturalmente
posso sbagliarmi del tutto, che nelle sue parole questo pessimismo conviva
con quel vasto afflato che ha raggiunto l'acme negli anni Novanta e che ha
visto nelle tecnologie informatiche e in Internet in particolare un'
occasione di palingenesi.
E' necessario che continuiamo a pensare. Perc questo è necessaria la
scienza. Se le macchine ci aiuteranno in questo ben venga, non lo temo.
Nella sua autobiografia Simon racconta del suo suo entusiasmo nello scrivere
a Russell di aver fatto dimostrare ad un computer alcuni teoremi dei
Principia. Condivido quell'entusiasmo. Ma c'è bisogno di "curiositas", che
in latino significa sia "curiosità" che "la preoccupazione di chi si prende
cura". E alla radice della curiositas c'è il "cur" e la "cura", il perché e
la preoccupazione (Heidegger si sbagliava: si può fare filosofia non solo in
tedesco ma anche in latino).
C'è un problema che mi affligge da tanto tempo: non sopporto che si insista
sui salti senza guardare alle continuità. Qualche esempio. Verso la fine
degli anni Ottanta, quando si cominciò a parlare di globalizzazione (il boom
di questa parola poi ci fu sulla metà dei Novanta), sentivo che mi saliva il
sangue al cervello. "Il mondo si va globalizzando" gracchiavano i media: ma
perché - mi chiedevo - prima non era globale? Poco dopo che Colombo ebbe
scoperto l'America, i commerci arabi che in parte per terra in parte per
mare garantivano i collegamenti tra Europa, India e Cina attraverso penisola
arabica e oceano indiano entrarono in crisi. Si trattò di una crisi lenta e
inesorabile. Un evento che era accaduto dall'altra parte del pianeta aveva
sconvolto la loro economia e non sapevano spiegarsi perché. Era cambiato il
sistema mondiale del commercio e ora ne pagavano le conseguenze. La terra
era globale anche allora o no? Certamente i tempi di reazione erano più
lenti ma c'era globalità anche allora. Ma la globalizzazione attuale non è
solo questione di tempi. Le due guerre "mondiali" non erano state
sufficientemente globali in questo senso? Invece hanno voluto convincerci a
tutti i costi che solo col crollo del muro di Berlino il mondo è diventato
globale. A veder bene una realtà specifica la globalizzazione attuale ce l'
ha, ma va compresa sul metro della globalizzazione preesistente.
Aristotele diceva che le definizioni vanno fatte per genere prossimo e
differenza specifica. Vuoi sapere cosa sia un uomo? Ebbene esso è un animale
(genere prossimo), detto questo possiamo interrogarci sulle differenze
specifiche (Aristotele aggiungeva che è in particolare un animale che parla
o che ragiona, a seconda delle traduzioni). Così facendo, il fenomeno "uomo"
non appare più come un apax, incomprensibie perché incomparabile. Nemmeno ci
viene più da contrapporre uomo ed animali, opposizione che non ci fa capire
niente né del primo né dei secondi. Mettiamoci in pace con la coscienza: l'
uomo è un animale (genere prossimo) si tratta poi di spiegare come un
animale possa essere giunto ad avere tutte quelle belle caratteristiche
spirituali che ha l'uomo.
Se vuoi sapere cosa sta accadendo di nuovo cerca prima gli
aspetti di continuità |
Torna all'inizio |
Mi è sempre sembrato che questo principio oggi possa avere un'importante
valenza euristica e critica soprattutto sul piano diacronico quando ci
vogliono propinare dosi di nuovismo contraffatto: se vuoi sapere cosa sta
accadendo di nuovo (la differenza specifica) cerca prima gli aspetti di
continuità (il genere prossimo).
Preciso, non c'è qui nessuna critica diretta a Giuseppe O. Longo, persona
che stimo altamente. Voglio solo cercare di rappresentare il mio stato
mentale di fronte alle cose che sento dire da lui e da molti altri su
simbionti, reti telematiche, rivoluzione digitale ecc. Anche qui mi viene da
dire: cerchiamo prima il genere prossimo, la continuità, poi potremo
valutare l'effettiva dose di novità e la specificità di questa novità. Vi
sono naturalmente anche coloro che si fissano sulla continuità e si ostinano
a negare differenze specifiche, come quei filosofi o sociologi che non
sopportano si parli di postmodernità e postindustriale.
Applicando questo mio atteggiamento alla questione della tecnica si potrebbe
osservare che l'uomo è per essenza (genere prossimo) un animale tecnico. Gli
studiosi di preistoria hanno ricostruito la storia della nostra specie
attraverso le punte di lancia ritrovate. Non ci sembra un po' umano lo
scimpanzè soprattutto quando osserviamo che riesce a inventare il sistema
per mangiare formiche introducendo un bastoncino in un formicaio?
Non ha senso perciò insistere come hanno fatto per almeno due secoli i filosofi
tedeschi sul fatto che la tecnica corrompa l'uomo: l'uomo nemmeno sarebbe
uomo senza la tecnica (Il dubbio che nell'ostilità verso la tecnica vi siano
sentimenti aristocratici permane: ai nobili fino all'800 era proibito
persino nella civile Toscana di fare lavori con le mani).
E proprio perché l'uomo è un animale tecnico, la tecnica modifica
costantemente l'antropologia. Qui tra l'altro c'è una profonda intuizione di
Longo, che insiste - in una sorta di neokantismo tecnologico - sulla
mutazione che le stesse forme pure a priori attraverso cui l'uomo
costituisce il proprio mondo subiscono col mutare della tecnologia.
E giungiamo così al rapporto scienza-tecnica. Scienza e tecnica vivono da
sempre in rapporto simbiotico e inseparabile: si sono coevolute. Non
fidiamoci troppo delle rappresentazioni che della scienza hanno dato
filosofi come Cartesio. Galilei aveva di sicuro i calli alle mani perché
molava le lenti dei propri cannocchiali e piallava il piano inclinato per il
noto esperimento sulla caduta dei gravi. Contemporaneamente andava all'
università, commentava ed emendava da bravo filologo i testi di Archimede,
Aristotele, dei commentatori arabi di Aristotele, dimostrava teoremi. Era
insieme uno scienziato teoretico e uno scienziato pratico, e solo così
poteva leggere "il gran LIBRO della natura". Lo stesso può dirsi di Newton.
Dubito che l'ideale cartesiano di una scienza tutta a tavolino abbia mai
prodotto molta scienza, nemmeno all'epoca dei greci. Entro questa cornice si
tratta di capire oggi cosa sia successo alla scienza nell'epoca delle
tecnologie dell'informazione.
Ho un diploma di perito nucleare (60/60) e due lauree: una in filosofia e
una in sociologia. Sulla riflessione su queste cose, cari amici del forum,
ho investito buona della mia vita, perché ritengo che qui ci sia del
"considerevole", come avrebbe detto Heidegger. Vi prego di cogliere in
queste mie parole lo sforzo di uno che cerca di pensare liberamente e con
passione a problemi che ci riguardano.
Grazie per l'attenzione
Leone Montagnini
leonemontagnini@k...
47 From: Dr. Saro Cola <sarocola@m...>
Date: Fri Feb 14, 2003 3:07am
Subject: Re: seminario FGB
>Quanto al calcolo del rischio: supponiamo che la probablità di un incidente
>grave (lasciando da parte le conseguenze) sia di un miliardesimo. In
>termini pratici, ciò significa che se costruiamo un miliardo di centrali di
>quel tipo, c'è una probabilità assai elevata (diciamo prossima a uno) che
>prima o poi una di esse abbia un incidente grave. Bene, rassicurati da
>questo calcolo, cominciamo a costruire le nostre centrali: costruiamo la
>prima, poi la seconda... la prima entra in funzione e dopo un po'
>l'incidente grave si presenta propio nella prima centrale che abbiamo
>costruito. A posteriori il calcolo del rischio subisce un ridimensionamento
>drastico... Chi mi trova un difetto in questo ragionamento?
Facile. E' la classica obiezione al calcolo delle probabilità usato a fini
predittivi : non si tiene conto del fatto che l'evento di cui si calcola la
probabilità si può presentare subito.
Io ho una probabilità di vita diciamo di ottant'anni ..... e schiatto domani.
Come mai? Strano? Per niente strano : nessuno mi assicura che l'evento negativo
si verifichi in fondo alla linea temporale ... Mi possono solo ...
'assicurare' (in un altgro senso)che una volta morto prenderò un sacco di soldi
e in tale evenienza ci perderebbe l'assicurazione che in mancanza di qualcosa
di meglio (e c' è di meglio) ha dovuto fidarsi di quel calcolo di probabilità
sul mio decesso . Quel di meglio è qualcosa di molto allettante per le
assicurazioni, mma è un 'frutto proibito ' .
Ma il calcolo delle probabilità rimane egualmente sensatissimo. solo che va
usato nella dovuta maniera. Il calcolo statistico non comprende la dimensione
del 'tempo' (cioè il 'quando' : ovviamente però la può ridimensionare nelle sue
dimensioni di calcolo, cioè introducendo una ponderazione dell' indice di
probabilità quando è il caso) . E' sensato mai in assoluto , ma sempre in
termini relativi. inoltre paragoniamo due (meglio se piu)calcoli statistici e
qualcosa ne caviamo fuori. Anche se a fini previsionali bisogna andarci cauti .
Il calcolo del rischio non serve a prevedere , ma solo a farci prendere
convenzionalmente delle decisioni . Convenzionalmente . . E così possiamo
argomentare una decisione presa in base a un determinato calcolo delle
probabilità di rischio ha maggior ragione d'essere rispetto a un'altra. E' un
bastone d'appoggio nel procedere nel buio dell'incertezza , niente di più.
L'essere umano ne ha molti di questi bastoni. Forse servono. Forse no. Chi può
dirlo .
<<La vita continua: fa sempre così, fin quando non lo fa più.>>
da dove ho preso questa frase ?
Saro cola
--
Dr. Saro Cola
ML 1
sarocola@m...
48 From: Andrea Rossetti <andrea.rossetti@u...>
Date: Fri Feb 14, 2003 2:29pm
Subject: Re: Domanda per Andrea Rossetti
At 14:25 +0100 12-02-2003, Margherita Bologna ha scritto:
>Quando Lei si chiede se il criterio di maggioranza piò essere uno
>strumento "razionale" per il controllo dell'uso della tecnica che
>significato attribuisce a questo termine?
>In quanto filosofo (del diritto) condivide l'analisi del concetto di
>razionalità esplicata nella breve citazione del libro del prof.
>Gargani Crisi della ragione che il prof. Longo riporta nella sua
>relazione? (paragrafo:di fronte alla tecnologia)
Gentile Margherita,
mi perdoni il ritardo nella risposta, ma ho cercato il libro di
Gargani in biblioteca per leggere la citazione nel suo contesto.
purtroppo, non l'ho trovato: nelle nuove universita' le biblioteche
sono davvero carent :(
mi sono anche domandato se risponderle in privato, o se la risposta
potesse interessare anche gli altri partecipanti al forum. credo di
si', penso che la mia risposta possa servire a chiare la mia
posizione di "tecnofilo" (ora temo che non riusciro' piu' a togliermi
questa etichetta :))
per maggiore chiarezza riporto qui di seguito la citazione da lei indicata:
"La razionalità classica si è presentata per alcune centinaia di anni
con i connotati di una struttura naturale, necessitante e
aprioristica [...] La crisi di quella razionalità si è originata
dalla consapevolezza che quella razionalità non è una natura [...]
La struttura socio-economica della nostra civiltà ha generato un
sistema di astrazioni e di generalità che riflettono una
costellazione di poteri e di funzioni del dominio. Anziché essere una
natura, quella razionalità si è rivelata, sotto la spinta dei bisogni
della nostra vita una "crosta sottile e precaria" che nasconde un
codice di norme convenzionali, un sistema di divieti e proibizioni
imposti dai gruppi sociali dominanti nei termini di una ragione
naturale e normale." Aldo Giorgio Gargani (ed.), *Crisi della ragione*, 1979.
credo che, cosi' com'e' formulata, la tesi di Gargani risenta molto
del tempo in cui e' stata scritta. io la riformulerei con un
linguaggio diverso: esistono giochi linguistici diversi, ciascuno con
le sue regole di derivazione, con la sua logica, che definiscono
diverse razionalita', che, a loro volta, connotano diverse "forme di
vita" ("i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo"). il
ricoscimento del valore e l'interesse, da parte di noi occidentali,
per tutte le forme di pensiero credo sia testimoniata dall'esistenza
di una disciplina nata appositamente per studiare l'alterita':
l'antropologia culturale.
se dovessi individuare il tratto caratteristico della particolare
forma di vita che e' la cultura occidentale, lo individuerei,come
molti, nella razionalita' tecnica. ma non credo che la tecnica sia
una malattia della nostra cultura; credo, al contrario, che ne sia la
sua piu' significativa espressione. oggi siamo, probabilmente, giunti
a un punto da cui riusciamo a vedere i limiti i questa forma di
razionalita' (e quindi i limiti del nostro mondo, del nostro modo di
vivere). ma, proprio per la sua natura la razionlita' tecnica, e' in
grado di modificarsi, di evolvere. mi sembra che i discorsi di Longo
vadano proprio in questa direzione: la scienza e la tecnica hanno
bisogno di regole nuove ed eteronome (ossia, (im)poste dall'esterno
del paradigma tecno-scientifco e sulle quali tutti possiamo
discutere), ma non si puo' negare ne' il valore ne' la funzione che
hanno avuto nella nostra societa' e, piu' profondamente, nella nostra
cultura.
credo non si debba dimenticare che proprio la razionalita' tecnica ha
dato vita ad un'idea alla quale non penso si possa rinunciare a cuor
leggero, a cui, anzi, io credo non si debba rinunciare: l'idea di
diritto naturale soggettivo, ossia l'idea che un essere umano, solo
perche' essere umano, indipendentemente da qualunque altra
specificazione, e' portare di diritti che sono inalienabili. come
studioso di filosofia del diritto mi rendo conto della difficolta'
logica ed ontologica di fondare i diritti fondamentali; ma credo che
essi debbano essere quantomeno un'idea regolativa nella riflessione
sul mondo che *deve* aspettarci.
