v-mov.gif (1033 byte)Questo documento è un ramo di "Spunti per un dibattito sull'innovazione", di Paolo Schmidt di Friedberg
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Data: 15 novembre 2002
Da: Carlo Penco ( * )
Oggetto: Commento allo scritto di Paolo Schmidt di Friedberg

Ho letto con attenzione e interesse il breve scritto di Paolo Schmidt di Friedberg come pure le opinioni di altri visitatori del sito.

Non è facile fare i conti con un testo così sintetico e, forse, un po’ datato. Sarebbe stato sicuramente più facile, per noi lettori, trovarci di fronte ad un’argomentazione più articolata. Sarebbe anche interessante sapere se l’Autore avrebbe mantenuto, sino ad oggi, le sue posizioni di fiducia nella scienza e di ottimismo nelle capacità dell’umanità di migliorare attraverso la ricerca innovativa. Dagli inizi degli anni ’80, infatti, il mood verso il progresso e, in particolare, verso la scienza, come motore dell’evoluzione, è stato fortemente incrinato nella sensibilità occidentale da esperienze tragiche ed inquietanti.

Come studioso di filosofia, mi sento di dover prendere in considerazione con estrema serietà il discorso di Paolo Schmidt di Friedberg. A lui va sicuramente il merito di aver provato (e in questo rischiato) a esprimere in termini teoretici il suo modo di vedere. Così facendo egli, dal mio punto di vista, ha prodotto due importanti conseguenze: ha reso comprensibile a noi il suo pensiero e, soprattutto, si è messo in dialogo con noi, anche al di là dei limiti fisici della sua presenza.

Per me questo vuol dire cominciare a "fare filosofia".

Entrando, di fatto, in una dimensione dialogica, il pensiero di Paolo Schmidt di Friedberg si apre all’esegesi, in altre parole alle nostre interpretazioni, e alla nostra critica, vale a dire alle nostre considerazioni.

Vorrei esprimere qui, appunto, le mie interpretazioni e le mie considerazioni, cercando in questo modo di dinamizzare ulteriormente il "fare filosofia" iniziato da Paolo Schmidt di Friedberg.

L’elemento più rilevante che mi sembra di cogliere nel testo di Paolo Schmidt di Friedberg è l’idea che la storia dell’umanità abbia un senso, una direzione, tracciata dall’innovazione, e che questo fine sia positivo. Ma è veramente così? Penso che questa asserzione vada relativizzata sia in senso storico che diacronico.

L’idea di telos, di un fine non teologico ma ugualmente immanente e positivo per l’umanità è qualcosa di estraneo, oggi, alla maggioranza delle comunità umane. Più in generale, quanti sono gli umani che si pongono il problema in questi termini? (dove stiamo andando? che senso ha tutto quello che le generazioni hanno prodotto?). Intere culture non conoscono questo quesito o, al più, lo risolvono con una soluzione teologica. Non parlo di popoli remoti che vivono ai margini dello sviluppo o "fuori dalla storia". Gli evoluti e tecnologicissimi Giapponesi non hanno mai avuto, nella loro millenaria cultura, un approccio di questo tipo alla storia. E così pure gli emergenti Cinesi che oggi contendono ai primi fortuna e sviluppo.

Ma anche molto più vicino a noi, i nostri amici e alleati Nord Americani si dividono, e non da oggi, tra chi sostiene che "la storia sia già finita" e chi è in attesa dell’imminente Amaghedon tra i paladini del bene (sostanzialmente gli stessi Nord Americani) e il regno del male (impersonato sino a 20 anni fa dai comunisti sovietici sostituiti, di recente, dagli Islamisti).

Quindi chi resta? Sono sostanzialmente d’accordo con Paolo Schmidt di Friedberg: noi europei occidentali, noiosamente legati alle tradizioni e alla nostra phylosophia.

Anche dal punto di vista storico, ci dovremmo porre dubbi intorno alla concezione di un telos progressivo. L’idea di progresso (intendendo come progresso l’effetto incrementale dell’innovazione che si rivela positiva, vincente) si è, in realtà, affermata nella cultura occidentale abbastanza recentemente e, a dire il vero, non mi sembra che oggi goda di buona salute.

Se si parla di miglioramento delle condizioni materiali, di nuovo ci dobbiamo restringere in un orizzonte limitato e che, pare, tende a restringersi ulteriormente. Per pochi che godono di condizioni di vita "moderne" ci sono moltitudini che non hanno di che vivere o sopravvivono senza le risorse fondamentali. La cosa più orribile è che molti nascono oggi avendo meno possibilità di accedere a queste risorse di quante avessero i loro padri e/o i loro nonni. Questo avviene (nel disinteresse dei più fortunati Occidentali) in grandi continenti sia pure lontani come l’Africa e il Sud America ma anche in paesi a noi vicinissimi (come i Balcani o le nazioni dell’ex Unione Sovietica).