AR
ps tra le molteplici e notevoli qualita' del prof. Longo, mi preme
rimarcare anche questa: e' un utente macintosh; e, come tutti sanno,
i mac sono i computer preferiti da noi tecnofili :)
49 From: Alessandra Grazia <agrazia@o...>
Date: Fri Feb 14, 2003 4:09pm
Subject: Re: Domanda per Andrea Rossetti
Mi permetto di esprimermi in merito alla risposta che il dottor Rossetti ha
dato alla dottoressa Bologna.
A me la domanda di Margherita Bologna era sembrata intenzionalmente penetrante,
cioè intendeva sollecitare ad Andrea Rossetti una risposta riguardo a un
disvelamento del diritto. Voglio dire che la domanda sul criterio di
maggioranza e la lettura che io, da ignorante, ho fatto della frase di Gargani
mi spingono a pensare che l'intenzione fosse di rimarcare come (lo dico con le
mie parole):
la razionalità classica sia stata disvelata nella sua natura di spiegazione
sovrastrutturale della struttura socio-economica della nostra civiltà
tale spiegazione sia una emanazione di strutture del potere e del dominio
il potere venga esercitato proprio facendo passare i suoi codici di dominio
come "naturali" e "normali".
Mi sembra invece che Andrea Rossetti abbia eluso la questione.
Quanto ho qui detto è solo una mia impressione e, peggio ancora, è fondato
sulla mia presunzione di aver interpretato che cosa effettivamente Margherita
Bologna voleva dire e voleva sapere da Andrea Rossetti. E' evidente che la
persona più indicata per esprimersi è la stessa Bologna e mi scuso in anticipo
con Rossetti se non ho compreso la sua risposta.
Un saluto a tutti i partecipanti al Forum da
Alessandra Grazia
----- Original Message -----
From: Andrea Rossetti <andrea.rossetti@u...>
Date: Fri, 14 Feb 2003 14:29:27 +0100
To: fgb-forum@yahoogroups.com
Subject: Re: [fgb-forum] Domanda per Andrea Rossetti
~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~
Dr.ssa Alessandra Grazia
~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~
50 From: Andrea Rossetti <andrea.rossetti@u...>
Date: Fri Feb 14, 2003 4:52pm
Subject: Re: Domanda per Andrea Rossetti
At 16:09 +0100 14-02-2003, Alessandra Grazia ha scritto:
> Mi permetto di esprimermi in merito alla risposta che il dottor
>Rossetti ha dato alla dottoressa Bologna.
>
>A me la domanda di Margherita Bologna era sembrata intenzionalmente
>penetrante, cioè intendeva sollecitare ad Andrea Rossetti una
>risposta riguardo a un disvelamento del diritto. Voglio dire che la
>domanda sul criterio di maggioranza e la lettura che io, da
>ignorante, ho fatto della frase di Gargani mi spingono a pensare che
>l'intenzione fosse di rimarcare come (lo dico con le mie parole):
>
>la razionalità classica sia stata disvelata nella sua natura di
>spiegazione sovrastrutturale della struttura socio-economica della
>nostra civiltà
>
>tale spiegazione sia una emanazione di strutture del potere e del dominio
>
>il potere venga esercitato proprio facendo passare i suoi codici di
>dominio come "naturali" e "normali".
la mia riscrittura in termini wittgensteiniani, in effetti, se non
eludeva, certamente sottaceva questa tesi: infatti, questa tesi e'
quella che, secondo
me, risente piu' pesantemente dei tempi in cui e' stata scritta
(tempi in cui, tanto per fare un esempio, la facolta' di filosofia in
cui io ho studiato, quella di pavia, era soprannominata "facolta' Ho
Cimin").
se proprio dovessi stabilire una relazione causale tra ragione e
produzione, credo che, dal punto di vista euristico, sia piu'
interessante un'inversione tra causa ed effetto: v'e' sicuramente un
legame tra razionalita' illuministica e l'organizzazione del lavoro
nell'ottocento. ma, anche se il paradigma struttura/sovrastruttura
fosse ancora applicabile all'attuale sistema produttivo, non credo vi
sia (ne' vi sia mai stata) una relazione di causa/effetto tra i due
termini del paradigma: nella cose e negli eventi non v'e' una logica
implicita.
inoltre, io credo che se il linguaggio da una parte e' l'espressione
del potere o meglio, per usare i termini del paradigma che stiamo
utilizzando, e' espressione della classe dominante, e' anche il
veicolo e lo strumento delle rivoluzioni.
AR
ps provate a leggere la "storia del pensiero scientifico e
filosofico" di geymonat, scritta in quegli anni; davvero vorreste che
vostro figlio studiasse la storia della scienza e della filosofia su
di un testo cosi'?
51 From: guido1936@i...
Date: Fri Feb 14, 2003 5:02pm
Subject: Realtà "oggettiva"?
Ho letto in qualche intervento di questo bellissimo forum l'accenno alla fine
della separazione fra res cogitans e res extensa. In altro intervento, era
esposta l'idea della ricerca della "verità" da parte della scienza. Dopo
settant'anni dal principio di indeterminazione e dall'interpretazione di
Copenhagen, e dopo vari sviluppi in cui i concetti di realtà oggettiva e di
certezza perdono significato, il mondo ufficiale continua ad essere
"cartesiano". Perchè? In fondo l'idea della "verità" è molto pericolosa, non
solo nella scienza. Dopotutto, si sta benissimo anche senza alcuna verità o
"realtà oggettiva".
Guido
52 From: longo@u...
Date: Fri Feb 14, 2003 6:50pm
Subject:
14 febbraio 2003, san Valentino
(auguri a tutti, perché tutti furono, sono o saranno innamorati)
Per Saro Cola: l'esempio del tizio che ha una probabilità di vita di
ottant'anni e muore il giorno dopo non è, mi pare, omogeneo al mio: io
ipotizzo la costruzione di un miliardo di centrali identiche (nei limiti
delle possibilità tecniche, identità che si riflette in un'identica
valutazione della probabilità di incidente per tutte le centrali); mentre
del tizio non posso produrre cloni identici: il tizio fa parte di una
popolazione per la quale c'è una statistica basata su un numero enorme di
casi singoli ma assimilabili sullabase degli eventi pregressi; il calcolo
del rischio per le centrali non si basa su una storia, ma sull'attribuzione
di probabilità "a priori". Dice poi Saro Cola che il calcolo del rischio
non serve a prevedere, ma solo a farci prendere "convenzionalmente" delle
decisioni. Francamente è più impegnativo prendere decisioni (pratiche) che
prevedere (in astratto), ma poiché mi sfugge il significato di quel
"convenzionalmente" forse sono del tutto fuori strada.
Nel mio esempio volevo anche significare che l'irrisoria probabilità
attribuita all'incidente di fatto tranquillizza (o vorrebbe
tranquillizzare) il pubblico (e questa è di sicuro una delle intenzioni di
quei calcoli), ma che questa tranquillità riposa su una (semi)falsa
(semi)certezza. In più la probabilità dell'incidente andrebbe sempre
coniugata con la gravità delle sue conseguenze, ma questo è un discorso un
po' diveros, per quanto sia quello davvero importante.
Non ho nulla da obbiettare al calcolo delle probabilità (che trovo una
delle branche più interessanti della matematica), ho molto da obbiettare
invece sui suoi fondamenti: nessuno ha dato una giustificazione davvero
convincente del legame tra il mondo dove accadono le cose, la nostra
aspettazione tinta di speranze e timori e il formalismo della teoria della
misura. Il fatto cruciale che (come acutamente rileva Saro Cola) nella
statistica manchi la dimensione temporale rende questa disciplina per lo
meno sospetta (Einstein di fronte all'evento irreversibile per eccellenza
della morte del suo amico Besso, si ostinava a sostenere, scrivendo alla
vedova: "Per noi che crediamo nella fisica, il passato e il futuro sono
tenaci illusioni"). Le cose del mondo accadono nel tempo: che modello del
mondo può essere quello in cui manca la dimensione tempo? Anche la logica
tradizionale, proprio per la sua assenza del tempo, è un modello inadeguato
di molti fenomeni che pure con la logica tentiamo di descrivere (ad esempi
il funzionamento dei calcolatori). E' vero peraltro che tutto questo
armamentario può essere un bastone d'appoggio utile (lo è certo per le
compagnie di assicurazione...).
Per Guido 1936: l'attribuzione dell'anima a entità complesse è
un'operazione molto frequente. Oggi si prova una sorta di pudore o
riluttanza a parlare di anima (specie a proposito di enti non umani), ma
certo la proiezione psicologica che sta alla base del rapporto che molti
istituiscono con il calcolatore e con oggetti tecnologici anche molto più
semplici (per non parlare del rapporto che ci lega ai nostri animali: il
mio bassotto Alcibiade è per me una vera e propria entità animale, cioè
animata da anima!). Ma questa è una proiezione (abbiamo sempre
l'impressione che dietro lo schermo del macintosh ci sia qualche
intelligenza o anima benevola che ci capisca e ci risponda, no? e si pensi
al programma 'Eliza' di Weizenbaum ecc). Ma oltre la proiezione, c'è,
dal'altr aparte qualcoa di 'reale'? E' il formidabile problema delle "menti
altrui", per dirla nei termini del cognitivismo, che non oso neppure
affrontare (nell'attribuzione o negazione della mente spesso si procede per
affinità o somiglianze esterne, di aspetto o di comportamento o di storia).
Certo è che con la fine dell'animismo (in senso antropologico) l'uomo ha
cominciato a sentirsi a disagio nel mondo, forse perché si sente davvero
solo con i suoi problemi, senza un Altro che sappia capirlo, perdonarlo e,
all'occorrenza, lodarlo (come fanno i nostri genitori: questo, credo, è
l'aspetto più tremendo della condizione dell'orfano, specie dell'orfano
adulto).
Alessandra Grazia ha contribuito a rendere questo seminario meno arido del
temuto, anzi gli ha conferito un'aura speciale, umanissima: sono io che la
rin-grazio! (La prima citazione - non resisto - è tratta da "La gerarchia
di Ackermann", un romanzo che ho pubblicato con Mobydick di Faenza nel
1998; la seonda da un racconto ancora inedito, "Signora Enzi").
Corrado del Bo' merita un ringraziamento particolare, perché con le sue
osservazioni sulla democrazia ha contribuito a fare un po' di luce nella
mia caverna. Tuttavia, proprio le sue precisazioni mi confermano
nell'impressione che "democrazia" sia un termine talmente stanco e fiaccato
che bisognerebbe cominciare a diffidarne. Basta pronunciarlo per far
scattare oscuri meccanismi pavloviani di salivazione viscerogastrica e
mentale. Mi pare che si sia formata oggi una costellazione di termini, come
'solidarismo', 'correttismo', 'antirazzismo', 'antisessismo', 'buonismo'
ecc, al cui centro sta appunto la 'democrazia' (che però non terina in
-ismo: bisognerà dire 'democratismo'), costellazione che ha perduto ogni
legame esplicito con l'origine prima di questi termini e che agisce in modo
arco-riflesso su di noi. L'arco riflesso è un meccanismo (-ismo) primitivo,
degno ma elementare, che andrebbe integrato con l'uso della corteccia (vedi
Leone Montagnini verso la fine del suo intervento del 12 febbraio). Non
saltatemi addosso dicendo che non si spara sulla Croce Rossa o cose del
genere: non si spara sulla Croce Rossa, ma bisoga vedere se sotto la croce
rossa della Croce Rossa non ci sia per caso il vuoto o un tipaccio che ci
voglia fare la festa.
Giuseppe Belleri torna sull'inesausta questione della differenza tra
scienza e tecnica (o tecnologia: è difficile tracciare una distinzione tra
questi due termini; 'tecnologia' domina per l'influenza angloamericana, un
tempo tecnica e tecnologia erano ben distinte: si parla di Politecnico di
Milano o di Ecole Polytechnique, ma si dice Massachusetts Institute of
Technology: lasciamo perdere, che è meglio) che riassume in una maggior
umiltà delle tecnica, pronta a riconoscere i propri errori. Direi che
l'affermazione che la scienza rimuove incertezza, caos e contingenze è un
po' perentoria: di fatto anche la scienza progredisce in base agli errori.
E' veroperò che l'immagine che costruisce di sé è molto forte e la vincola
molto. La tecnologia di sé non costruisce nessuna immagine forte. Per
esempio la scienza rivendica da tempo una purezza di origini che, come la
purezza della razza, fa parte di una mitologia sconfessata dalla storia. In
realtà la scienza quantitativa e matematizzata che oggi appare vincente (ma
forse un po' vacillante) si è distillata in un crogiolo ribollente di
scorie, passioni e credenze dalle quali traeva la sua forza creativa.
Furono le incessanti contaminazioni con impurità che oggi glil scienziati
chiamano con sufficienza errori a far germogliare e fiorire la
straordinaria avventura della scienza. La complessità del mondo non si può
ridurre, eppure oggi consideriamo irrilevanti, o, peggio, risolte una volta
per tutte le domande fondamentali sull'uomo: chi siamo e quale diritto
abbiamo di modificare noi stessi e il mondo. Liquidiamo con alterigia le
religioni, i miti, le superstizioni. Soprattutto, tendiamo a sopprimere i
bisogni che hanno generato e continuano a generare questi saperi
"soccombenti". Le grandi conquiste della scienza, che non mi sogno di
sminuire, svelano un aspetto del mondo, non il mondo nella sua totalità. La
scienza insomma non è mai stata "pura" e meno che mai lo è oggi: inquinata
dalla tecnica e dall'economia, essa si arrende alla cieca egemonia del
mercato. La ricerca non è più l'attività romantica di un tempo: la spinta
della curiosità e l'anelito alla conoscenza sono stati sostituiti da
inesorabili imperativi economici. Allo stesso tempo la frammentazione
specialistica allontana sempre più il sapere dalle persone comuni, e
proprio nel momento in cui tutti avremmo bisogno di comprendere le
trasformazioni sconvolgenti che la tecnoscienza sta operando sul mondo e su
noi stessi.
Quanto mai giuste sono poi le osservazioni di Giuseppe Belleri sullo
statuto (pseudo)scientifico della medicina e sulla nemesi medica.
All'evoluzione della scienza e all'immagine che essa si costruisce di sé fa
riferimento anche Margherita Bologna, con osservazioni quanto mai
pertinenti: il ritorno prepotente del tempo irreversibile e della storia in
una scienza che si era sforzata di espellerli a costo di grandi rimozioni e
di grandi sofferenze. Se dico che il corpo è uno "strumento" non lo dico
certo per sminuirlo, ma al contrario per indicare la sua assoluta
pregnanza: per me la tecnologia (di cui il corpo èil primo e più
fondametale elemento) è costitutiva, non superficiale: i lcorpo è il
filtro, l'interfaccia con la quale siamo collegati con noi stessi e con il
mondo. Il sogno di meccanizzare il pensiero e, soprattutto, di esorcizzare
le misteriose e inquietanti capacità del genio ha segnato tutta l'età
moderna, e ha portato all'invenzione di una serie di estroflessioni
cognitive, più o meno raffinate ma sempre di natura automatica, nel
tentativo di ottenere con un sol colpo di manovella tutte le proposizioni
vere, tutti i risultati esatti, tutti i teoremi dimostrabili.
Ma il colpo di manovella provoca un'alluvione di proposizioni vere tra le
quali il cieco automatismo della macchina non consente di distinguere
quelle insignificanti da quelle davvero importanti. La discriminazione può
essere compiuta solo dagli esseri umani in base alle loro capacità e ai
loro interessi esistenziali: quindi la complessità della persona e lo
spettro del genio, cacciati dalla porta, rientrano dalla finestra.
Il genio, con le sue qualità misteriose e lussureggianti, la sua intuizione
ingiustificabile e le sue creazioni arbitrarie, causa nelle persone comuni
uno sgomento e un timore reverenziale che da un momento all'altro possono
tramutarsi in avversione, odio e furore.
Molti si sentono rassicurati solo se possono seguire l'olimpica e serena
medietà apollinea ed evitare le trasgressioni e gli eccessi dionisiaci del
genio, che rischiano anche di farci uscir di senno. Nessuno deve dare
scandalo, quindi le persone troppo intelligenti vanno represse con un
rimedio "democratico": un dispositivo macchinico unico che, filtrando la
variabilità individuale, anzi sopprimendola, metta tutti sullo stesso
piano.
Rimedio che forse toglie ad alcuni il senso d'inferiorità e li tranquilla,
ma che certo provoca negli altri, nei "sedati", frustrazione e sofferenza
e, da ultimo, rischia di avvilire e atrofizzare l'inventiva loro e quindi
della collettività.
Ma la cosa più curiosa è che alla costruzione di questi strumenti di
contenzione mentale del genio abbiano contribuito anche molti geni: Hobbes,
Leibniz e, in tempi più recenti, von Neumann e Piaget. Come se, in un
eccesso di populismo autolesionistico, il genio avesse voluto abdicare ai
propri (spesso scomodi) privilegi, accettando l'ipotesi riduzionistica che
il pensiero, alla fin fine, sia soltanto calcolo e sia quindi alla portata
di tutti.
Non solo calcolo numerico, certo, anche calcolo sillogistico e quant'altro,
ma insomma: quando l'uomo pensa non fa altro che applicare un certo numero
(piuttosto piccolo) di regole invariabili. Quindi, togliendo di mezzo le
persone, specie quelle geniali, così volubili, bizzarre e sregolate, il
pensiero si può delegare alla macchina, molto più fidata e precisa. Mah,
sarà...
Una nuova scienza, non dogmatica, non conservatrice, attenta alle
trasformazioni, pronta ad apprendere dagli errori, appunto: questo auspicio
di Margherita Bologna è condivisibile. Il punto è che si tratterebbe di
un'altra scienza rispetto a quella che conosciamo, o meglio che si è
autorappresentata finora. Un nuovo paradigma scientifico, memore dei
risultati della meccanica quantistica, dell ateoria dell'informazione,
dell'instabilità dinamica e della lezione delle neuroscienze. Ma questo
paradigma potrebbe essere tanto nuovo e rivoluzionario da configurarsi come
altro dalla scienza, tanto più che nella produzione dei suoi risultati
avrebbero una parte sempre più cospicua le macchine (che, appunto, non sono
"semplici" strumenti). Forse è solo questione di definizioni, di attese e
di emozioni: ciascuno è affezionato alle proprie visioni e alle proprie
tesi: ma condivido la visione di Margherita, che definirei "batesoniana".
Peraltro è vero che gli stereotipi sono duri a morire, come osserva Guido
nel suo ultimo messaggio: sono comodi, economici, posseggono una forte
carica soporifera che evita la fatica di pensare. A volte sono così ben
sostenuti dalle parole che scalzarli (o anche solo individuarli) diventa
difficile. Come si fa a lottare contro il concetto di "Verità (assoluta)"
quando questa parola è così diffusa, così comoda, così semplice? Ed è usata
da ogni sorta di persone: dai fedeli a una religione, agli adepti di
un'ideologia. C'è nei concetti una viscosità, un'inerzia, un'elasticità: le
parole ci portano dove vogliono loro. Ormai è ora di un'autocitazione (da
'La gerarchia di Ackermann'):
C'era nelle parole che pronunciava una forza greve e terrestre,
indipendente da lui e legata alla sintassi, per cui, dopo il primo avvio,
il suo pensiero e la sua volontà non contavano più niente e tutti quei
suoni rotolavano a valle per canaloni tracciati da antichi ghiacciai, con
un frastuono irrimediabile. Le parole non si lasciavano dire, lo portavano
sempre dove volevano loro. E poi, rifletté, abbiamo una sola bocca e le
cose dobbiamo dirle una dopo l'altra, invece là dietro i pensieri corrono
insieme come deboli fiammelle bluastre per i neuroni, le sinapsi a
miliardi, e si affollano per essere detti tutti in una volta. Emergono le
loro schiere da un cratere oscuro, a sciami, angeli o dèmoni, e in quel
loro faticoso brulichio sta la forza nativa delle cose, forse la verità. Ma
per essere detti debbono infilarsi in quello stretto pertugio, e allora
perdono vigore, dimensione, perdono i compagni di viaggio, restano nudi e
parlano d'altro. Le cose non bisognerebbe mai dirle, perché vien fuori
altro e si creano equivoci spaventosi. Con la bocca possiamo dire infinito,
e quella sorta di mareggiata interiore di piccole onde rifratte l'una
contro l'altra il cui asintotico pullulare sembra dirigersi verso il bordo
dell'abisso si manifesta nella forma sorprendente e quasi meschina di un
suono di quattro sillabe, dove non è rimasto niente dell'increspata
vertigine sottostante. Così il confuso balbettio delle parole ci allontana
definitivamente dal volto baluginante, appena visto e dileguato, del
pensiero. Un vasto pianoro innevato che porti i lunghi segni di sciatori
scomparsi...
Molto pregnanti le osservazioni dell'amico Leone Montagnini sulla
continuità/discontinuità e il suo richiamo ('definitio fit per genus
proximum et differentiam specificam') è quanto mai opportuno, perché
smaschera l'ideologia soggiacente ad ogni nostra asserzione: in quel
momento ci preme di più mettere in evidenza la continuità, allora tendiamo
a ignorare i salti, o viceversa. Il fatto è che non si può dire tutto (in
particolare non si può dire tutto nello stesso momento: abbiamo una sola
bocca... Comunque giusto (e si può far filosofia anche in greco, e un
pochino, perché no, anche in francese e in italiano...).
Forse Vittorio Bertolini voleva dire, all'inizio del suo intervento,
"nessuno crede che la sciena e la tecnologia siani infallibili". Ha ragione
quando mi attribuisce un riferimento specifico alle novità dirompenti delle
tecnologie novissime (bio e info), e qui mi perdoni Leone Montagnini se
accentuo la discontinuità: queste tecnologie influiscono anche sulle
categorie kantiane (qualcuno l'ha osservato) e in questo senso parlo di
nuovo stadio dell'evoluzione. E visto che oggi è san Valentino (che per
fortuna mi si è presentato nella consueta deliziosa, ineffabile forma),
chiudo il Macintosh (grazie della complicità, caro Andrea Rossetti) e me ne
vo.
Il resto a domani, ultimo giorno di seminario: peccato, mi ero affezionato,
anzi assuefatto, a questo appuntamento quotidiano con voi, cari amici,
posso chiamarvi così, vero?
Giuseppe O. Longo
53 From: Giuseppe Belleri <bellegi@i...>
Date: Fri Feb 14, 2003 6:57pm
Subject: R: Sul genere prossimo e la differenza specifica
----- Original Message -----
From: Leone Montagnini <leonemontagnini@k...>
> E giungiamo così al rapporto scienza-tecnica. Scienza e tecnica vivono da
> sempre in rapporto simbiotico e inseparabile: si sono coevolute. Non
> fidiamoci troppo delle rappresentazioni che della scienza hanno dato
> filosofi come Cartesio. Galilei aveva di sicuro i calli alle mani perché
> molava le lenti dei propri cannocchiali e piallava il piano inclinato per
il
> noto esperimento sulla caduta dei gravi. Contemporaneamente andava all'
> università, commentava ed emendava da bravo filologo i testi di Archimede,
> Aristotele, dei commentatori arabi di Aristotele, dimostrava teoremi. Era
> insieme uno scienziato teoretico e uno scienziato pratico, e solo così
> poteva leggere "il gran LIBRO della natura". Lo stesso può dirsi di
Newton.
> Dubito che l'ideale cartesiano di una scienza tutta a tavolino abbia mai
> prodotto molta scienza, nemmeno all'epoca dei greci. Entro questa cornice
si
> tratta di capire oggi cosa sia successo alla scienza nell'epoca delle
> tecnologie dell'informazione.
La tecnologia si è emancipata dalla tutela della scienza
"aulica". |
Torna all'inizio |
Non mi pare tuttavia che il prof. Longo ponesse il rapporto tra scienza e
tecnica in termini dicotomici e di reciproca esclusione. Nessuno contesta
che scienza e tecnica da sempre abbiano interagito e si siano sviluppate in
modo direi sinergico: nuovi strumenti tecnici (basta pensare al microscopio
o alla PCR) hanno consentito nuove scoperte, osservazioni e ipotesi
esplicative e, in modo complementare, nuove teorie hanno posto le basi per
progressi tecnici (come diceva, mi pare, Norbert Wiener "non c'e' nulla di
piu' pratico di una buona teoria).
Come governare la transizione verso una società dominata dalla
tecnica? |
Torna all'inizio |
Il problema oggi, se mai, e' la divaricazione e il superamento della tecnica
rispetto alle premesse e spiegazioni razionali sul funzionamento degli
strumenti e dei fenomeni. In sostanza la tecnocologia sembra poter fare
tranquillamente a meno di ipotesi e presupposti teorici, si e' emancipato
dalla tutela della scienza "aulica" ed appare auto-sufficiente, anche da
punto di vista etico-deontologico; cio' muta lo scenario complessivo e i
rapporti di forza tra scienza, tecnica, economia e società, con rischi di
stra-potere e deriva "tecnicistica". Come riequilibrare tale fenomeno
epocale, come "controllare" - nel senso cibernetico del "governo" - la
transizione verso una società dominata dalla tecnica?
Che direbbe lo stagirita?
Cordiali saluti
G.Belleri
Flero (BS)
54 From: paola.zerella@l...
Date: Fri Feb 14, 2003 8:09pm
Subject: "non c'è progresso senza rischi"
"non c'e progresso senza rischi" questa frase ha destato in me, umile
studente, non poca angoscia, potrò anche sembrare una utopica ed arretrata
ambientalista ma quello che mi preoccupa è pensare che magari ogni giorno io
possa essere obbligata a "testare" prodotti tecnologici solo perchè non è
abbastanza forte il sospetto di una loro probabile dannosità. Mi chiedo a cosa
serva discutere di progresso (regresso???) e miracoli tecnologici quando poi
siamo ancora alle prese con problemi come quelli evidenziati dal Dott. Longo ad
es. in merito agli ogm. E' vero che ognuno di noi ha una sua percezione del
rischio, altrimenti non si spiegano quelli che tanto per fare qualcosa vanno a
fare il bugee jumping, ma è anche vero, e voglio sperare di non essere la sola
a pensarlo, che ognuno di noi può e deve poter scegliere se fare o meno il
salto nel vuoto sperando sempre che nulla si rompa e magari non immaginando
nemmeno i rischi della sua operazione.
Personalmente credo che la scelta del rischio debba essere per sua natura
consapevole, soprattutto qundo afferisce alla persona e al suo benessere e non
mi emoziona l'idea di fare da pseudo cavia!
Come anche Marta Mura ha sottolineato forse chi di dovere potrebbe preoccuparsi
di salvaguardare noi, non eletti scienziati, da questi pericoli non
indifferenti.
Qui a mio avviso diventa rilevante il ruolo della democrazia nelle nostre
civiltà moderne, credo che dovremmo essere informati dei rischi che possiamo
correre per e solo dopo potremmo scegliere realmente e consapevolmente se il
rischio che ci si prospetta è "meno peggio" dei vantaggi che potremmo avere,
tanto per rimanere in tema con i precedenti interventi, gli astronauti
americani credo fossero al corrente dei rischi, anche se solo eventuali, della
missione e li avessero scientemente accettati.
per concludere, forse la mia piccola riflessione può sembrare ovvia visto
l'elevato tenore degli interventi precedenti, ma ho preferito discutere di temi
a me cari.
grazie per l'attenzione
PZ
ps. e se qualcuno volesse poi tornare alla candela la democrazia occidentale lo
permetterebbe?
55 From: Margherita Bologna <marghe@i...>
Date: Fri Feb 14, 2003 12:54pm
Subject: Grazie Grazia
Cara Alessandra (se me lo consenti) hai interpretato bene ciò che
intendevo tentare di chiarire. Domani quando sarò più sveglia risponderò al
dott. Rossetti
Margherita Bologna
56 From: Leone Montagnini <leonemontagnini@k...>
Date: Sat Feb 15, 2003 2:31am
Subject: Il Protreptico ovvero l'Esortazione
Roma, 15 febbraio 2003
Cari amici del forum "Progresso e responsabilità: il
passaggio dalla scienza alla tecnologia"
Il Dr. Saro Cola e l'amico prof. Giuseppe O. Longo hanno toccato un tema a me
carissimo: quello della probabilità temporalizzata. In fisica atomica e
specialmente nella teoria degli impianti nucleari si impara a ragionare in
termini di eventi che sono temporalmente più o meno probabili. Utilizzando quei
concetti si introietta l'idea che in natura non esistono eventi impossibili, ma
solo eventi che hanno una probabilità così bassa da non presentarsi
praticamente mai. Nè eventi certi ma solo eventi a probabilità circa 1. Per
esempio non è detto che la fissione nucleare non possa avvenire sulla terra
spontaneamente. Si scoprì alcuni anni fa che, anticamente, un giacimento di
uranio in Africa aveva formato massa critica da solo e si era avuta una
reazione di fissione. Perciò viene naturale in questo contesto di idee pensare
ad esempio che anche il lavoro umano non sia altro che un'attività finalizzata
a portare a 1 la probabilità di un evento entro un lasso utile di tempo. Nello
stesso modo si può pensare operi la natura.