Mettiamo anche a fuoco gli effetti secondari dell’innovazione e del progresso nell’area ristretta del 1° mondo. Certo è scomparsa la fame, la povertà è ridotta, i più hanno accesso ad opportunità mai immaginate prima, si muore di meno e si vive di più. Ma a che prezzo? Distruzione delle risorse ambientali non rinnovabili sino a compromettere i meccanismi biologici di base che hanno prodotto le stesse condizioni dello sviluppo della nostra cultura (ad es. la stabilità e la prevedibilità del clima).

Io non credo all’idea di progresso e alla centralità dell’innovazione nella storia dell’umanità come è affermata da Paolo Schmidt di Friedberg. Penso che le cose siano più complesse e, a questo proposito, la tradizione filosofica occidentale è, per me, illuminante.

Sono convinto che nell’interpretare il rapporto tra innovazione e storia dell’umanità bisognerebbe introdurre una visione dialettica (intendo qui la dialettica della tradizione teoretica non la versione sovietica). In questa chiave, innovazione e conservazione, progresso e regresso sono destinati a persistere permanentemente nella nostra interpretazione del mondo. Come all’interno di una gigantesca miscelatrice, le componenti progressive si muovono dentro quelle regressive, anche se a tratti sembrano prevalere o regredire. Il gioco è infinito e, forse, casuale come facilmente potrebbero dimostrare i teorici del caos. Siamo noi che, in epoche diverse, interpretiamo e quindi vediamo il prevalere dell’uno o dell’altro all’interno del nostro foglio mondo, il nostro universo di segni che altro non è che un’analogia della realtà. È, per le nostre menti e i nostri occhi, logicamente necessario.

Queste considerazioni valgono anche per il solido mondo della scienza e della tecnica, per i loro strumenti, per il loro campo d’azione e per le conseguenze che esse producono.

Non sono un irrazionalista o un oscurantista, non disprezzo la scienza e la tecnica alle quali riconosco ampiamente i successi. Penso, tuttavia, che sia a-scientifico portare la scienza fuori dai suoi confini. È quello che ha fatto Paolo Schmidt di Friedberg e che fanno spesso molti scienziati quando trattano di questioni filosofiche senza gli adeguati strumenti. Se ne traggono, di conseguenza, affermazioni dogmatiche e ingenue. Dogmatiche perché esprimono contenuti che si pretendono universali quando sono, invece, personali e non argomentati. Ingenue perché si espongono facilmente a confutazioni.

Non è sufficiente invocare il diritto degli uomini di scienza di intervenire su questioni filosofiche collaterali al loro campo o, più in generale, riguardanti grandi problemi d’attualità come quella affrontata da Paolo Schmidt di Friedberg o altre ancora (responsabilità, bioetica, etica tout court, ecc.).

Sono convinto che un po’ più di familiarità con la tradizione filosofica nel suo complesso, con il suo linguaggio e la sua logica aiuterebbe chi, mosso da cristalline intenzioni e autentico amore per la conoscenza (come Paolo Schmidt di Friedberg appunto), si avvicina a temi extra-scientifici.

Perché la tradizione filosofica è prima di tutto una disciplina che sviluppa, in chi la pratica, rigore e metodo, insegnando a non accontentarci delle nostre idee e delle nostre opinioni.

È, inoltre, il giacimento della biodiversità della cultura occidentale: lì si può trovare un repertorio infinito di idee e confutazioni con cui forgiare le proprie. Ma è anche un mondo aperto, dove nessuno può permettersi di dire "Io ho detto l’ultima parola" per quanto sia famoso, illustre e abbia venduto milioni di copie delle sue opere.

Da questo punto di vista la filosofia, quindi, non dà soluzioni conclusive, best way o best practice. Quest’aspetto mette, di solito, in allarme chi ha un’indole molto performantiva. Tuttavia, tecnici e scienziati, come businessmen, manager, politici, prelati, militari (come chiunque appartiene ad una élite che è chiamata ad esprimere opinioni e decisioni che possono avere conseguenze collettive) avrebbero grandi benefici dal recuperare una conoscenza della tradizione filosofica. Questa è, infatti, per definizione pragmatica, vale a dire insegna a riflettere correttamente sulle nostre pratiche e su quelle di chi ci ha preceduto al fine di migliorarle.