Da decenni ritengo che giungere ad una buona teoria del caso, della probabilità
e in particolare della probabilità temporalizzata sia uno degli obiettivi più
belli e profondi che la scienza potrebbe porsi. Penso che lo stesso valga per
la nozione di informazione, che è profondamente connessa con quella di
probabilità. Come pure riterrei preziosa una teoria generale
dell'organizzazione e una teoria dei processi sottoposti a causazione
circolare.
Questi temi che ho elencato sono desideri antichi, bisogni di ricerca che porto
con me si può dire da sempre, visto che sono maturati in me quando da ragazzo,
nei primi anni Settanta ero studente in un istituto tecnico per l'energia
nucleare e, animato da spirito filosofico e da amore per l'umanità, mi capitava
di filosofare su tante cose e tra queste anche su ciò che fisici e ingegneri mi
insegnavano intorno a controlli automatici, elettronica, ingegneria degli
impianti nucleari, fisica atomica, macchine termiche ecc.
Ho sempre ritenuto che una scienza che si occupasse di queste cose fosse
necessaria e preziosa. Solo dopo due lauree e vagabondaggi intellettuali vari
ho compreso che nella sostanza quei temi convergevano tutti verso un unico
quadro o forse, ancor meglio, verso un'unica nebulosa concettuale, che
storicamente ha assunto il nome di cibernetica. Mi sembra che in queste
problematiche vi sia ancora oggi un appuntamento importante per una scienza che
sappia pensare alla grande (alla grande non in termini di investimenti, ma di
sogni). Forse nel pensare così resto solo il reduce di una scienza generalista
che non c'è più, ma permettetemi di fare un'ulteriore riflessione, così
rispondo anche a Giuseppe Belleri, che mi chiede che cosa risponderebbe lo
stagirita.
Nel Protreptico (Esortazione), opera giovanile in cui esortava un amico a
filosofare e di cui ci sono restati solo alcuni frammenti, Aristotele
sosteneva:
è sempre necessario filosofare. Se sei convinto di ciò allora filosoferai.
Altrimenti dovrai almeno filosofare per dimostrare che non è necessario
filosofare. Al tempo di Aristotele filosofia e scienza erano la stessa cosa.
Quindi il discorso può applicarsi anche a noi che discutiamo sulla scienza. In
questo nostro seminario abbiamo visto che ci sono coloro che sono convinti che
è sia necessario fare scienza, altri che ritengono - anche se a malincuore -
che essa è un'abitudine in via d'estinzione, eppure così facendo continuano
imperterriti ad usare le categorie più belle che la scienza degli ultimi anni
ha saputo creare, le amplificano, le fanno diventare vive.
Ciò significa che possiamo star tranquili, che è assicurato che sia sempre
necessario fare scienza e che sia impossibile il suo declino? Non direi.
Vedete, Aristotele trascurava un punto fondamentale: il fatto cioè che
l'interlocutore che pensa che non sia necessario filosofare può scegliere di
tacere.
E' quel che accade oggi per lo più, sia colpa della tecnica o di
cos'altro, si assiste al trionfo di quella che Habermas ha chiamato la
"paralisi della critica". Da ciò deriva che l'argomento di Aristotele non
funziona e che non possiamo ammettere che sia sempre necessario filosofare,
cioè fare scienza in maniera larga; tuttavia possiamo almeno trattenere una
versione debole dello stesso argomento: finché filosofiamo, filosofare resta
possibile!
Cordiali saluti a tutti
Leone Montagnini
57 From: Alessandra Grazia <agrazia@o...>
Date: Sat Feb 15, 2003 9:56am
Subject: Re: Domanda per Andrea Rossetti
----- Original Message -----
From: Andrea Rossetti <andrea.rossetti@u...>
Date: Fri, 14 Feb 2003 16:52:20 +0100
To: fgb-forum@yahoogroups.com
Subject: Re: [fgb-forum] Domanda per Andrea Rossetti
>
> ps provate a leggere la "storia del pensiero scientifico e
> filosofico" di geymonat, scritta in quegli anni; davvero vorreste che
> vostro figlio studiasse la storia della scienza e della filosofia su
> di un testo cosi'?
>
Ma sta scherzando ?!?! (mi scusi se mi permetto, ma è solo un modo di dire)
Certo che sì!
"Storia del pensiero" non l'ho mai letto, ma ce ne fossero di persone
intelligenti come Geymonat.
Ora mio figlio è ancora troppo piccolo, ma gli darò sicuramente (quando sarà il
momento: adesso lo strapperebbe tutto) Il Capitale di Marx da leggersi, ma non
(mi segua) perché io sia marxista, bensì perché è un libro che considero
formativo, formativo indipendentemente da come uno la pensi. Il senso critico
si sviluppa proprio in questo modo e noi genitori dovremmo dare da leggere ai
nostri figli proprio libri che poi commenteremo insieme a loro. Non avrà mica
paura dei libri, proprio lei Rossetti ?!? (o forse sì perché ne conosce il
potenziale? Ma su questo ci ha scritto un libro anche Bradbury e ci ha fatto un
film Trouffaut, anche se secondo me non è dei suoi migliori)
Grazie e scusatemi i "fumini" :)
A G
~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~
Dr.ssa Alessandra Grazia
~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~
58 From: Leone Montagnini <leonemontagnini@k...>
Date: Sat Feb 15, 2003 11:44am
Subject: In onore di Geymonat e della pesantezza degli attuali manuali
Mi si permetta di interferire sulla disputa circa il Geymonat.
Se ci riferisce al manuale degli anni 60 e 70 esso rivelava una forte
attenzione per le questioni epistemologiche, e vi traspariva chiaramente
un'impronta materialistico-dialettica. Era un manuale schierato. Ma in
quegli anni schierati lo erano molti manuali. Come quello di Vittorio
Mathieu, sostanzialmente neoscolastico. Il manuale di Lamanna neidealista.
Ce n'erano alcuni un po' più
equilibrati come l'Abbagnano, il Dal Pra, il Giannantoni; l'autore di
quest'ultimo era del PCI e insisteva sulle relazioni tra storia
dell'umanità e storia del pensiero, senza troppo materialismo storico a dire
il vero.
Io trovavo buonissimo il Lamanna per lo sguardo generale e sintetico e
profondo su tutto
(poi anche la parte sui neopositivisti e sull'esistenzialismo era fatta
benissimo). Utilizzavo il Mathieu soprattutto per la filosofia medievale, il
Geymonat
per l'epistemologia e per conoscere il materialismo dialettico sovietico.
L'Adorno-Gregory-Verra era fatto benissimo per capire alcuni autori,
fondamentale per la Critica della ragion pura di Kant e per capire Bergson e
Boutroux.
Col tempo i manuali di filosofia si sono appesantiti. Un giorno mi sono
divertito a pesarli: dal Lamanna che pesava un hg si è giunti agli attuali
che superano il kg a volume, a volte raggiungono i 2 kg. Ciò spiega perché
noi andavamo a scuola con la cinta elastica e i ragazzi di oggi ci vanno con
uno zaino da astronauti lunari (va moltiplicato tutto il peso di allora per
10 se non per 20).
Il grande pregio dei manuali degli anni 60-80 era che sapevi come la pensava
l'autore del manuale. I manuali attuali vogliono dire tutto e ti fanno
credere che non sono né ideologici né schierati, ma non è vero. In realtà
partecipano dell'ideologia del non schieramento secondo i dettami della
nuova pedagogia post-89 che abbiamo importato dagli Stati Uniti, quella dei
curricula, che non deve più dirigere ma coordinare democraticamente le tante
le "scienze della formazione", dalla docimologia alla psicopedagogia,
ognuna autonoma e avente pari diritto di parlare, senza
nessuna guida alta.
Quest'ideologia è una mistura incolore e ibrida di pensiero analitico ed
ermeneutico, la quintessenza della razionalità strumentale attualmente al
potere, che si materializza plasticamente negli attuali manuali di filosofia
più che da qualsiasi altra parte. E che terrorizzava Marcuse.
Quest'ideologia, teorizzata nella maniera più dettagliata da Luhmann,
vuole renderci delle rotelle di un sistema che non ci è dato il
diritto di criticare. In cui la democrazia è solo un sistema per legittimare
del decisioni che il potere ha già preso. Quest'ideologia è l'attuale vero
schiacciasassi che vuole inscatolare la "Scienza" in tante piccole e
tecnicamente controllabili "scienzE".Quest'ideologia rappresenta la morte
autentica dello spirito filosofico che ha sempre richiesto di schierarsi o
almeno di contrapporsi, per filosofare, perché non si filosofa senza un
radicamento in una tradizione di pensiero e senza uno spirito interiormente
libero.
Però leggeteli questi ultimi manuali: le censure non sono filosofiche. Anche
questi manuali sono interessantissimi. Alcuni possiedono delle discussioni
molto importanti di storia del pensiero matematico (per esempio su infinito
potenziale e attuale) che certamente vi sognavate di trovare nel grande
piccolo insuperabile Lamanna. Ma, per favore, lasciamo riposare in pace
Ludovico Geymonat, che ha sempre filosofato con vigore e libertà,
lasciandoci il retaggio di una scuola di intelligenti epistemologi oltre che
la grande storia del pensiero filosofico e scientifico, quella in più
volumi, che è ancora molto utile. L'estratto della parte di logica di
quest'ultima è l'attuale ricchissima "Storia della logica di Mangione"
(MANGIONE, Corrado - BOZZI, Silvio, "Storia della Logica. Da Boole ai nostri
giorni", Milano, Garzanti, 1995), una delle cose migliori che si trovano in
italiano in storia della logica.
Vi saluto augurandomi e augurandovi che oggi vincano i venti di pace!
Leone Montagnini
59 From: Andrea Rossetti <andrea.rossetti@u...>
Date: Sat Feb 15, 2003 12:33am
Subject: saluti finali
cari tutti,
siamo ormai giunti alla fine del nostro seminario on-line: alle 16 di
questo pomeriggio questa lista sara' disattivata. Non so voi, ma io
ho trovato interessante e stimolante questo scambio di idee: spero un
giorno ci sia l'occasione di incontrarci ancora per riprendere la
discussione - la leggenda vuole che Michele Serveto, mentre veniva
condotto al rogo dall'inquisizione calvinista, abbia detto: "Voi mi
bruciate, ma questo non e' che un fatto. Continueremo a discutere
nell'eternita'".
Un rigraziamento particolare all'attore principale del seminario, il
prof. Longo, che ha sempre saputo cogliere la parte interessante
degli interventi di tutti. Credo che il prof. LOngo sia il professore
che noi tutti avremmo voluto incontrare nel nostro percorso
universitario (e credo che lo pensino anche i miei studenti che hanno
partecipato al seminario :).
So di avere ancora alcune risposte in sospeso; so anche che non
riusciro' a rispondere oggi pomerggio: esco per sventolare nei venti
di guerra la bandiera della pace :) Prometto, pero', che rispondero'
in privato nei prossimi giorni.
Vi voglio lasciare con un brevissimo racconto di Jorge Luis Borges
tratto da *Atlante*:
El principio.
Dos griegos están conversando: Sócrates acaso y Parménides.
Conviene que no sepamos nunca sus nombres; la historia, así, será más
misteriosa y más tranquila.
El tema del diálogo es abstracto. Aluden a veces a mitos, de los que
ambos descreen.
Las razones que alegan pueden abundar en falacias y no dan con un fin.
No polemizan. Y no quieren persuadir ni ser peruadidos, no piensan en
ganar o en perder.
Están de acuerdo en una sola cosa; saben que la dicussión es el no
imposible camino para llegar a una verdad.
Libres del mito y de la metafora, piensan o tratan de pensar.
No sabremos nunca sus nombres.
Esta conversación de dos desconocido en un lugar de Grecia es el
hecho capital de la Historia.
Han olvidado la plegaria y la magia.
Il principio.
Due uomini stanno parlando: Socrate e Parmenide, forse.
E' meglio che i loro nomi non si conoscano mai; la storia, così, sarà
più misteriosa e più tranquilla.
L'oggetto del dialogo è astratto. Talvolta alludono a miti, a cui
entrambi non credono.
Le ragioni che portano possono essere piene di errori e non discutono
con un fine.
Sono d'accordo su di una sola cosa; sanno che la discussione è la non
impossibile via per giungere a una verità.
Liberi dal mito e dalla metafora pensano o cercano di pensare.
Non conosceremo mai i loro nomi.
Questa conversazione di due sconosciuti in un posto della Grecia è il
fatto capitale della Storia.
Hanno dimenticato la preghiera e la magia.
grazie a tutti, AR
--
Andrea Rossetti
Informatica giuridica
Cattedra di Filosofia del diritto
Dipartimento dei sistemi giuridici ed economici
Facolta' di Giurisprudenza
Universita' Milano-Bicocca
Piazza dell'Ateneo Nuovo 1
20126 Milano
e-mail rossetti@f...
60 From: Giuseppe Belleri <bellegi@i...>
Date: Sat Feb 15, 2003 12:47am
Subject: Re: Il Protreptico ovvero l'Esortazione
----- Original Message -----
From: Leone Montagnini
Il Dr. Saro Cola e l'amico prof. Giuseppe O. Longo hanno toccato un tema a me
carissimo: quello della probabilità temporalizzata. In fisica atomica e
specialmente nella teoria degli impianti nucleari si impara a ragionare in
termini di eventi che sono temporalmente più o meno probabili. Utilizzando quei
concetti si introietta l'idea che in natura non esistono eventi impossibili, ma
solo eventi che hanno una probabilità così bassa da non presentarsi
praticamente mai. Nè eventi certi ma solo eventi a probabilità circa 1. Per
esempio non è detto che la fissione nucleare non possa avvenire sulla terra
spontaneamente. Si scoprì alcuni anni fa che, anticamente, un giacimento di
uranio in Africa aveva formato massa critica da solo e si era avuta una
reazione di fissione. Perciò viene naturale in questo contesto di idee pensare
ad esempio che anche il lavoro umano non sia altro che un'attività finalizzata
a portare a 1 la probabilità di un evento entro un lasso utile di tempo. Nello
stesso modo si può pensare operi la natura.
------
Da profano della matematica delle probabilità mi pare di capire che il trionfo
della statistica e del concetto di rischio, così socialmente pervasivo da
qualche decennio a questa parte, sia il tentativo per mettere una toppa al
determinismo "demoniaco" à la La Place, che da un secolo a questa parte soffre
dei colpi infertigli dal caos e dall'evoluzione. L'ideale della prevedibilità,
e del conseguente "controllo" (non in senso cibernetico!) dei fenomeni, da
quelli meteorologici a quelli biologici, ha contraddistinto la scienza "esatta"
e resta un pilastro della sua immagine pubblica, cara alla psicologia del senso
comune del proverbiale uomo stradale. Basta pensare al successo di slogan come
"meglio prevenire che curare" e in genarale a tutti gli sforzi per sviluppare
pratiche preventive efficaci e sicure.
La probabi
lità non è l'antidoto più efficace per l'incertez
za e per le implicazio
ni emotive del rischio |
Torna all'inizio |
Purtroppo però la probabilità non è
l'antidoto più efficace per l'incertezza ed anzi il concetto di rischio ha
implicazioni emotive tali da orientare le scelte della gente in senso inverso
rispetto ad una pretesa "razionalità" asettica e fredda (nel senso di priva di
risvolti emotivi e puramente computante).
In medicina c'e', ad esempio, un parametro su cui casca l'asino della riduzione
del rischio, assoluto e relativo, di andare incontro ad una malattia (ad
esempio una malattia cardiaca nel caso della prevenzione cardiovasclare): mi
riferisco al cosiddetto NNT o numero di pazienti da trattare per evitare un
evento. C'e' una bella differenza tra assicurare che, prendendo un certo
farmaco, il rischio di infarto si riduce del 30% e affermare che comunque si
dovranno trattare 30 o 50 persone per tot anni al fine di evitare che una di
esse vada incontro alla malattia acuta, mentre contemporaneamente altri due
sfortunati dovranno comunque vedersela con ospedali e medici, NONOSTANTE la
prevenzione instaurata. Per giunta non e' dato conoscere in aticipo ne' chi tra
i 30 o 50 candidati sara' il fortunato vincitore alla lotteria preventiva ne'
quando potrà beneficiare della vincita (o dovra' rassegnarsi alla perdita, nel
caso che vada incontro alla malattia a dispetto della cura). Mi sembra che la
situazione non sia molto diversa dal problema della probabilità temporalizzata
relativa al rischio di incidente in una centrale nucleare. Voglio dire che la
statistica e le probabilità mi sembrano un modo per esorcizzare la sostanziale
imprevedibilità e aletorietà degli eventi, nel senso che purtroppo non e' dato
conoscere in aticipo e con certezza la sorte futura dei singoli individui.
Spero di non aver scritto un numero eccessivo di cavolate e/o banalità,
avventurandomi in questo terreno per me infido!
Peccato dover interrompere ora il seminario, proprio quando sta entrando nel
vivo!
Perche' non "evolvere" tecnicamente verso una M.L.?
Cordiali saluti a tutti
G.Belleri
Flero (BS)
61 From: Corrado Del Bo' <delbo@f...>
Date: Sat Feb 15, 2003 1:13pm
Subject: Verso le conclusioni (ma c'e' ancora un po' di tempo!)
Cari amici,
come gia' vi ha ricordato Andrea Rossetti, e' possibile inviare
messaggi alla lista <fgb-forum@yahoogroups.com> fino alle ore 16 di
oggi, sabato 15 febbraio.
Alle 16 disattivero' la lista, ma di questo (e di altro) vi
informero' meglio nel messaggio di chiusura del seminario.
Buon proseguimento,
Corrado Del Bo'
62 From: Marco Paradiso <marcostar@f...>
Date: Sat Feb 15, 2003 2:00pm
Subject: Democraticità e Progresso
Spero di non essere in ritardo per un intervento......
Leggendo tutti gli interventi e cercando di trarne un piccolo spunto di
riflessione, mi sono reso conto della eterogeneità di pensiero e questo, da
"povero" studente di Scienze Giuridiche che ha iniziato la sua avventura in
età matura, è un ottimo modo di rendersi conto che esiste una forte
pluralità di vedute che spesso vengono perse per la scarsa esigenza di
confrontarsi che ci deriva dal nostro stile di vita( parlo principalmente
per esperienza personale).
Desidererei innanzitutto poter esprimere il mio favore per la relazione
fatta dal Prof. Longo, in cui mi sono ritrovato su diversi punti a proposito
della retroazione positiva che alimenta il progresso e che il benessere
dell'uomo è inconsciamente condizionato da ciò. Egli cerca, quasi fosse una
mission, la continua evoluzione del progresso per spostare quei limiti che
la scienza gli pone.... L'uomo inconsapevolmente si ritrova al servizio
della tecnologia e da essa non riesce a distaccarsi.
Progresso e attività scientifica di ricerca non possono scindersi, se le
scoperte riescono a migliorare il vivere umano a livello generale, anche se
forse questo è un obiettivo utopistico(pensiamo solo alle condizioni di vita
di determinate popolazioni)......La Democraticità delle scoperte
scientifiche e la loro diffusione dovrebbero rendere la vita più agevole a
chiunque senza distinzione di razza, ma gli interessi in gioco portano a
conflitti che i fautori dell'open suource, ad esempio per i software, non
riescono ad accettare.......giustamente! Perchè privare il genere umano di
un qualcosa che dovrebbe servire per vivere meglio? Entrano in gioco forti
interessi politico-economici, legati alle varie lobby di potere che come
sappiamo contano molto, a livello globale.
Il carattere ideologico del sapere è stato schiacciato dalla "Scienza del
Mercato", permettetemi il gioco di parole, che ha inghiottito il fine ultimo
del sapere.......Sembra quasi che l'obiettivo precipuo sia solo la ricerca
continua di uno stato di "Immortalità" che la tecnologia dovrebbe
fornire.......ma a quale prezzo? La distruzione della maggioranza del genere
umano? O che altro......
Non permettiamo che la tecnologia informatica, che ha creato una sorta di
intelligenza artificiale(tramite internet), tesi peraltro discutibile,
possa derogare l'uso della tecnologia a discapito della razionalità
umana.......
Il fine ultimo della ricerca deve essere la democraticità del Progresso,
comunque inteso, senza il quale l'umanità sarebbe destinata ad un distacco
sempre più evidente, tra noi "esseri evoluti" e popolazioni non avanzate,
che porterebbe alla loro estinzione......!!!!!!!!
Vorrei che non pensaste a questa riflessione come il preludio della fine del
genere umano, ma solo come un invito alla riconsiderazione del sistema di
vita che ci circonda.
Grazie a tutti
Marco Paradiso
63 From: vittorio bertolini <vittorio.bertolini@t...>
Date: Sat Feb 15, 2003 2:55pm
Subject: ultima domanda
I progresi della tecnica hanno sempre influito sul cammino dell'umanità.
Anche nel caso che i contenuti ingnegneristici fossero estremamente semplici,
come nel caso dell'invenzione della staffa nel tardo medioevo. Però anche se
oggi viaggiamo in aereo e non in lettiga, comunichiamo via internet e così via
leggiamo Catullo e Lucrezio come nostri contemporanei.
Quello che mi chiedo, ma
non solo a me stesso, è se le nuove innovazioni (scusate il bisticcio) basate
su info e bio aprono un nuovo processo evolutivo che non viene a modificare il
mondo dell'uomo non solo dal punto di vista sociologico, ma anche da quello
antropologico. Fino ad oggi le invenzioni tecnologiche hanno modificato il
mondo esterno all'uomo, ma le nuove, con la loro pervasività implicheranno che
i miei post-postnipoti saranno dei simbionti che a stento potranno riconoscere
in me uno cole loro.
O sono io, e non solo io, a credere che Catullo fosse uno come me.
64 From: Luigi Foschini <luifosc@t...>
Date: Sat Feb 15, 2003 3:49pm
Subject: all'ultimo minuto!
Cari Amici,
volendo a tutti i costi aumentare l'entropia dell'informazione,
sto cercando di condensare in qualche decina di minuti (inizio alle
14:53 e alle 16 chiude il forum...) qualche pensiero su quanto
scritto in nell'articolo iniziale di Longo e diverse decine di
email (tra parentesi, mi trovo di fronte a un curioso caso di
omonimia, avendo collaborato per diversi anni con un altro
Giuseppe Longo, anche lui professore, ma di fisica
all'Universita' di Bologna).
La mole di informazione accumulata in questa settimana e'
impressionante e ringrazio gli amici della Fondazione
Bassetti per avermi dato l'opportunita' di accedere a
questo forum.
Nella Premessa, Longo scrive che scienza e mondo non
si possono separare, ma che la scienza non vuole avere
nulla a che fare col resto del mondo. Molto argutamente,
Sylvie Coyaud replica il 10/2: "Perche' non provare a
pensare che scienza e tecnologia sono del mondo cosi'
come ce lo facciamo, non un mondo a se' con addetti
simili a una casta sacerdotale? Vogliono per se' cio'
che vogliamo tutti [...]". Gia', perche' ci si aspetta
sempre che lo scienziato sia ascetico? Forse perche'
di fronte a una crisi delle religioni ci si e'
aggrappati alla scienza come surrogato di religione?
E quando ci si e' accorti col crollo del determinismo
che la scienza non offriva alcuna ancora di salvezza,
ecco che la si rifiuta, la si demonizza. La scienza
diventa "debole", in contrasto a una scienza
deterministica che sarebbe invece "forte".
Nel suo email del 14/02, Guido (mi scusi se la chiamo
solo per nome, ma nel suo email non trovo il cognome)
nota che dopo quasi 80 anni di principio di
indeterminazione, il mondo ufficiale continua a essere
cartesiano e questo, aggiungo io, alla faccia del
presunto "potere" della scienza, di cui tanto ci si
preoccupa di amministrare. A Einstein che proclamava:
"God does not play dice", Bohr replico' "Our problem
does not not consist in telling God how he has to
govern the world". Pero' oggi la gente ricorda Einstein,
ma non la replica di Bohr, che dal punto di vista
scientifico e' molto piu' importante.
Francamente mi sono sempre chiesto cosa ci sia di cosi'
terribile in un mondo non-deterministico, nel vivere
senza una visione unica e unitaria del mondo. Anzi,
per me sarebbe piu' terribile il contrario. A questo
proposito, mi capito' di replicare a uno dei tanti articoli
in cui si parlava della crisi della scienza. Il testo in
inglese e' disponibile in internet all'indirizzo:
http://arXiv.org/abs/physics/9807009
Curiosamente, un fisico russo mi scrisse, entusiasta,
dicendo che dopo il crollo del comunismo, la gente
aveva una forte reazione di rigetto verso la scienza, e,
a suo vedere, il mio articolo forniva utili spunti per
una difesa della scienza.
Ma allora, a quale scienza sta pensando il "mondo ufficiale",
quello da cui io, scienziato, sarei fuori? Rossetti scrive
sulla fioritura di "scienze": ma quando tutto e' scienza,
non c'e' piu' scienza. Ma non e' che il "mondo ufficiale"
sta pensando a qualcosa che non esiste piu', qualcosa
di anacronistico, qualcosa di ormai "fuori dal mondo"?
Secondo il "mondo ufficiale" sarei un ricercatore, uno
che fa scienza: eppure, affermo che nella mia attivita'
lavorativa non faccio scienza. E' forse scienza preparare
la richiesta di finanziamento, come nota con sagacia Longo,
in cui si esaltano i miracoli che si avranno se mi verranno
dati i fondi?
Sulla porta del laboratorio di una universita' canadese e'
scritto (piu' o meno, vado a memoria): "se sai cosa stai facendo,
allora non e' ricerca."
Nespole! Il tempo e' scivolato via e avrei ancora tante cose
da scrivere. Il forum ha toccato temi appassionanti.
Chiudo qui, a malincuore, rimandanovi agli scritti su questi
temi che ho preparato nei mesi passati per la Fondazione Bassetti
e che trovate sul sito web (https://www.fondazionebassetti.org/),
e maledicendo la mia mania di fare le cose all'ultimo minuto.
E' stato un piacere e un onore leggervi.
Ciao,
Luigi
---
Dr. Luigi Foschini
IASF-CNR - Sezione di Bologna (Italy)
Email: foschini@b...
URL: http://www.bo.iasf.cnr.it/~foschini/
INTEGRAL Science Data Centre - Versoix (Switzerland)
Email: Luigi.Foschini@i...
= * = * = * = * = * = * = * = * = * = * = * = * = * = * = * =
You have no responsibility to live up to what other people
think you ought to accomplish. I have no responsibility to
be like they expect me to be. It's their mistake, not my
failing. (Richard Feynman)
= * = * = * = * = * = * = * = * = * = * = * = * = * = * = * =
65 From: Corrado Del Bo' <delbo@f...>
Date: Sat Feb 15, 2003 4:03pm
Subject: Si chiude (ma non del tutto)!
Cari amici,
da questo momento non e' piu' possibile inviare messaggi alla lista
<fgb-forum@yahoogroups.com>. La lista non e' tuttavia ancora
disattivata, in quanto il professor Longo deve naturalmente poter
inviare le proprie repliche conclusive, il che accadra' la prossima
settimana, probabilmente lunedi'.
A quel punto, la lista verra' chiusa e i vostri indirizzi
definitivamente cancellati dalla medesima. Contiamo, tuttavia, di
riaprirla in un prossimo futuro, per iniziative analoghe, speriamo
altrettanto feconde, per le quali confidiamo vogliate dare ancora il
vostro contributo.
A questo proposito, se volete rimanere aggiornati su queste (e altre)
iniziative della Fondazione Bassetti, mi permetto di rinviarvi alla
Pagina d'ingresso del nostro sito
(https://www.fondazionebassetti.org/), dove troverete anche le
indicazioni per iscrivervi alla Mailing List della Fondazione. Tenete
presente, a questo riguardo, che i messaggi di aggiornamento sulle
attivita' della Fondazione diramati via Mailing List sono solitamente
un paio al mese.
Potete scriverci se volete inviarci due righe su di
voi (chi siete, cosa fate ecc.). Questo non per schedarvi,
ovviamente:-), ma solo per poter meglio interagire con voi in futuro.
Per qualsiasi chiarimento ulteriore (su questo o su altro), vi prego
tuttavia di non esitare a scrivermi in privato.
Bene, credo di avervi detto tutto. Non mi resta (ed e' una cosa che
faccio molto volentieri) che ringraziarvi, anche a nome della
Fondazione, per il vostro contributo a una discussione che mi e'
sembrata molto utile e stimolante.
Un ringraziamento particolare va naturalmente ad Andrea Rossetti, che
ha saputo interpretare al meglio il suo ruolo di discussant e,
soprattutto, a Giuseppe O. Longo, che e' stato un relatore
eccezionale. Noi tutti, credo, dobbiamo essere grati al professor
Longo per la rara abilita', competenza e umanita' con cui ha
arricchito questa fruttuosa esperienza di uso pubblico della ragione.
Con la speranza di risentirci presto,
Corrado Del Bo'
Fondazione Bassetti
66 From: longo@u...
Date: Mon Feb 17, 2003 7:28pm
Subject: quarta replica al seminario
Giuseppe O. Longo
15 febbraio 2003
Il seminario si avvia alla conclusione, tra poco più di due ore si
chiuderanno i cancelli (mi viene in mente il contadino di Kafka davanti
alla porta della Legge). Mi sento un po' esausto per la circolazione di
pensiero e pneuma che ha menato i nostri spirti, non con la sua ruina, ma
con la sua tenace volontà di capire, di andare oltre, di non rassegnarsi,
pur tra sgomenti e intermittenze. Esemplari tutti, i miei corrispondenti, e
li ringrazio: ringrazio anche gli spettatori muti, che hanno seguito senza
intervenire esplicitamente: ma erano lì.
Paola Zerella (che dice, giustamente, studente e non studentessa, che è più
usato, più fascinoso, più seduttivo ma meno corretto) solleva il problema
immenso del consenso informato: giustizia e morale vorrebbero che ciascuno,
individualmente, fosse informato al meglio dei rischi che comporta
un'attività, un'impresa, un intervento ecc., pubblico o diretto anche a un
solo individuo. Non sempre ciò è possibile, perché molti rischi sono ignoti
(e qui dovrebbe intervenire un principio di 'cautela' ben più prudenziale
di quello che si chiama oggi 'principio di precauzione', ma di fatto la
cautela viene spesso sacrificata in nome del 'progresso con vittime', come
'invito a cena con delitto'); ma spesso, anche quando i rischi sono ben
noti, le cavie ne vengono informate solo in parte (o per nulla): ci sono
stati e ci sono (in particolare nel campo medico sanitario) molti esempi di
questa vera e propria sopraffazione che grida vendetta, e non solo nei
regimi totalitari!
Non sono, questi che tocca Paola Zerella, temi poco elevati: è la sostanza
di fondo del seminario, anche se spesso ne siamo stati più o meni sviati
dalle discussioni arborescenti e rizomatiche che si sono sviluppate (tutte
peraltro di interesse palpitante). Ma di questo problema non abbiamo la
soluzione: possiamo solo sforzarci di fare del nostro meglio, ciascuno
secondo le sue possibilità e nel suo ambito. E ora l'autocitazione (da Il
fucoo completo, Mobydick, 2000):
"Tenta lo zolfo, la malachite, il mogano e il quarzo, l'alcol e la calcite,
il mercurio, l'oro e l'acqua forte, lo smeraldo e l'acqua regia, l'ambra,
il pirosseno e lo zirconio.
Ed ecco, dopo anni di sforzi, in una notte di marzo che nella vita del
mondo è diversa da tutte le altre, la materia lungamente sollecitata apre
le piccole invisibili ampolle dove stava rinchiusa la sua più intima
essenza, e agli occhi increduli e commossi del vecchio Usinor appare, come
un pallido fiore azzurrino, la fiammella esitante da sempre cercata. Egli
la contempla a lungo, poi, con un'intuizione che stupisce, annota:
«Guardando quel piccolo lume bluastro, oscillante e delicato, sentivo di
aver violato un'intimità segreta, di aver forzato meccanismi complessi e
puntuali. Avevo spezzato le piccole fiale resistenti in cui, ben divise,
erano state da sempre racchiuse sostanze che, forse, non avrebbero mai
dovuto mescolarsi. Dal loro contatto ora scaturiva quella fiammella, che
era dunque il segno esile e quasi insignificante di un atto possente che si
consumava nella materia e che la natura aveva vietato. Provavo un orgoglio
smisurato e una profonda inquietudine.» E più avanti: «Più di così la
materia non avrebbe potuto darmi e questo suo succo essenziale, intimo e
proibito, ho voluto chiamarlo il Fuoco Completo. Quella fiammella fredda e
azzurrina spingeva la mia anima a riflessioni lontane. Essa ardeva con un
crepitio quasi inavvertibile, illuminava appena, lividamente, il noto
paesaggio del laboratorio, rendendolo irriconoscibile. Toccata con un
oggetto qualunque, essa vi aderiva in un contagio effimero ma
inestinguibile. Questo ardere stabile, prolungato e silenzioso pareva
segnare una consunzione interna e duratura, che io avevo innescato in un
punto arbitrario anche se forse predestinato del mondo e che ora lentamente
si propagava. Era come se tutta la materia avesse cominciato a uscire pian
piano da quel piccolo strappo e dilagasse, consumandosi febbrilmente in
quella fiamma silenziosa.»
Quanto le sue apprensioni fossero giustificate, Usinor poté vederlo,
tragicamente, di persona. La fiammella bluastra si estese col tempo a tutto
il laboratorio e nonostante la sua cautela egli ne fu contagiato. Nei
lunghi anni in cui si consumò il suo martirio indolore, Usinor ebbe modo di
dettare una teoria - giudicata più tardi quasi perfetta - del fuoco
completo, con la quale concluse il suo trattato. Ne metteva in evidenza i
pericoli e ne indicava le meravigliose, esaltanti applicazioni; infine
elencava le precauzioni da adottare nel suo impiego.
Quello che accadde dopo si sa."
In attesa che Margherita Bologna si svegli del tutto (faccina sorridente) e
risponda ad Andrea Rossetti sul tema (fondamentale) del rapporto tra
naturale e imposto (o, reciprocamente, adottato o subìto) come naturale...
per fortuna è arrivato in questo momento, a interrompere la mia
glossolalia, il messaggio di Andrea Rossetti, che ha dato una bella
torsione al tutto: grazie! e grazie per l'apologo di Borges (meditiamo
anche sulle parole di Serveto, che potremmo prendere come auspicio e
viatico, anche secondo le intenzioni di Giuseppe Belleri, che ringrazio per
l'esempio medico, centratissimo a mio parere, delle difficoltà in cui ci
dibattiamo quando vogliamo dare un senso pratico alla nozione di
probabilità e allo strumentario statistico: credo che il suo esempio sia
affine a quello da me proposto sulle centrali nucleari e in più ha il
merito di essere molto più quotidiano e riscontrabile). E lo ringrazio
anche per il contributo complessivo che ha dato con Montagnini alla
discussione sul caso e la probabilita. Parentesi: certo, anche la nozione
di informazione, che è una delle più pervasive e insieme oscure, merita
approfondimenti e riflessioni non solo tecnici ma anche 'filosofici'.
: sono quarant'anni che ho a che fare in un modo o nell'altro con
l'informazione e ancora non ne sono venuto a capo (il che mi riempie di
speranza per un futuro di riflessione e scrittura che mi auguro
lunghissimo).
Grazie, caro Rossetti per l'elogio del
professore-che-tutti-avremmo-voluto-incontrare, ma il 'prof Longo' non
esiste: esiste 'il prof Longo in interazione costruttiva, volonterosa,
partecipativa, emotiva e razionale con tutti voi', secondo una visione
sistemica e collaborativa che, per il momento, rappresenta una delle mie
convinzioni più profonde e motivate. In questo credo di essere in buona
compagnia (o meglio in compagnia buona): certo Leone Montagnini, che ci ha
fatto dono anche di qualche cenno della sua biografia intellettuale, è tra
i sistemisti-cibernetici alla Bateson. Ma tutti voi siete in cerca, tutti
voi volete comprendere (non solo con la mente, non solo con il cuore, ma
ciascuno con tutto sé stesso) questo vasto mondo rimbombante e multicolore
e fiammeggiante: per comprenderlo siamo stati abituati da sempre a
costruirne dei modelli semplificati. Che cosa sono l'arte, la scienza, la
poesia... se non modi per costruire modelli semplificati del mondo, mondi
parziali che abbiamo ri-costruito per abitarli con maggior agio e
rassicurante placidità rispetto al rischioso mondo 'dato'? E che cos'è la
tecnologia se non il tentativo, splendido, arrogante, pericoloso e
paradisiaco, di costruire un 'altro' mondo, dove 'vivere' beati, al riparo
da dolori, malattie, morte e angoscia, sottratti per sempre alla condizione
umana? Ma sottraendoci a quelle miserie, che cosa perderemmo? Che cosa
stiamo già perdendo? Esaù e il piatto di lenticchie... Come sono
reazionario! Però accetto l'esortazione di Montagnini: 'sognare alla
grande'.
in ogni caso credo sia importante tener sempre presente che i mondi della
poesia, della leteratura, dell'arte, della scienza... sono modelli o
immagini parziali del mondo: non possiamo pensare di esaurire il mondo
mediante un suo modello. Il riduzionismo razionale è assurdo quanto il
riduzionismo emotivo o poetico, o tecnologico.
Giuseppe Belleri, tra i tanti suoi meriti discussori, ha anche chiarito e
riassunto il mio pensiero su quello che io ho chiamato in modo sbrigativo,
'il sorpasso della scienza da parte della tecnologia' e sono contento che
Montagnini, rispondendo a nome di Aristotele, abbia citato il Protrepticon,
ma anche che abbia riconosciuto che il silenzio può uccidere: per discutere
bisogna che ci sia non tanto una meta da raggiungere, quanto un minimo di
volontà cooperativa, quella che anima i due personaggi di Borges. Ma vi
rendete conto di quello che hanno combinato questi Greci? Vi rendete conto
di quanto hanno piegato il corso della storia con la loro mania della
Verità? Ormai la frittata è fatta...
Interrompo
Riprendo domenica 16 febbraio ore 10
La storia poteva andare diversamente (sono un convinto assertore della
contingenza e dei ragionamenti controfattuali): difficile dire se staremmo
(chi?) meglio o peggio (di chi?)... se i Greci si fossero trovati a vivere
nelle inospitilande della penisola di Kola invece che sulle sponde del mare
da cui 'vergine nacque Venere e fea quell'isole feconde col suo primo
sorriso'. Rileggo con diletto il contributo di Giovanni Maria Borrello, che
ci ha offerto alcuni excerpta di Kary Mullis imbevuti si soda cuastica (mi
ricorda un po' Karl Kraus), ma non oso entrare nella disputa
filosofico-ponderale sul Geymonat (Andrea Rossetti, Alessandra Grazia,
Leone Montagnini...). Sarei propenso a concordare con Montagnini quando
critica la pappetta incolore che nel dibattito intellettuale avrebbe preso
il posto degli schieramenti vigorosi di un tempo. L'unica perplessità è che
questo vigore battagliero non finisca con l'impedire la ricerca proprio
perché nasce da premesse troppo forti che contengono buona parte di ciò che
si troverà (vedi la scritta sulla porta del laboratorio canadese che ha
citato Luigi Foschini).
Al quale Luigi Foschini vorrei confermare che non sono il Giuseppe Longo
che lui ha conosciuto: il nome Giuseppe è, nonostante l'evoluzione
economico-culturale, ancora il più diffuso in Italia e il cognome Longo è
tra i più comuni, perciò l'accoppiata è piuttosto freqyente e la vita mi ha
portato a imbattermi in omonimi. Il mio smisurato narcisismo individualista
e vanitosi mi ha spinto allora a ricorrere alla O. intermedia (sulla quale
si sono avanzate molte congetture) per distinguermi dalla folla dei
Giuseppi Longhi...
Vorre precisare quanto scrivo (nel testo del mio articolo): "se la scienza
non vuole aver nulla a che fare con il resto del mondo (cosa di cui si può
dubitare) è il resto del mondo che vuole aver a che fare con la scienza".
Intendendo proprio ciò che con altre parole dice Sylvie Coyaud: scienza e
tecnologia sono del mondo. Ma bisogna distinguere ciò che della scienza e
della tecnica pensano gli "addetti ai lavori" da ciò che ne pensano altri.
Un'indicazione in questo senso può venire dall'intervento di Massimiliano
Bucchi. I barbieri frequentano i barbieri e i fisici frequentano i fisici,
gli intellettuali si accompagnano con gli intellettuali. Mai che mi capiti
di parlare di scienza con un camionista o con un bancario... (vedi anche
l'osservazione di Marco Paradiso all'inizio del suo intervento).
Giuste le rimostranze di Luigi Foschini, ma bisognerebbe individuare il
soggetto delle sue frasi: "ci si aspetta sempre che lo scienziato..."
oppure: "ci si è accorti del crollo del determinismo..." "si demomnizza la
scienza..." "la gente ricorda Einstein ma non la replica di Bohr...". Da
questo esercizio di ricerca del punto di vista potrebbe venire, forse,
qualche indicazione sull'immagine che della scienza hanno categorie vaste e
poco a contatto con la scienza, ma che con le loro decisioni politiche e
amministrative contribuiscono pian piano a una deriva sociale che coinvolge
anche la scienza. Non si tratta del il "mondo ufficiale", credo, bensì di
una congerie vasta, eterogenea, difficile da definire, che accoglie in sé
moltissimi individui (o meglio, parti consapevoli o semiconsapevoli dell'io
di moltissimi individui...) che non partecipano ai dibattiti sulla scienza
ma che qualcosa di implicito sulla scienza avvertono. E certo quanto
avverte questa congerie indeterminata di persone è, mediamente, molto
diverso (certo anacronistico) rispetto a quanto avvertono gli scienziati.
Se la scienza è passata da un'immagine determnistica a una non
deterministica delmondo (vado per grandi semplificazioni), per lo
scienziato questo è abbastanza irrilevante, anzi, segna un progresso:
ovvio. Ma per gli altri, che ricevono echi lontani, spesso filtrati alla
carlona dalla divulgazione scientifica, o addirittura snaturati da
pregiudizio filosofico o fideistici, il passaggi odiventa subito un "crollo
delle certezze" e coinvolge l'immagine del mondo non solo fisico (che ce ne
importa, in fondo, della fisica), ma del mondo delle relazioni
sociopolitiche, dell'economia, della vita quotidiana. Ecco che cosa c'è di
"terribile" nel mondo non-deterministico: la perdita di un'autorità, di una
guida, di un padre buono e saggio cui chiedere consigli, anzi ordini. Non
mi stupisce che il crollo di una certezza in un campo faccia crollare le
certezze in altri campi (l'esempio del comunismo e della scienza mi pare
emblematico, ma qui sarebbe interessante avere il parere di un sociologo...
Peccato, davvero peccato che il seminario sia finito... Ma un bel gioco
dura poco...). Dalla scienza, è vero, ci si aspettava (chi?: ci casco
anch'io!) ciò che promettevano le religioni: perché la scienza ha
spodestato la religione (ecco perché gli scienziati sono spesso visti, e a
volte si sentono, come sacerdoti), senza -giustamente - rispondere alle
domande cui quella in un modo o nell'altro rispondeva; ma non per questo la
scienza ha posto fine a quello che si potrebbe chiamare "il bisogno di
assoluto", anzi ha prodotto una grande e per certo versi devastante
"nostalgia dell'assoluto". Per di più la scienza, agli occhi dei non
scienziati, vacilla anche nei campi dove per tradizione riusciva a dare
qualche certezza... Ce n'è d'avanzo per rifugiarsi tra le braccia della
tecnologia, che almeno dà le certezze del cellulare, della Tv spazzatura,
delle automobili luccicanti...
Caro Luigi Foschini, nespole!, anche per me il tempo scivola via!
Vittorio Bertolini m'invita a nozze con la sua idea di un mutamento
antropologico e non soltanto socioculturale provocato dalle nuove
tecnologie. Oggi gli umani sono in grado non solo di riprodursi, ma di
prodursi diversi da prima. E non solo per via delle biotecnologie (modo
esplicito e programmatico) ma anche tramite le tecnologia informazionali,
che interagiscono fortemente con la mente e modificano il cervello. In un
mondo profondamente modificato dalle tecnologie, per una sorta di
adattamento coevolutivo, la specie deve adottare delle modificazioni (mi
permetto di rinviare al mio libro "Il simbionte" segnalato sul sito della
Fondazione, di pubblicazione imminente).
Marco Paradiso riuassume, con toni molto accorati, alcuni dei temi di fondo
toccati nel seminario e in particolare reclama una maggiore compenetrazione
tra "progresso e attività scientifica": forse, come abbiamo già
sottolineato, lo scollamento tra questi diversi aspetti dell'uomo sta alla
radice dimolti problemi. L'ipotesi adombrata di una "distruzione della
maggioranza del genere umano", per quanto raccapricciante, non è del tutto
infondata: la diversa velocità con cui i vari popoli acquisiscono la
tecnologia può davveroportare alla creazione di almeno due (pseudo)specie:
un homo sapiens technologicus fortemente integrato con i suoi strumenti e
un homo sapiens molto arretrato (non si dia a questo aggettivo un colore
valutativo). Tra le due psedospecie potrebbe instaurarsi un rapporto di
dominanza-sudditanza (è più omeno quello che accade oggi tra il nord e il
sud del mondo, salvo moti di ribellione anche cruenta); una convivenza
pacifica basata sulla reciproca ignoranza (ipotesi quanto mai improbabile)
o sulla saggezza dell'uomo a bassa tecnologia (ipotesi ancora più
improbabile, specie se circonfusa da fame atavica); una guerra a oltranza
di esito incerto (vista anche la fragilità intrinseca della tecnologia).
Non è un panorama incoraggiante (questo anche per Leone Montagnini, che mi
"accusava" di ottimismo).
Aber Freunde, nicht diese Tönen!
Interrompo alle 12,15 del 16 febbraio.
Riprendo il 17 febbraio alle ore 18,15
Non ho dimenticato la sfida di Sylvie Coyaud: a ogni sua domanda si può
rispondere con una battuta oppure con un piccolo o grande) saggio. Provo
con le battute (ma solo per alcune domande), per dare al tutto la
concitazione di un conorso a premi.
D - L'impresa scientifica non è democratica, quella automoblkistica lo è?
R - Sì, dopo che ha rinunciato al colore nero per tutti imposto da Ford.
D - Le teorie e le pratiche scientifiche sono per pochi; e le altre
produzioni intellettuali? Basta la bocca per rifarsi il Parsifal a casa?
R - Io sotto la doccia mi sforzo di rifarmi il Don Giovanni (col Parsifal
non ci ho ancora provato), ma è vero: ho qualche problema con gli archi e
con Zerlina. Sotto la doccia non ho mai tentato di fare qualche esperimento
di elettrostatica.
D - L'auto uccide 8000 persone all'anno in Italia, ne ferisce 50 mila:
secondo lui (Jonas), ci rinunciamo?
R - No, non ci rinunciamo, neppure io, che sono più saggio della media. Ma
soprattutto la psicologia dell'automobilista lo spinge a ritenersi
onnipotente: a me non può toccare, perché io sono più bravo degli altri. Se
invece il volante (anche metaforico) lo tiene in mano un altro siamo subito
sulle spine.
D - Perché non provare a pensare che scienza e tecnologia sono del mondo
così come ce lo facciamo, non un mondo a sé con addetti simili a una casta
sacerdotale? Vogliono per sé ciò che vogliamo tutti: più bellezza, più
salute, ricchezza, fama, comfort, mobilità, sicurezza, libertà, piacere
ecc. costi quel che costi, o quasi. O c'è gente che non si auspica nulla
del genere?
R - Ho provato a pensare la scienza e la tecnologia in questo modo, e stavo
per riuscirci... Però, insistendo sulle uguaglianze, si rischia di
dimenticare le differenze. E (per me che mi occupo di informazione) le
differenze sono più importanti delle uguaglianze (è una posizione molto
cattivista). Non abbiamo una metrica per misurare le differenze, quindi non
possiamo dire che si tratta di differenze "piccole" o "grandi", possiamo
solo dire che il fatto di esercitare un certo tipo di attività comporta
delle conseguenze nella visione del mondo ecc. (Qui mi sono un po'
incartocciato...)
Da ultimo vorrei rivolgere un ringraziamento all'amico Marcello Cini, che è
sempre stato con me generoso di esempio e di incoraggiamento. E generoso è
stato anche questa volta, con i suoi ampi stralci dalla recensione che
aveva pubblicato a suo tempo del mio "Homo technologicus". Di Marcello
siamo debitori di molte idee e di molta saggezza ed esorto chi non lo è
ancora a diventarlo, debitore, leggendo i suoi libri. Per fortuna di tutti
il suo intervento, giunto fuori tempo massimo, è stato ripescato da
Giovanni Maria Borrello e Corrado Del Bo'. Le sue osservazioni finali sul
rapporto tra scienza e tecnologia e sulla democrazia arricchiscono il
seminario: per esempio l'indicazione di una connessione sempre più stretta
tra scienza e tecnologia, che riecheggia altre posizioni e che contrasta
abbastanza (almeno in apparenza) con le mie. Dico in apparenza, perché
sarebbe forse da approfondire la natura del soggetto che fa scienza e che
fa tecnologia. Se è vera l'ipotesi che l'homo technologicus sempre più
ibridato, allora chi fa tecnoscienza oggi è un soggetto molto diverso da
quello che faceva scienza anche solo qualche decennio fa: allora è sì vero
che scienza e tecnica sono sempre più mescolate, ma è anche vero che per il
tramite del simbionte l'attività cognitiva è sempre più delegata alla
componente macchinica dell'homote chnologicus, che si sviluppa a ritmi
elevatissimi. E' per effetto di questa delega, mi pare, che la scienza così
come la conosciamo, e come la pratica l'uomo a bassa o media tecnologia,
minaccia di scomparire. Ma è un punto sul quale devo riflettere. Se me lo
permetti, Marcello, vorrei segnalare quello che mi pare sia il tuo libro
più recente, "Dialoghi di un cattivo maestro" (Boringhieri, Torino, 2001),
che ho avuto il piacere di presentare con te a Trieste qualche mese fa: lì
i seminaristi potranno trovare l'indicazione delle tue opere più
significative.
Ora (19,20) chiudo questa quarta e ultima replica ai vostri interventi;
venerdì prossimo cercherò di mandarvi una sorta di bilancio finale (molto
stringato). Buone cose a tutti.
Giuseppe O. Longo
67 From: Corrado Del Bo' <delbo@f...>
Date: Mon Feb 17, 2003 9:40pm
Subject: Da Marcello Cini
Cari tutti,
visto che l'email e' giunto solo qualche minuto dopo la chiusura del
Forum, e ritenendo di fare cosa gradita, vi giro l'email di Marcello
Cini cui fa cenno Giuseppe Longo nella sua quarta replica.
Cordialmente,
Corrado Del Bo'
+++++++++++++++++++++++++
Sono spiacente di non aver potuto intervenire prima in questo forum
così ricco di spunti e di osservazioni stimolanti. Non posso
inseguire i
fili della trama che è stata intessuta perché non ne sarei capace.
Mi limito quindi a contribuire l'ultimo giorno al dibattito sul
bellissimo testo del mio vecchio amico Pino per prima cosa riportando
alcuni stralci della mia recensione pubblicata su "il manifesto" due
o
tre anni fa in occasione della pubblicazione del suo libro Homo
technologicus. Alla fine farò un paio di osservazioni sul tema del
rapporto fra scienza e tecnologia e sulla questione della democrazia.
"Giuseppe O. Longo - scrivevo - è un personaggio geniale e
proteiforme.
Come scienziato insegna Teoria dell'informazione all'Università di
Trieste. Come traduttore ha fatto conoscere in Italia tutta l'opera
di
Gregory Bateson. Come scrittore è autore affermato di opere di
narrativa
premiate e tradotte in varie lingue. Finora queste sue attività, pur
riflettendosi indirettamente l'una nell'altra, avevano prodotto testi
di
genere tradizionale: saggi, romanzi, racconti, drammi teatrali. Con
il
suo ultimo libro, Homo technologicus, Longo ha inventato invece, e
non è
poco, un nuovo genere letterario. Si tratta di un saggio nel quale
uno
scheletro di fatti e ragionamenti organizzato secondo un filo logico
è
rimpolpato da frammenti di storie, racconti allegorici, fantasie
allucinatorie che contribuiscono a formare un insieme organico in
grado
di rappresentare assai meglio di altre forme espressive già
sperimentate
la complessità dell'oggetto della sua ricerca: la grande tappa
evolutiva
di cui siamo testimoni e protagonisti, dall'homo sapiens all'homo
technologicus, o, se si vuole, dall'uomo a tecnologia limitata
all'uomo a tecnologia intensa.
L'homo technologicus - ci avverte infatti l'autore
nell'introduzione -
non è uomo-più-tecnologia: è bensì un'unità evolutiva profondamente
nuova, è un'unità organica, mentale, corporea, psicologica, sociale e
culturale senza precedenti, che, se partecipa ancora dei miti, dei
desideri e delle necessità dell'uomo tradizionale, crea anche miti,
necessità e desideri suoi propri e inediti.
Il libro è dunque una narrazione. Il dramma ha per protagonisti
l'uomo
e le sue macchine e mette in scena i loro complicati e mutevoli
rapporti. Come sempre, un modo originale di guardare la realtà ne
coglie
subito aspetti imprevisti. Ne scorriamo rapidamente alcuni. Il primo
è
quello che presenta lo sviluppo delle nuove tecnologie non più come
risultato delle funzioni razionali, astratte e formali della mente
umana
e come dimostrazione della loro superiorità rispetto ai prodotti
dell'intelligenza pratica legata all'esperienza corporea, ma come
frutto
di un processo evolutivo così rapido e tumultuoso che la teoria non
riesce più a starle dietro.[..]
Il secondo aspetto imprevisto (per l'appunto!) di questo
approccio è
quello di mettere in evidenza come le tecnologie della mente-corpo
(quelle cioè che riportano l'intelligenza, gia scarnificata dal
funzionalismo, in un corpo che scambia col mondo esterno stimoli e
perturbazioni), modificano organismo e ambiente collocandoli
all'interno
di una feconda coevoluzione. [..]
Il terzo aspetto rivelato dal nuovo approccio, legato al precedente,
che ne porta tuttavia le possibili conseguenze all'estremo, è quello
dell'identificazione del corpo come luogo centrale del mutamento
indotto
dalle nuove tecnologie. Oggi la tecnologia è insieme diffusa e
invasiva: da una parte si espande intorno al corpo, modificandolo e
prolungandolo, e dall'altra si insinua nell'organismo per interagire
in
modi fini e inusitati, per potenziare, modificare o annullare
facoltà, o
semplicemente per ricavare informazioni.[..]
Dopo questa lunga premessa, che mi sembrava necessaria per
sottolineare
l'originalità del discorso di Longo mi resta da accennare ad alcuni
dei
temi che vengono affrontati nei tre capitoli nei quali il libro si
suddivide. Dei primi due, "Tecnologia, evoluzione, flessibilità" e
"Macchine della mente" dirò, per ragioni di spazio, poche cose, anche
se
sono pieni di spunti interessanti, osservazioni acute, battute
spiritose. Mi preme, ad esempio, sottolineare la conclusione del
primo,
che si potrebbe definire come un elogio della flessibilità.
La sopravvi
venza di un sistema complesso: elogio della flessibilità, della ridondan
za e della diversità |
Torna all'inizio |
Si tratta, come spiega bene l'autore, del potenziale non impegnato di
cambiamento indispensabile per la sopravvivenza di un sistema
complesso.
Una normativa troppo precisa, che voglia prevedere tutti i casi
possibili, e dare ricette per la soluzione di tutti i problemi, non
fa
altro che fissare entro soglie molto anguste le variabili del
sistema,
sottraendogli dunque quasi tutta la flessibilità con l'impedirgli
quasi
tutti i cambiamenti. E' per questo che bisogna tener conto della
flessibilità naturale di cui sono dotati gli esseri umani e
valorizzarla al massimo: è dai singoli che bisogna cominciare a
costruire la società flessibile e solidale che vorremmo. Non i
singoli
isolati, ma i singoli in quell'armoniosa e ricca e differenziata
coralità sociale che segna i rapporti interpersonali quando sono
improntati alla cooperazione comunicativa e all'altruismo attivo.
Allo stesso modo mi preme sottolineare, del secondo capitolo,
l'elogio
della ridondanza e l'elogio della diversità. Il mondo naturale -
leggiamo - è ridondante, pletorico, robusto; quello ricostruito
dall'uomo è essenziale, stringato, fragile. Inoltre, spesso, nelle
strutture artificiali (ad esempio le organizzazioni, le aziende, le
ditte, ma anche i partiti e le associazioni) la comunicazione si
svolge
solo dall'alto in basso, per cui la trasmissione dei comandi è
gerarchica. Sotto questo profilo la rete è affatto diversa: la
comunicazione non è gerarchica, bensì eterarchica, potendosi svolgere
da
un nodo qualsiasi a un altro qualsiasi nodo.
La rete, appunto. E' nel terzo capitolo, "L'uomo nella rete", che
Longo
affronta le domande che nascono dall'esplosione della Rete globale le
cui fitte maglie innervano tutto il pianeta. E' chiara l'ambiguità
del
titolo, che riassume il conflitto fra due posizioni estreme:
l'euforia
di Nicholas Negroponte, da un lato, che la vede come un'anticipazione
di
un mondo caratterizzato dal decentramento, dall'armonizzazione e dal
potenziamento delle capacità umane, e il catastrofismo di Neil
Postman,
dall'altro, che prevede l'avvento di una teologia tecnologica foriera
di
forme di totalitarismo tecnocratico in cui il despota, o la classe
egemone o il partito unico di un tempo sarebbero sostituiti da un
tiranno anonimo e non localizzato.
E' chiaro che l'autore non sposa né l'una né l'altra. Preferisce
scatenare la sua fantasia per presentare, nelle diverse forme che gli
sono congeniali, gli effetti possibili che lo sviluppo della rete può
avere sulla nostra cultura. Accenno soltanto, anche per non privare
il
lettore del gusto di scoprirli e approfondirli da sé, ad alcuni dei
temi
sollevati. Il primo è quello dei diversi significati del termine
navigazione. [..]
Il secondo tema è quello della natura della rete. Che è al tempo
stesso un indefinito mosaico policromo in cui tutte le tessere sono
interessanti ma nessuna è davvero fodamentale", oppure grande
metafora
di una cutura che diviene pletorica e frammentaria, o infine
"singolare
museo onnicomprensivo, in cui la Divina Commedia, l'ultimo modello
della
Ford e le donnine nude si trovano su bancarelle contigue.
Il terzo tema è quello della rete come autore, o iperautore, di sé
stessa. Autore strano, perché a-cefalo e a-centrico, privo di un
progetto individuabile, se non a posteriori, e tuttavia reale, che sa
e
sa narrare cose che nessuna delle sue componenti, umane o
macchiniche,
sa e sa narrare. Questo autore non possiede una mente, ma è una
mente,
nel senso preciso che Gregory Bateson ha dato a questo termine. [..]
Potrei fermarmi qui. Ma mi sembra opportuno terminare osservando che
la
lettura di questo libro solleva una domanda fondamentale, che ci
assilla
tutti, alla quale non sappiamo tuttavia ancora dare risposte adeguate
all'urgenza e alla radicalità delle trasformazioni che incombono.
Qual'è
il rapporto fra l'emergente homo technologicus e l'homo oeconomicus
degli economisti? Sono necessariamente due facce della stessa
medaglia?
Questa domanda, ovviamente ne genera infinite altre. Per esempio: in
che
misura la riduzione a merce di ogni bene materiale e immateriale,
addirittura di ogni forma di comunicazione tra gli uomini, condiziona
il
processo di coevoluzione tra la natura umana e i suoi artefatti che
Longo ci ha descritto? O ancora: è' l'economia soltanto una tecnica
tra
le altre finalizzata al raggiungimento di un obiettivo unico e
determinato, che non lascia spazio ad altri criteri di scelta, come
sostiene Umberto Galimberti - e dunque il processo è inarrestabile e
incontrollabile - oppure è soltanto un vincolo che oggi incanala il
processo evolutivo lungo un percorso a una sola dimensione, ma che
domani potrebbe essere modificato e bilanciato da altri vincoli di
diversa natura che permettano di arricchire la flessibilità, la
ridondanza e la diversità della nostra specie?
Come si vede le vecchie formule non bastano. Ci sono tante cose nuove
da capire."
Termino con due osservazioni.La prima riguarda il rapporto fra
scienza e
tecnologia.Nella premessa Longo giustamente critica "chi sostiene che
gli effetti negativi sul mondo derivano solo dalla tecnologia, perché
la
scienza non ha a che fare con il mondo: la sua interazione con il
mondo è
conoscitiva e non manipolativa."
Ad essi Longo risponde: "Il grande sogno dell'Occidente, che da
Platone in poi, passando per Cartesio e Leibniz, giunge fino ad
Einstein, di spiegare o di ricostruire il mondo per via razionale e
formale, non si è avverato. Anzi, quando sembrava prossimo
all'attuazione, ha cominciato ad allontanarsi sempre più, come una
nostalgica cometa."
Dall'universo delle leggi naturali al mondo dei processi
evolutivi |
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Per quanto mi riguarda ho scritto un libro per cercare di
analizzare il
passaggio "dall'universo delle leggi naturali al mondo dei processi
evolutivi" e il mutamento dei relativi linguaggi. Del resto questo
passaggio è discusso benissimo anche nel testo introduttivo di Longo.
Fin qui sono d'accordo. Un pò meno d'accordo sono quando leggo:
"Insomma, è un po' come se l'attività scientifica e la spiegazione
razionale si stessero avviando al tramonto e cedessero il passo a
una ragion pratica assai robusta e a volte tracotante." In sostanza
Longo
traduce questo tramonto come scomparsa della scienza e trionfo della
tecnologia, nel senso di rinuncia alla conoscenza a favore della
cieca
pratica. Secondo me, invece, non ci troviamo di fronte a una
crescente
separazione tra "scienza" e "tecnologia" ma alla loro sempre più
stretta
interconnessione nella "tecnoscienza", anzi nelle "tecnoscienze".
E' certamente un mutamento epocale, ma non è soltanto
una questione terminologica. Basta leggere il libro di Rabinowicz
"Fare
scienza oggi" (Feltrinelli) (dove si racconta l'intreccio fra
"scoperta" e "invenzione" della Polymerase Chain Reaction, che ha
fruttato a Kary Mullis il Nobel e alla Cetus Corp. profitti
miliardari
con il relativo brevetto), per capire dove sta il nodo dell'intera
questione. Non è solo una questione epistemologica, ma si tratta di
soldoni.(E' in sostanza la domanda che facevo a Longo alla fine della
mia recensione).Attraverso il brevetto, la conoscenza diventa merce.
Ma
come dice Georg Soros, che di capitali se ne intende, "L'istituzione
di
brevetti e diritti di proprietà intellettuale ha contribuito a
trasformare l'attività dell'ingegno in un affare, e naturalmente gli
affari sono mossi dalla prospettiva del profitto. E' lecito affermare
che ci si è spinti troppo oltre. I brevetti servono a incoraggiare
gli
investimenti nella ricerca, ma quando scienza, cultura e arte sono
dominate dalla ricerca del profitto, qualcosa va perduto."
A questo si lega strettamente la questione della democrazia. Qui c'è
una confusione di livelli. E' banale dire che non si può sottoporre a
referendum popolare la validità di una teoria scientifica. Basta
leggere
Kuhn per capire con quali meccanismi mutano i paradigmi scientifici e
quali sono i criteri in base ai quali le controversie scientifiche
sono risolte a favore dell'uno o dell'altro. Anch'io ho scritto a
questo
proposito qualche cosa.
Il problema della democrazia si pone tuttavia quando lo stesso
sviluppo scientifico e tecnologico, accanto ai vantaggi derivanti dal
soddisfacimento di bisogni complessi e sofisticati per coloro che
possono accedere al mercato, produce anche svantaggi pesanti per
masse
crescenti di uomini e donne che ne sono esclusi, oltre che rischi
imprevisti e crescenti insicurezze per tutti.
Nei problemi sociali che accompagnano questo vorticoso sviluppo si
intrecciano infatti tassi di inquinamento e consulenze miliardarie,
tecnologie sofisticate e quotazioni di borsa, posti di lavoro e
cumuli
di rifiuti, catastrofi ecologiche e guerre. Nella società che Ulrich
Beck chiama "la società del rischio" sono mutate le cause e la
portata
del rischio.La differenza rispetto al passato, è che "il rischio
prodotto è il risultato dell'intervento umano nelle circostanze della
vita sociale e nella natura."Alla soluzione di questi problemi
debbono
concorrere dunque tutti gli attori sociali coinvolti, attraverso
garanzie istituzionali un pò più certe e trasparenti di quella che
dovrebbe derivare dalla fiducia nella buona fede e nella competenza
professionale dei ricercatori.
Ringrazio tutti dell'attenzione, e saluto Pino affettuosamente,
Marcello Cini
68 From: Corrado Del Bo' <delbo@f...>
Date: Mon Feb 17, 2003 9:40pm
Subject: Conclusioni di Giuseppe Longo
Cari tutti,
a rischio di essere ridondante, vi ricordo che, dopo le ultime
repliche di oggi, Giuseppe
O. Longo traccera' un bilancio conclusivo del seminario venerdi'
prossimo.
Buona settimana,
Corrado Del Bo'
69 From: longo@u...
Date: Fri Feb 21, 2003 13:08 pm
Subject:
20 febbraio 2003
Cari amici
Questa non è una conclusione (e nemeno una pipa, nel senso di Magritte,
beninteso)
Desidero esprimere il mio ringraziamento alla Fondazione Bassetti, in
particolare a Piero Bassetti, a Giovanni Maria Borrello e a Corrado Del
Bo'. Andrea Rossetti merita un riconoscimento particolare tra i
commentatori e gli interlocutori, ma tutti i partecipanti hanno contribuito
a quello che, più o meno all'unanimità, è stato ritenuto un seminario ben
riuscito (e, per me, anche. una dimostrazioen delle potenzialità
"autoriali" della rete).
Non voglio e non posso scrivere molto, con sollievo di tutti: vorrei solo
indicare per punti quelli che sono stati, a mio parere, i punti più
delicati della discussione, i temi che hanno ricevuto attenzione e che
hanno fatto qualche progresso. Le mie saranno rozze semplificazioni, e
chiedo scusa a chi si è sforzato di articolare con finezza il proprio
pensiero.
Il rapporto tra scienza e tecnologia è di sicuro uno dei nodi più
problematici: e la discussione ha messo in luce posizioni diverse (da una
sostanziale inseparabilità delle due a una netta distinzione), che
tuttavia, a una più attenta analisi, si sono dimostrate meno divergenti. Si
tratta di un problema complesso, quindi non lo si può esaurire con una
descrizione unica, soprattutto se si tende alla semplificazione.
Il tema della responsabilità (diciamo responsabilità della tecnoscienza,
per evitare distinzioni difficili da precisare) è stato il tema centrale
del seminario: qui molti hanno espresso l'esigenza di un controllo sociale,
di tipo latamente "democratico", dell'attività tecnoscientifica, pur
restando problematici i modi, le forme e soprattutto l'efficacia di questo
controllo. La democrazia si scontra con la diversità di competenze,
preparazione, sensibilità... in definitiva con la diversità e l'unicità
degli individui.
22 febbraio 2003
Il seminario è servito anche a mettere meglio a fuoco il concetto di
democrazia, che si rivela sempre più problematico e che meriterebbe un
approfondimento ulteriore.
Come andrebbe approfondito il problema del rapporto naturale-artificiale
sollevato da Sylvie Coyaud nel suo quizzario, tema sul quale peraltro molto
è stato scritto. La stessa Sylvie Coyaud (di spirito profetico dotata?) ha
toccato un tema, quello della libertà d'insegnamento (Darwin e la Bibbia),
che in questi giorni è venuto alla ribalta (con mia sorpresa, debbo dire,
perché lo pensavo relegato in luoghi esotici) proprio a proposito del
creazionismo...: "Se schiavi se lacrime ancora rinserra, è giovin la Terra"
(è una citazione dalla poesia "Sopra una conchiglia fossile del mio studio"
dell'abate Zanella: siamo, credo alla fine dell'Ottocento, guarda un
po'...).
Ma, a prescindere dai temi trattati o toccati o sfiorati, il seminario mi
ha dato una grande, confortante impressione di simpatia condivisa: ho
avvertito una volontà collaborativa, uno sforzo intriso di umanità. Debbo
ammettere che, anche, e forse soprattutto, in questo senso, sono stato
molto arricchito dal contatto con i miei interlocutori: non mi sono mai
sentito al centro di un cerchio, ma in bilico su un nodo di una rete
intramata di aspirazioni, timori, ansie, incertezze. Dai partecipanti più
giovani, ancora studenti, a quelli più vecchi, consumati navigatori nel
mare della riflessione e del sapere, tutti hanno portato un contributo,
un'incertezza, un'ipotesi, una proposta. Mi ha fatto bene, questo incontro.
Non è il caso che continui: levo metaforicamente il calice e brindo alla
vostra salute, alla vostra vita.
Giuseppe O. Longo
70 From: "Corrado Del Bo'" <delbo@f...>
Date: Fri Feb 21, 2003 7:07 pm
Subject: Si chiude (stavolta davvero)
Cari amici,
con le conclusioni di Giuseppe O. Longo, che dovreste aver ricevuto
nel primo pomeriggio di oggi, si chiude ufficialmente il Forum
avviato il 10 febbraio scorso. Durante il week end, provvedero' anche
a cancellare i vostri indirizzi email dalla lista.
Spero tuttavia che vogliate rimanere in contatto con la Fondazione
Bassetti, e per questo vi rinvio al sito
<https://www.fondazionebassetti.org>, dove troverete tutte le
informazioni necessarie per essere aggiornati sulle nostre
iniziative.
Vi ringrazio, a nome della Fondazione Bassetti, per aver partecipato
al Forum e vi saluto cordialmente.
Corrado Del Bo'
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